Durante il periodo di massimo sviluppo della civiltà picena, fra il VII e la prima metà del VI sec. a.C., le manifestazioni collettive religiose subiscono una profonda crisi causata dall'instaurarsi di una società aristocratica che antepone i valori dell'oikos (famiglia) e del genos (parenti) a quelli del gruppo di appartenenza. Le sommità delle montagne, le caverne, i laghi e le sorgenti d'acqua non rappresentano più, come nell'età del Bronzo, i luoghi preposti ai culti collettivi. Al loro posto si sviluppano, secondo una tendenza che era già iniziata ad imporsi alla fine dell'età del Bronzo, le forme di culto domestico rivolte ai patres e alle matres familias defunte e più in generale ai maiores. Espressione di questo culto, che finisce per assumere un carattere eroico e celebrativo, è la stessa complessità di alcune tipologie di tombe (a circolo e a tumulo) e la straordinaria ricchezza dei corredi che dimostrano, al di là dell'ostentazione del proprio status, l'esaltazione del ruolo dei morti nei confronti della società dei vivi, perseguita dai gruppi aristocratici secondo un modello simile a quello che si verificava in Etruria (1).

Nel corso del VI secolo a.C. e soprattutto dall'età tardo-arcaica, sembrano registrarsi i primi segni di ripresa di attività cultuale nei luoghi naturali (grotte, sorgenti, fiumi) che avevano caratterizzato l'età del Bronzo e l'esistenza, quindi, di specifici luoghi di culto. Le offerte votive del territorio marchigiano sono costituite da depositi più o meno cospicui e da bronzetti isolati, il cui contesto originario e ormai purtroppo perduto. I dati dei luoghi di culto si riferiscono spesso a materiali decontestualizzati come i bronzi e bronzetti figurati votivi, riferibili a produzione umbro-settentrionale ed etrusco-settentrionale, isolati o provenienti da stipi (es. Isola di Fano, stipe di Coltona a Cagli, il Marte da Attiggio, l'Ercole di Castelbellino, Minerva e Zeus di Apiro, il Giove di San Vittore di Cingoli), ex voto in lamina bronzea ritagliata in forma di schematica figura umana (es. Monte Primo di Pioraco, Montefortino di Arcevia, Civitalba di Sassoferrato) (2).

 

Offerte votive in territorio marchigiano (tratto da A. Naso, Piceni. Storia e archeologia delle Marche in epoca preromana, Longanesi, Milano 2000, p. 237)

 

Nel corso del VI sec. a.C. si verifica, quindi, un ritorno agli antichi culti comunitari in rapporto con le nuove realtà insediative di tipo vicanico. Ne è un esempio il deposito votivo rinvenuto sul colle di Sant'Andrea a Cupramarittima. Il luogo di rinvenimento è situato in un punto di passaggio tra l'area dell'abitato piceno e quella del più vicino corrispondente sepolcreto. Qui, all'interno di una canaletta conservatasi per circa 8 metri di lunghezza e 0,40 e 0,20 metri rispettivamente di larghezza e profondità, sono stati recuperati moltissimi oggetti miniaturizzati di impasto e modellati a mano: olle biansate, vasi biconici, tazzine biansate e monoansate, mestoli, fornelli, tripodi e altri oggetti pertinenti alla casa. Probabilmente in quest'area si celebravano dei rituali idrici di purificazione e di transizione tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Le forme vascolari sono per lo più le stesse rinvenute nelle tombe picene di Cupramarittima, Ripatransone e Grottammare, quasi tutte databili al VI - inizio V secolo a. C. E' ancora dubbia la presenza di vasetti più antichi databili all'VIII e VII sec. a.C. (3). 

Un deposito simile è stato scoperto nei pressi di Montefortino d'Arcevia non molto distante dalla necropoli gallica. I numerosi materiali documentano l'esistenza di un luogo sacro in cui è stato praticato un culto idrico a carattere terapeutico ed evidenziano almeno tre fasi distinte. Ad una prima fase (VI-V sec. a.C.) di tipo umbro-laziale, attestata da vasetti d'impasto e dagli ex-voto a figura umana in sottili lamine di bronzo, segue una seconda fase (III-II sec. a.C.) di tipo etrusco-laziale-campano connessa con la romanizzazione dell'area e alla quale si riferiscono le ceramiche a vernice nera, i votivi anatomici in terracotta, statuine e unguentari fittili. La terza fase, di tipo romano, è attestata dalla presenza di vasi fittili a fruttiera su sostegno (labra) connessi con il culto di Bona Dea, assimilabile alla dea Cupra del pantheon umbro-piceno (4). Alla fine dell'Ottocento lo studioso Brizio ipotizzava che il tempio di questo santuario poteva trovarsi sull'altura in cui insiste l'abitato di Montefortino, nelle vicinanze del quale, nei pressi di una sorgente, segnalava la presenza di resti di muratura in opera quadrata con blocchi di travertino (5).

Alla stessa epoca risalgono anche i più antichi materiali del deposito votivo di San Vittore di Cingoli.

 

Figura in assalto, Museo Archeologico di San Vittore di Genga (AN) (foto dell'autore, 28/02/2009)

 

Nei depositi votivi della fine del VI e inizio del V sec. a. C non è possibile identificare la divinità titolare del culto. In questa nuova fase tuttavia non vengono più offerti oggetti fittili bensì metallici, in particolare statuette di bronzo fuso a cera persa, sia di produzione locale che etrusca. 

Le statuette raffigurano offerenti o, più spesso, divinità locali con caratteristiche iconografiche delle divinità greche ed etrusche; oltre ad Ercole, Giove e Minerva sono molto diffuse le statuette di "Marte in assalto". 

I depositi votivi, sempre lontani dagli abitati, si trovano di solito presso corsi d'acqua o sorgenti come nel caso delle stipi di Isola di Fano e di Cagli; in altri casi invece sono stati individuati dei bronzetti isolati, come l'Ercole di Castelbellino, il Marte di Villa Ruffi di Rimini e il Giove di Firenzuola. 

 

 

Coperchio, tomba 14, loc. Pitino, San Severino Marche, fine VII - inizio VI sec. a. C. (immagine da: http://www.museibologna.it/archeologico/percorsi/48649/id/8994/oggetto/12146/)

 

 

Già durante il periodo orientalizzante erano comparse delle figure di esseri divini e demoniaci come elementi decorativi di particolari oggetti; è il caso della figura a testa umana inserita fra quattro protomi di animale (cavallo o lupo?). L'oggetto costituisce l'impugnatura di un coperchio circolare bronzeo rinvenuto nella tomba 14 della necropoli di Pitino di S. Severino Marche (MC). Attorno a questo "palo totemico" si dispongono due coppie alternate di opliti e arcieri in danza rituale. Viene attribuito a maestranze locali e datato alla fine del VII - inizio VI sec. a.C. (6). Altri esempi sono il "signore dei cavalli" (despotes ton hippon) raffigurato su alcune anse di idrie (7) e le figure femminili alate ("dee alate") da Belmonte Piceno che alcuni sostengono rappresentino la dea Cupra (8).

 

 

Figura femminile alata, tomba 83, Belmonte Piceno,  primo quarto VI sec. a.C. (immagine da: academia.edu/38234757/Belmonte_Piceno_2017_Complete_edition_of_the_museum_catalog_in_italian)

 

 

 

Ansa di bronzo con despotes ton hippon, tomba 163, Belmonte Piceno, prima metà del VI sec. a.C. (immagine da: academia.edu/4875717/I_Piceni._Storia_e_archeologia_delle_Marche_in_epoca_preromana_Biblioteca_di_Archeologia_29_Milano_2000)

 

"La rappresentazione del despotes ton hippon è tipica nelle anse di bronzo pertinenti ad hydriai; esse sono fornite, oltre che di anse orizzontali decorate da protomi equine divergenti, anche di due anse verticali con l'immagine di un personaggio maschile stante, affiancato da cavalli convergenti posti su un'asticella orizzontale di raccordo alla spalla del vaso; facilitano la saldatura del manico all'imboccatura due leoni distesi alle estremità di una seconda sbarretta situata all'altezza delle spalle o ai lati della testa del despotes.

Di queste anse di hydriai sono noti ben otto esemplari; i contesti di ritrovamento sono prevalentemente circoscritti al territorio piceno (coppie di anse da Sirolo, Treia, Tolentino, Belmonte Piceno) o nelle aree limitrofe (Foligno). Sussistono incertezze per la provenienza degli esemplari conservati al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia e al Museo Civico Archeologico di Bologna. L'unico esemplare scoperto in aree tirrenica è quello di Vulci.

Se lo schema generale di questa classe appare costante, vanno tuttavia segnalate due varianti principali, determinate dall'assenza o dalla presenza di aquile (Villa Giulia, Belmonte Piceno) ai lati della figura principale.

Inoltre, despotes può avere la testa scoperta (Vulci, Bologna) oppure protetta dall'elmo (attico nel tipo di Villa Giulia, corinzio per i bronzi di Belmonte Piceno, Foligno e Treia, che ha però un doppio lophos e orecchie equine o bovine).

Nell'esemplare di Sirolo, come in quello di Tolentino, il volto è inquadrato da un caschetto di capelli (o elmo aperto senza cimiero ?) dalla cui sommità si diparte verso la parte posteriore una sorta di protome leonina.

Il busto può essere protetto da un corsetto (Treia, Foligno, Villa Giulia) e il pube coperto da una sorta di perizoma (Bologna, Sirolo) o dal chitonisco (Belmonte Piceno), mentre in altri casi è ben evidenziato il fallo (Vulci, Treia, Foligno, Tolentino).

In alcuni esemplari il despotes tocca il muso dei cavalli (Bologna), ne afferra la criniera (Belinonte Piceno, Vulci) oppure ne trattiene le briglie (Treia, Villa Giulia), mentre nelle anse di Foligno, Sirolo e Tolentino gli avambracci della figura centrale restano nascosti dietro la testa dei cavalli.

Solo nel caso di Treia la sbarretta di supporto è sostituita da due serpenti, che si ritrovano anche nel becco delle aquile nelle anse di Belmonte Piceno.

Da un punto di vista iconografico, si deve notare in primo luogo che non sono state le hydriai laconiche ad aver introdotto in area medio-adratica l'iconografia del despotes ton hippon, da tempo diffusa nel mondo greco ed etrusco, e attestata nel Piceno a partire dall'ultimo quarto del VII sec. a.C.

In alcuni casi si tratta di un soggetto isolato, come quello che decora il coperchio della coppa in impasto dalla tomba n. 7 di Pitino di San Severino Marche (fine VII - inizi VI sec. a.C.), in cui una figura maschile si erge sul dorso di due cavalli affiancati, appoggiando le mani sulla sommità delle loro teste, secondo un'iconografia attestata anche in area tirrenica.

Allo stesso orizzonte cronologico (610-580 a.C. circa) appartiene un'olla di impasto buccheroide dalla tomba n. 3 di Pitino sulla cui spalla è un fregio continuo di grossi equini trattenuti per le briglie da figure maschili itifalliche. Nel disco-corazza da Torre dei Passeri, del tipo Numana (625-575 a.C. circa), un personaggio stante trattiene per le zampe un grosso animale bicefalo, con collo sinuoso e fattezze equine. Nel fregio centrale della pisside eburnea dalla tomba n. 15 di Pitino (fine V-inizi VI sec. a.C.) viene ripetuta per tre volte l'immagine del despotes tra due cavalli convergenti, con coda desinente in una protome teriomorfa; in un caso gli equini sono montati da due piccoli cavalieri, forse provvisti di elmo.

A questa serie, priva di un chiaro sviluppo narrativo, va aggiunta la testimonianza più articolata di due celebri dischi bronzei da Pitino di San Severino. Nell'esemplare dalla tomba n. 17 la figura del despotes, itifallica e con braccia sollevate sopra la piccola testa, si drizza sul domo di un cavallo a doppio avantreno, con il quale sovrasta un personaggio capovolto, con gambe divaricate e braccia aperte, in una scena oggetto di non univoche interpretazioni ma probabilmente riconoscibile come rappresentazione di una violenta sopraffazione del nemico.

Ancora più complessa è la raffigurazione del disco bronzeo dalla tomba n. 14. Un personaggio maschile procede a cavallo verso sinistra, accompagnato da un cane: lo stesso è rappresentato quale despotes theron tra due animali con lunghe fauci e lunga coda, mentre nella terza parte un cavallo e uno degli animali suddetti convergono verso la figura maschile, che se ne assicura il controllo tramite lacci. In questo caso il despotes sembra impegnato in una caccia alle fiere, con partenza a cavallo, cattura delle stesse e loro addomesticamento.

I manufatti sono stati rinvenuti in tombe chiaramente riconoscibili come emergenti e pertinenti a defunti di sesso sia maschile sia femminile. Da un punto di vista iconografico, il despotes è talora rappresentato itifallico, in un'ottica arcaica che interpreta la potenza sessuale come testimonianza del valore individuale e della prestanza. Si aggiunga che la presenza degli equini con code mostruose parrebbe segnalare che il despotes hippon è un essere dalla natura sovrumana capace di dominare daimones dalle fattezze equine, ben noti alla tradizione antica.

Rispetto a queste testimonianze degli ultimi decenni del VII-inizi VI sec. a.C., la produzione delle anse bronzee si segnala sia per elementi di continuità che di rottura. Anzitutto il despotes hippon finisce per scomparire dai manufatti di diversa tipologia e solo le hydriai sembrano essere state ritenute funzionali a veicolarne l'immagine e i contenuti semantici.

In secondo luogo, queste hydriai non rappresentano la continuazione di una forma usata in precedenza per ospitare le raffigurazioni del despotes hippon, né riproducono un vaso assimilabile a quelli della tradizione locale, ma imitano morfologie proprie della produzione vascolare greca. Un'altra novità è quella della standardizzazione dell'immagine, indotta a un modello autorevole e prestigioso che ha determinato la scomparsa di dettagli ricorrenti nelle realizzazioni precedenti, forse ritenuti non più attuali, come la rappresentazione del carattere mostruoso e sovrannaturale del cavallo. Un altro particolare ricorrente nella produzione di fine VII-inizio VI sec. a.C., qual è il riferimento alla potenza sessuale delle figure nude e itifalliche, sembra significativamente attenuato, benché il fallo resti uno dei pochi tratti a conservate una certa plastica evidenza.

D'altra parte, sembra costituire un elemento di continuità l'indicazione di una stretta relazione tra despotes e mondo animale, come suggeriscono le orecchie bovine o equine nell'esemplare di Treia, segno di una contiguità col mondo animale nel possesso dei valori di forza e potenza ferina che si vogliono minacciosamente esibire. In sostanza, il prototipo cessa di essere quello falisco-cepenate o etrusco, riconoscibile dietro la serie di VII-VI sec. a.C., per divenire quello laconico.

E' indispensabile ricordare che il mondo piceno di VII e VI sec. a.C. appare fortemente caratterizzato dall'ideologia e dall'uso del cavallo. Lo dimostra in primis l'elevato numero di sepolture fornite di uno o più carri, oltre ai vari rinvenimenti di morsi e cilindri cuspidali per briglie. A ciò si devono poi affiancare le molteplici testimonianze iconografiche che mostrano come a partire dall'VIII sec. a.C. il cavallo fosse uno dei soggetti privilegiati dell'imagerie locale. Nella produzione artigianale lo si vede semplicemente montato, rappresentato in scene di caccia e di guerra oppure impiegato in esercizi di abilità o nei rituali funerari. Non è comunque un caso che, a parte le figure isolate di equini, lo schema più volte attestato sia proprio quello del despotes ton hippon.

Dell'identificazione di questa figura si sono occupati soprattutto gli specialisti di ceramica geometrica greca, che l'hanno interpretata come Helios, Poseidon, un semplice cavaliere o un eroe. In particolare, per le nostre anse è stato avanzato il nome di Ercole, dei Dioscuri e, naturalmente, dello spartano Poseidon Hippokyrios, anche in questo caso non mancano quanti vi riconoscono una generica figura divina oppure un guerriero o un eroe, soprattutto per la presenza delle armi.

Sarebbe comunque imprudente indicare uno specifico teonimo perché, esclusa una prospettiva interpretativa puramente greca, si deve ammettere che ben poco sappiamo del pantheon piceno. La preesistenza del motivo iconografico rende verosimile supporre che la nuova versione greca dello schema possa essere stata concepita quale veste aggiornata di una figura tradizionale della mitologia locale, arricchita dal prestigio derivato da un modello di origine allogena.

Se consideriamo parallelamente l'impressionate testimonianza del coperchio di Pitino (tomba 14) e le numerose rappresentazioni di despotes hippon di VII e VI sec. a.C. già citate, sarebbe suggestivo intravedere nel pantheon locale l'esistenza di un dio dei cavalli, ora antropomorfo, ora con caratteri misti, ipotizzando che, come è stato messo in luce per il mondo greco ed etrusco, prima dell'acquisizione di un sembiante umano, le divinità picene siano state entità dall'aspetto mostruoso o quantomeno ibrido. Potremmo cioè ipotizzare la rappresentazione di una figura mitologica, per noi senza nome, chiaramente legata al dominio delle forze naturali, al loro addomesticamento e all'impiego del cavallo.

Se per la Grecia e l'Italia tirrenica la tradizione letteraria ci tramanda il ricordo di figure con tratti equini, si deve notare che la stessa area adriatica conosce questi personaggi collegati alla cavalleria, come ad esempio Diomede, che il Periplo dello Pseudo Scilace ricorda tra l'altro come oggetto di culto proprio presso Ancona. Soprattutto in Italia, questi sembra presentarsi come un dio domatore connesso alla hippotrophia e alla hippodamia, cioè all'addomesticamento, all'allevamento dei cavalli e persino all'introduzione di specifiche tecnologie equestri come quella del morso dentato. In tale processo di acquisizione di elementi allogeni, Diomede potrebbe essersi sostituito ad una precedente figura mitologica, arricchendosi di caratteri che lo rendono diverso rispetto al Diomede greco" (9)

 

Ansa in impasto configurata in forma di cavaliere, tomba 139, Belmonte Piceno, fine VII-inizi VI sec. a.C. (immagine da: comunebelmontepiceno.it/c044008/zf/index.php/servizi-aggiuntivi/index/index/idtesto/61)

 

 

Pendaglio configurato in cavallo con testa di uccello, tomba 137, Belmonte Piceno, VI sec. a.C. (immagine da: comunebelmontepiceno.it/c044008/zf/index.php/servizi-aggiuntivi/index/index/idtesto/61)

 

Nei bronzetti le divinità sono spesso raffigurate come dei veri e propri simulacri di culto raggiungendo in alcuni casi delle notevoli dimensioni; l'Ercole di Castelbellino, il Giove da Cagli, gli esemplari Ortiz di Ginevra e il Giove etrusco di Apiro superano i 40 cm. di altezza (10).

Numerosi simboli religiosi e apotropaici si possono riconoscere nelle decorazioni degli oggetti e nei pendagli: la mano, la ciprea, le corna, la doppia protome ornitomorfa collegata alla barca solare o alla ruota, la svastica sono elementi che affondano le loro origini in epoca preistorica e risultano comuni a numerose culture. E' difficile stabilire se questi simboli abbiano conservato nella cultura picena il contenuto ideologico originario o se invece siano da considerare come semplici riutilizzazioni decorative prive di ogni significato religioso-ideologico (11). L'insistente presenza, ad esempio, del simbolo delle "anatrelle" o "ocherelle" (12), molto diffuso negli oggetti dei corredi funerari del VII-IV sec. a.C., "potrebbe far pensare che esso conservi ancora una valenza protettrice e salvifica, quale animale psicopompo e che non si risolva in puro motivo decorativo" (13).

 

Pendagli a doppia protome taurina, Belmonte Piceno, VI sec. a.C. (immagine da: comunebelmontepiceno.it/c044008/zf/index.php/servizi-aggiuntivi/index/index/idtesto/61)

 

Per alcuni monili sarebbe da attribuire invece un doppio valore di ornamento e di amuleto al quale si riconosceva la virtù magica di allontanare o prevenire il male. E' il caso di "talismani" realizzati con ambra o corallo e monili formati da oggetti della vita quotidiana: conchiglie, denti di animale e punte di corno. In certi casi alcuni di questi oggetti venivano sostituiti da riproduzioni in metallo per dare probabilmente un maggior valore simbolico al monile.

Nei siti piceni di VIII-VI sec. a.C. sono piuttosto diffusi i pendagli a forma di manina aperta, simbolo chiaramente solare. Le cipree, come pendaglio singolo, ricorrono spesso nelle tombe femminili giovani; il valore di questo oggetto è probabilmente relativo al campo della fecondità, vista la somiglianza dell'apertura della conchiglia con l'organo genitale femminile. 

 

Pendaglio a conchiglia, Belmonte Piceno, fine VII-VI sec. a.C. (immagina da: comunebelmontepiceno.it/c044008/zf/index.php/servizi-aggiuntivi/index/index/idtesto/61)

 

Rimane ancora incerta la valenza funzionale e simbolica dei cosiddetti  “anelloni a nodi”, una categoria di oggetti anulari, con diametro variabile tra gli 11 e i 20 cm, realizzati mediante fusione e costituiti da una verga di bronzo piena, a sezione circolare, ornata lungo la circonferenza da nodi, di forma lenticolare o sferoidale, nel numero da un minimo di quattro a un massimo di sei. Dal VI sec. a. C., in un'area di diffusione piuttosto ristretta, compresa trai i fiumi Tenna e Tronto, si afferma l'uso di deporre questi oggetti in alcune sepolture femminili, sulla zona addominale-pelvica della defunta. Secondo Naso, sarebbe proprio la distribuzione topografica esclusiva nel distretto Cupra Marittima-Grottammare a connettere tali oggetti al culto della dea Cupra (14).

 

Anellone a nodi, collezione, collezione Gorga (immagine da: academia.edu/4839880/E._Biancifiori_Gli_anelloni_a_nodi_in_AA.VV._l_bronzi_della_Collezione_Gorga_Roma_2012_pp._366-372)

 

Luoghi di culto

Nelle Marche non sono stati rinvenuti resti architettonici di santuari né sicure frequentazioni rituali di grotte o ripari. Ciò sarebbe da imputare da una parte alla minore durevolezza del legno e dell'argilla e dall'altra alla scarsità di esplorazioni sistematiche, sia su vaste superfici adibite non a necropoli sia nei luoghi di rinvenimento di ripostigli e oggetti votivi (15). E' anche possibile che il culto non fosse praticato in edifici veri e propri, ma si svolgesse all'aperto entro recinti o costruzioni precarie (16).

Le fonti antiche ricordano l'esistenza di un santuario dedicato a Diomede menzionato in relazione agli Umbri medioadriatici (17) e alla dea Cupra nella zona di Cupra Marittima.

La dea Cupra sembra aver avuto una venerazione particolare presso i Piceni come conferma innanzitutto la toponomastica picena antica; nella descrizione di Plinio figurano infatti una Cupra oppidum (Cupra Marittima) e una popolazione di Cuprenses Montani (Cupra Montana) (18).

E' ancora dubbia l'esatta localizzazione del tempio a Cupra Marittima (19) così come quella di Cupra Montana.

"L'insediamento romano pertinente alla moderna Cupra Montana si trova a circa mezzo chilometro a nord dal centro attuale, e vanta, in effetti, la presenza dei resti di un grandioso santuario scoperti nel 1922. Ma non ci sono in realtà elementi per identificarvi quel santuario di Cupra a cui certamente la città deve il nome e che dovette costituire il fattore alla base della stessa aggregazione urbana. Nel dibattito va, però, ricordato che l'attiguo centro medioevale di Poggio Cupro, menzionato come (Castrum) Podii Cuprae dal Sarti (secondo cui sarebbe una forma più antica di quella in uso ai suoi tempi, che riporta, però, come Castrum Podii Cupi), sembrerebbe poter conservare nel proprio poleonimo la reminiscenza diretta del nome della dea Cupra" (20).

Le fonti antiche forniscono delle notizie molto importanti che costituiscono il punto di partenza per lo studio e l'identificazione di questa divinità. Silio Italico colloca lungo il litorale piceno i fumanti altaria Cuprae; Asinio Pollione definisce Cupra come Veneris antistita cioè sacerdotessa di Venere; Varrone accosta alla dea Cupra la latina Bona Dea, e spiega che al termine sabino cyprum corrispondeva il latino bonum; Strabone ricorda l'esistenza di un santuario dedicato alla dea Cupra fondato dai Tirreni, presso i quali Hera era chiamata Cupra. (21).

Il fatto che il santuario di Cupra sia il solo citato da Varrone per l'intera fascia medio e alto-adriatica dimostra la grande importanza che il santuario di Cupra ebbe nel panorama religioso e sociale dell'Italia adriatica.

Le più importanti attestazioni del culto della dea sono state finora rinvenute sul versante umbro dell’Appennino umbro-marchigiano. Si tratta di una serie di iscrizioni scoperte a Fossato di Vico (Helvillum Vicus) e Colfiorito (Plestia) sedi certamente di santuari della dea. Nell’iscrizione su lamina di bronzo redatta in alfabeto umbro rinvenuta nel 1868 presso Aja della Croce a Fossato di Vico e databile alla fine del II secolo a.C. e nelle quattro lamine di Colfiorito la dea è definita matrer (Mater). Le iscrizioni di Colfiorito, rinvenute nel 1962, e redatte in alfabeto umbro-etrusco sono databili almeno al IV secolo a.C. e costituiscono a tutt’oggi la più antica attestazione del nome della dea. Gli studi linguistici su alcune iscrizioni dimostrerebbero comunque una diffusione del culto di Cupra anche in altre località centro-meridionali dell’Italia (22).

 

Lamina di bronzo da Aja della Croce, Fossato di Vico (immagine da: academia.edu/2531560/Screhto_Est_Lingua_e_scrittura_degli_antichi_Umbri)

CVBRAR · MATRER · BIO · ESO
OSETO
· CISTERNO · N · C · V
SV
· MARONATO       IIII
V
· L · VARIE · T · C · FVLONIE

 

 

 

Lamina di bronzo da Colfiorito (immagine da: academia.edu/2531560/Screhto_Est_Lingua_e_scrittura_degli_antichi_Umbri)

cupras matres pletinas sacru esu

 

Fra i documenti epigrafici sono da ricordare l'iscrizione CIL 09, 5501 (EDR115842) interpretata da Calderini come una dedica a Cupra Obsequens (23) ma soprattutto l’iscrizione CIL 09, 5294 (EDR093988), un documento di grande importanza poiché testimonia il restauro del templum Deae Cuprae voluto dall'imperatore Adriano nel 127 d.C. e quindi una persistenza del culto fino al II sec. d.C.:

 

CVRRAE[---?]
Opseque[nti]
posueru[nt]

CIL 09, 5501

 

Imp(erator) Caesar divi Traiani
Parthici f(ilius) divi Nervae nep(os)
Traianus Hadrianus Aug(ustus)
pontif(ex) maxs(imus) trib(unicia) potesta(te) XI
co(n)s(ul) III munificentia sua
templum Deae Cuprae
restituit

CIL 09, 5294

 

L'iscrizione CIL 09, 5294, proveniente dall'area suburbana di Cupra Marittima, è attualmente murata su un pilastro della navata destra della chiesa di S. Martino a Grottammare. "Essa è tanto preziosa non solo in quanto documento relativo al tempio, ma anche perché rientra nel novero delle attestazioni epigrafiche del nome della dea Cupra, di fatto l'unica completamente certa dall'ambiente piceno; inoltre l'informazione che essa fornisce sul restauro adrianeo documenta la sopravvivenza del culto di Cupra fino all'inoltrata età imperiale" (24).

La dea Cupra sembra rientrare nella classe delle divinità il cui vero nome è per proibizione rituale inconoscibile al di fuori dello stretto ambito cultuale, celato dietro uno pseudonimo, realizzato con l'aggettivo "buona".

"Alla luce della parentela tra il sabino e gli altri dialetti italici, il nome della dea Cupra si può interpretare come femminile sostantivato dell’aggettivo sabino cupro-, con un significato equivalente a quello del latino bona: questo rivelerebbe quindi una corrispondenza onomastica tra la dea Cupra e la Bona Dea latina, come già avevano rilevato gli studiosi alla fine del secolo scorso. Molti studiosi hanno illustrato e precisato il ruolo di culti importati dall’Oriente greco-semitico in età arcaica, chiarendo il quadro assai complesso dei culti femminili nella Penisola, rivelando come essi siano riconducibili per la maggior parte alle varie manifestazioni della Astarte-Afrodite diffusasi sotto nomi diversi, e con sfumature e funzioni molto diverse tra loro, in tutte le culture. Per coerenza interpretativa la figura di Cupra umbro-picena deve venire accostata a questo tipo" (25).

Sulla base quindi delle fonti antiche, in particolare Varrone, la qualificazione della dea come mater e gli studi linguistici è possibile stabilire un legame tra la dea Cupra appenninica e le Veneri del pantheon italico o più in generale con una divinità femminile legata alla fertilità e con i caratteri tipici dell’Astarte-Afrodite greco-semitica giunta in Italia tramite le rotte commerciali intorno al VII secolo a.C. di cui fanno parte, oltre a Cupra, la Uni (-Thesan) di Pyrgi, la Northia di Volsinii, le Fortune del mondo laziale, Mater Matuta, Bona Dea, Libitina, Venere e Giunone (26).

Il substrato sacrale della Dea Madre riaffiora nel culto delle acque, dispensatrici di fecondità e di vita, come dimostrano i contesti santuariali della dea Cupra. Le già citate iscrizioni di Colfiorito e Fossato di Vico sono state rinvenute in contesti idrici così come la stipe votiva di Cupra Marittima.

Il santuario di Aja della Croce di Fossato di Vico fu esplorato parzialmente nel 1869, l'anno di rinvenimento della lamina, e poi in maniera più sistematica nel 1918 sotto la direzione di E. Stefani. Esso si sviluppa su un sistema di terrazzamenti artificiali in un poggio che domina la vallata su cui transitava la via Flaminia e dalla quale si distaccava il diverticolo per Ancona, altra importante via di comunicazione.

Gli scavi del 1869 portarono alla luce una fossa scavata nella roccia con all'interno una notevole quantità di materiale architettonico e vascolare: alcuni rocchi di colonna di travertino bianco scanalato e due capitelli dorici, una piccola base di calcare e alcuni pesi da telaio (tipici elementi che si addicono ad un culto femminile). Ed è proprio da questo deposito che negli strati più superficiali venne alla luce il reperto più importante, una lamina di bronzo iscritta fissata con piombo fuso all'orlo superiore di un dolio in terracotta. La cavità individuata, rivestita in cocciopesto, è interpretabile come una cisterna per la conservazione dell'acqua, trasformata poi in deposito al momento dell'abbandono del santuario.

"Come aveva già ipotizzato lo Stefani, il pezzo può costituire quanto resta della vèra che definiva in superficie l'imboccatura della medesima cisterna, secondo un sistema di delimitazione dei pozzi che ha precedenti nel mondo greco, dove infatti potevano essere impiegati bassi orli circolari in terracotta o pithoi parzialmente interrati" (27). Il rinvenimento, nel 1869, di altri frammenti di terracotta all'interno della fossa farebbe supporre che la vèra circolare altro non sia stata che un puteal fittile.

"I capitelli ed i rocchi scoperti nella cisterna di Fossato, realizzati in travertino e pertinenti a due colonne di ordine dorico, potrebbero costituire gli elementi architettonici superstiti di una struttura funzionale, nella fase monumentale del santuario, a marcare e cingere enfaticamente il puteal e la sottostante cisterna. Considerate anche le contenute dimensioni in altezza delle due colonne, queste sembrano infatti costituire quanto resta di una tholos o monopteros, evidentemente coperto come dimostra la contestuale presenza di tegole e coppi nel deposito, destinato quindi a sancire visivamente e materialmente, ovvero a tutelare, il carattere sacrale del pozzo e dell'acqua contenuta all'interno della cisterna" (28).

La cisterna fu nuovamente esplorata da Stefani nel 1918. "Dopo pochi saggi infruttuosi, il terzo giorno dall'inizio del lavoro, venne scoperto l'orlo superiore della 'buca rotonda' parte della quale inoltravasi al di sotto della macèra che limita a nord la proprietà Micheletti. Demolita la macèra, ed abbattuto l'olmo che era stato piantato in mezzo alla buca, si procedette al vuotamento di questa. Dal cavo si estrassero pezzi informi e schegge di calcare, parecchi frammenti di tegole e embrici, qualche frammento dì anfora e vasi grezzi, alcuni pesi da telaio a tronco di piramide, due piccoli frammenti di pietra scorniciata, uno scheggione di base di colonnina in calcare, la parte inferiore di una basetta, pure della stessa pietra, dei residui insignificanti di vasi vitrei e qualche chiodo di ferro. La buca, incavata con molta accuratezza nella roccia, aveva forma cilindrica, e misurava esattamente m. 3 di profondità e m. 2,30 di diametro. In fondo ad essa era stata praticata una cavità imbutiforme di m. 1,64 di diametro e profonda cm. 55. Siamo perciò dinanzi ad una vera e propria cisterna, specialmente caratterizzata dalla suddetta cavità imbutiforme e da alcuni residui di un rivestimento di cocciopisto, che fu notato all'atto della scoperta" (29).

In tutta l'area circostante si eseguirono dei saggi di scavo che portarono alla scoperta di "due grandi vasche contigue, con fondo e pareti rivestiti di cocciopísto, munite dei soliti cordoni e dipinte in colore rosso, misuranti, l'una, — la più prossima alla cisterna — m. 5,60 di larghezza, l'altra, m. 4,30. Entrambe le vasche erano state in gran parte distrutte da una cava di pietra, dì cui vedevasi ancora la depressione, ma la loro lunghezza doveva certamente superare i m. 7,50. In mezzo alla terra estratta dalle vasche si trovarono parecchi frammenti di embrici e di tegole, e due pesi da telaio" (30).

Il settore del santuario con la cisterna e le due vasche occupava solo uno dei terrazzamenti del poggio. L’area sacra, tuttavia, comprendeva un altro importante settore esplorato sulla sommità del colle (toponimi "Aja Piccini" e "Aja della Madonna del Carmine") sempre dallo Stefani che scoprì una serie di ambienti, un vano pavimentato con coccipesto e un ambiente con un pavimento a mosaico.

"Un terzo saggio, aperto in prossimità della balza che limita ad ovest la spianata, portò alla scoperta, a circa cm. 40 di profondità, di un ambiente con pavimentazione a mosaico, in gran parte avvallato e screpolato, fatto con tessere bianche e nere su fondo di cocciopisto rossastro (...) Tale pavimentazione constava di un'area quadrata, di m. 5 di lato, costituita da due zone a meandro separate da una a rombi disposti su tre direzioni diverse formanti dei cubi visti prospetticamente, da un'altra a torri e mura meniate, e, infine, da una quinta zona a squame. La parte centrale del mosaico manca completamente. Il pavimento, sui lati nord ed est, era circondato da una zona a tessere bianche e nere formanti un disegno a scacchiera, mentre sul lato ovest era un'ampia zona a linee oblique intersecantisi formanti un disegno a rombi. Presso l'estremità nord della parete orientale del pavimento, si trovarono parecchi frammenti di intonaco dipinto, che originariamente doveva decorare la parete stessa. Tali frammenti si dividono in due gruppi: l'uno, il più numeroso, a rombi dí colore bruno, verde e bianco formanti un disegno a cubi prospettici, perfettamente eguale a quello in mosaico del pavimento, l'altro, imitante un marmo a venature variopinte" (31).

Per quanto riguarda la datazione del complesso santuariale, Marcattili fa notare che "già l’organizzazione scenografica a terrazze, la tipologia dei capitelli rinvenuti nella cisterna e la cronologia proposta per la lamina suggerivano una datazione nell’ambito della seconda metà del II secolo a.C., e tale cronologia è confermata proprio dai motivi ornamentali della pavimentazione musiva e degli intonaci" (32).

Risulta ovvio, pertanto, che nel culto di Cupra l'elemento acqua fosse predominante; questo forte legame con l’acqua è ribadito anche in altri contesti: il santuario di Colfiorito e la stipe votiva di Cupra Marittima, costituita da oltre duemila vasetti miniaturistici ad impasto probabilmente associati ad una vicina sorgente.

Il santuario di Colfiorito, rinvenuto in località La Capannaccia in seguito a scavi condotti negli anni '60 del XX secolo, sorgeva tra la sponda meridionale del Lacus Plestinus, prosciugato dai Varano nel XV secolo, e l'attuale palude di Colfiorito. Fu fondato probabilmente intorno al VI sec. a.C. in un luogo occupato in precedenza da un insediamento dell'età del Ferro. L'abbondante materiale recuperato attesta una frequentazione dal VI sec. a. C fino all'età tardorepubblicana.

"La fase arcaica, cui non possiamo attribuire alcuna struttura muraria, è attestata da migliaia di bronzetti votivi, alcuni vere e proprie statuine, ma la maggior parte di tipo schematico raffiguranti figure maschili di guerrieri e femminili di oranti, e animali, da una stipe di vasellame ceramico databile al V secolo a. C e da numerosi oggetti di varia natura (ornamenti personali, dadi, fusi e fusaiole, pesi da telaio, balsamari, etc.) alcuni dei quali estremamente significativi sulla natura della dea Cupra cui è dedicato il santuario quali il montante lunare di bronzo, una conchiglia di bronzo, gli oggetti legati alla filatura e alla tessitura. Inoltre la maggior parte dell'abbondante vasellame rinvenuto, ceramico e vitreo, è legato all'acqua e all'uso dell'acqua" (33).

A questa fase più antica del santuario appartengono le quattro lamine bronzee iscritte con la dedica alla dea Cupra, "madre dei Plestini". In due casi le lamine sono state rinvenute ripiegate più volte su se stesse, in modo da far supporre un intervento di intenzionale distruzione. Almeno in un caso una delle lamine presenta lungo il margine inferiore destro un piccolo foro, relativo forse al suo fissaggio ad un supporto (34).

Dopo la conquista romana (III sec. a.C.) fu probabilmente costruito il sacello con muri in blocchi di calcare. Tra il materiale votivo di questa fase ci sono gli oggetti tipici di una frequentazione coloniale: ex voto anatomici, statuetta di Ercole, ciotole a vernice nera con nomi o lettere iscritte, monete. Il santuario fu poi abbandonato in età tardorepubblicana quando, con ogni probabilità, si costruì il tempio dedicato al culto imperiale e riportato alla luce sotto la chiesa di S. Maria di Pistia.

Il ruolo sacrale svolto dall'elemento acqua nei riti della dea Cupra è assimilabile a quello della "omologa" Bona Dea (e, in parte, con Venere) (35); il confronto tra le evidenze archeologiche riferibili alle divinità possono contribuire, da una parte a confermare ulteriormente la radice comue delle due divinità, e dall'altra a spiegare con maggior dettaglio i rituali che venivano praticati nei santuari della dea Cupra.

Secondo la versione più antica del mito, Bona dea era figlia di Fauno mentre secondo una tradizione più recente sarebbe moglie, e forse anche sorella di Fauno, da lui percossa ed uccisa con rami di mirto. Era una Dea della fecondità e della salute ed era oggetto di culto esclusivamente muliebre, che culminava in una festa notturna, celebrata agli inizi di dicembre, a carattere misterico, alla quale partecipavano nobili matrone romane ed anche le Vestali. Aveva luogo nella casa di un magistrato cum imperio, appositamente ornata di viticci e di fiori, escluso il mirto. Le offerte votive erano costituite da una scrofa incinta e dal vino, donato però col nome di latte.

E' legata, in origine a forme di vita pre-urbana a sussistenza pastorale e predilige luoghi elevati e scoscesi, in prossimità di corsi d'acqua o sorgenti purissime, di per sé garanzia di buona salute. Di conseguenza sono frequenti le sue successive contaminazioni, frutto di incroci culturali, con altre divinità dalle evidenti caratteristiche  tumaturgiche, che presiedono la fecondità e la riproduzione, come Igea, Magna Mater, Cerere-Proserpina, Diana, Venere, Caelestis, Fortuna-Tyche (36).

L'acqua utilizzata nei santuari era funzionale alle lavationes (37), "liturgie connesse ai passaggi di status delle donne, alle nozze in particolare, e nelle quali l’acqua era utilizzata sia per il lavacro della statua di culto - come per Venere avveniva in occasione dei Veneralia del 1° aprile -, sia per il bagno delle devote che, attraverso queste abluzioni rituali, si preparavano al meglio per un’unione sessuale auspicata feconda" (38).

"Ora le evidenze archeologiche rivelano in modo piuttosto chiaro i luoghi e gli impianti in cui tali lavacri si svolgevano. Per Afrodite-Venere si possono ricordare la piscina nei pressi del foro della colonia latina di Paestum, oppure, sempre a Paestum, gli strongyla ("cerchi") del santuario extraurbano di Santa Venera, apprestamenti circolari aperti sulla fronte e rivestiti in marmo e cocciopesto, organizzati in due sistemi distinti funzionali a riti iniziatici di lavatio riservati alle donne. Per Bona Dea, invece, è proficuo menzionare le due vasche quadrangolari ín opera reticolata rivestite in cocciopesto portate in luce nel cortile del santuario ostiense della regio V dove è stato dedicato da Terentia il suddetto puteal, o gli apprestamenti balneari — sempre in numero di due — nel complesso dell'altro tempio di Bona Dea ubicato fuori Porta Marina" (39).

Se si considerano i dati archeologici che dimostrano una frequentazione etrusca in siti interni connessi con le principali vie di comunicazione fra l'Adriatico e il Tirreno (si ricordi gli oggetti d’artigianato etrusco trovati nelle tombe di Matelica, Fabriano, Pievetorina, Pitino di S. Severino Marche, Tolentino), la notizia di Strabone che vede gli Etruschi come i fondatori del santuario di Cupra Maritima, le fonti epigrafiche (lamelle di Fossato di Vico e Colfiorito) che testimoniano la presenza del culto della dea Cupra lungo la dorsale umbro-marchigiana in due importanti punti di valico, si può ipotizzare che "genti etrusche siano giunte attraverso l’Appennino umbro-marchigiano sulla costa adriatica fondando un santuario dedicato ad una divinità che poteva riassumere gli aspetti della volsiniense Northia e della pirgense Uni con quelli di una figura già presente nel pantheon umbro-piceno e che avrebbe espresso al meglio queste caratteristiche in un sito emporico, come quello di Cupra Maritima, che doveva garantire proficui rapporti col mondo greco, padano e nord-europeo" (40).

 

Guerriero etrusco offerente, da Ripatransione, prima metà VII sec. a.C. (immagine da: academia.edu/4875717/I_Piceni._Storia_e_archeologia_delle_Marche_in_epoca_preromana_Biblioteca_di_Archeologia_29_Milano_2000)

 

Allo stato attuale delle ricerche, la continuazione di culti locali in manifestazioni religiose di epoca romana è in alcuni casi soltanto ipotizzabile. Esempi potrebbero essere quelli connessi con la navigazione di Venere Euplea ("dea della buona navigazione") e di Juppiter Serenus (CIL XI, 6312) attestati rispettivamente nel tempio di Ancona e nel promontorio di Gabicce (41). La continuità e la sovrapposizione a più antichi culti locali è invece sicuramente attestata nei depositi votivi di Montefortino d'Arcevia e di Isola di Fano e nei santuari termali di Cupra Marittima e di San Vittore di Cingoli (42).

In mancanza di sicure evidenze archeologiche, l'esistenza dei luoghi di culto è ipotizzabile solo in quelle località dove sono stati rinvenuti i depositi votivi (43). Come già è stato detto essi si trovano al di fuori o lontani dagli abitati e dai sepolcreti; spesso situati sulle sponde dei fiumi o torrenti (Isola di Fano e Castelbellino), presso le sorgenti (Coltone di Cagli e Montefortino), in punti particolari lungo vie di comunicazione (Corinaldo) o in zone montane e submontane (Monte Primo, Monte Valmontagnana). Da segnalare che l'area di distribuzione dei depositi a bronzetti sembra ricalcare, a partire dal 500 a.C. e ad eccezione di Ripatransone e Porto San Giorgio, quella della ceramica attica (44). 

 


Revisione articolo 23 luglio 2021

(1) G. Colonna, Le forme della devozione, in AA.VV., Piceni. Popolo d’Europa, Catalogo della mostra (Francoforte - Ascoli Piceno - Chieti, 1999-2000), De Luca, Roma 1999, p. 89

(2) G. Tagliamonte, Santuari e luoghi di culto preromani nell'Italia medio-adriatica, in E Govi (a cura di), La città etrusca e il sacro. Santuari e istituzioni politiche. Atti del Convegno (Bologna 21-23 gennaio 2016), Bologna 2017, p. 428

(3) G. Baldelli, Deposito votivo da Cupra Marittima, località Sant'Andrea, in  M. Pacciarelli  (a cura di), Acque, grotte e Dei. 3000 anni di culti preromani in Romagna, Marche e Abruzzo, Fusignano 1997, pp. 161-171

(4) M. Landolfi, Montefortino di Arcevia, in  M. Pacciarelli  (a cura di), Acque, grotte e Dei, cit., pp. 172-179

(5) E. Brizio, Notizie degli Scavi di Antichità, 1893, p. 191 - E. Brizio, Montefortino (frazione nel Comune di Arcevia). Sepolcreto gallico scoperto in vicinanza dell'abitato, in "Notizie degli Scavi di Antichità", 1896, pp. 3-13; E. Brizio, Il sepolcreto gallico di Montefortino presso Arcevia, in "Monumenti Antichi dell'Accademia dei Lincei", IX, 1899, cc. 617-791

(6) M. Landolfi, Coperchio con figure plastiche, in Piceni. Popolo d’Europa, cit., p. 250, scheda n. 433

(7) Gli oggetti sono stati rinvenuti nelle necropoli di Belmonte Piceno, Tolentino e Foligno; attribuiti a maestranze locali sono datati entro la prima metà del VI sec. a.C., M. Landolfi, Coppie di anse di bronzo. Ansa di bronzo, in Piceni. Popolo d’Europa, cit., p. 246, schede n. 407, 408, 410

(8) G. Rocco, Figure femminili alate, in Piceni. Popolo d’Europa, cit., p. 232, scheda n. 361

(9) T. Ismaelli, Hippodamoi piceni. Alcune considerazioni sulle anse bronzee con despotes ton hippon dal Piceno, in G. Tagliamonte (a cura di), Ricerche di archeologia medio-adriatica. I. Le necropoli: contesti e materiali, Atti dell'incontro di studio (Cavallino-Lecce, 27-28 maggio 2005), Congedo Editore, 2008, pp. 43-64

(10) G. Colonna, Le forme della devozione, in AA.VV., Piceni. Popolo d’Europa, cit., p. 90

(11) D. Lollini, La civiltà picena, in AA.VV., Popoli e civiltà dell'Italia antica, Roma 1976, p. 179

(12) "Generici volatili che sono raffigurati, a tutto tondo o nella decorazione lineare, ma sempre in maniera schematica, spesso altamente stilizzata in numerosi oggetti del corredo funerario" che simboleggiano "le anime dei morti che accompagnano il sole nel suo viaggio notturno nel mondo sotterraneo": L. Franchi dell'Orto, Le "anetrelle": sopravvivenza di una simbologia religiosa dell'età del Bronzo europea, in AA.VV., Piceni. Popolo d’Europa, cit., p. 91

(13) L. Franchi dell'Orto, Le "anetrelle", in AA.VV., Piceni. Popolo d’Europa, cit., p. 92

(14) A. Naso, Piceni. Storia e archeologia delle Marche in epoca preromana, Longanesi, Milano 2000, p. 241. In virtù della circoscritta area di attestazione degli anelloni, Gabriele Baldelli ha attribuito agli anelloni il valore di indicatori archeologici di un’altra possibile aggregazione dal significato etnico e politico nell’ambito di un ipotetico sistema territoriale piceno a carattere cantonale, E. Biancifiori, Gli anelloni a nodi, in M. G. Benedettini (a cura di), Il Museo delle Antichità Etrusche e Italiche III. I Bronzi della Collezione Gorga, Officina Edizioni, Roma 2012, (pp. 366-372), p. 366

(15) G. Baldelli, I luoghi di culto. Marche, in AA.VV., Piceni. Popolo d’Europa, cit., p. 86

(16) A. Naso, Piceni. Storia e archeologia delle Marche in epoca preromana, cit., p. 235

(17) Pseudo Scilace, Periplo, 17: "Dopo i Sanniti c'è il popolo degli Umbri, cui appartiene la città di Ancona. Tale popolo venera Diomede, avendone ricevuti benefici, e c'è un tempio in suo onore. La navigazione lungo le coste dell'Umbria dura due giorni e una notte" (Μετὰ δὲ Σαυνίτας ἔθνος ἐστὶν Ὀμβρικοὶ, καὶ πόλις ἐν αὐτῷ Ἀγκών ἐστι. Τοῦτο δὲ τὸ ἔθνος τιμᾷ Διομήδην, εὐεργετηθὲν ὑπ' αὐτοῦ καὶ ἱερόν ἐστιv αὐτοῦ. Παράπλονς δε της Όμβριχης έβτϊν ημερών δνο καϊ ννχτός)

(18) Plinio, Naturalis Historia, III, 110-111: Quinta regio Piceni est (...) Cupra oppidum (...) Cuprenses cognomine Montani

(19) A. Calderini, Cupra un dossier per l'identificazione, in "Eutopia" I, 1-2, Edizioni Quasar, Roma 2001, pp. 48-49; T. Capriotti, Il santuario della dea Cupra a Cupra Maritima: una proposta di ubicazione, in L. Braccesi - F. Raviola - G. Sassatelli, "Hesperia. Studi sulla grecità di occidente", 26, L’Erma di Bretschneider, Roma 2010, pp. 7-159

(20) A. Calderini, Cupra un dossier per l'identificazione, cit., p. 50

(21) Silio Italico, Punica, VIII 431-432: et quis litoreae fumant altaria Cuprae; Asinio Pollione, in Flavio Sosipatro Carisio, Artis grammaticae, I, 100, 24: veneris antistita Cupra; Varrone, De lingua latina, V, XXXII:, Vicus Cyprius a cypro, quod ibi Sabini cives additi consederunt, qui a bono omine id appellarunt: nam cyprum Sabine bonum; Strabone, Geografia, V, 4, 2: Εφεξη̃ς δὲ τὸ τη̃ς Κύπρας ̉ϊερόν, Тυρρηνω̃ν ̉ίδρυμα καὶ κτίσμα˙ τὴν δ’Ήραν ε̉κει̃νοι Κύπραν καλου̃σιν

(22) "Altre possibili attestazioni del teonimo Cupra hanno una distribuzione areale molto più vasta, sempre, comunque, all'interno dei territori degli Italici e pongono la questione di una eventuale natura panitalica della dea, giacché, se confermate, ne estenderebbero il culto all'intero mondo italico", A. Calderini, Cupra un dossier per l'identificazione, cit., pp. 58 segg.

(23) A. Calderini, Cupra un dossier per l'identificazione, cit., pp. 50-54

(24) A. Calderini, Cupra un dossier per l'identificazione, cit., p. 48

(25) T. Capriotti, Luoghi di culto nelle città portuali delle regiones V e VI dell'Italia augustea, Tesi di dottorato "Scienze dell'antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche", Università degli studi di Trieste, 20 aprile 2009, pp. 361, 362

(26) T. Capriotti, Il santuario della dea Cupra a Cupra Maritima: una proposta di ubicazione, cit., p. 146

(27) F. Marcattili, Il santuario di Cupra a Fossato di Vico, in "Studi Etruschi", 80, 2017 [2018], (pp. 115-129), p. 117.  "Si potrebbe arguire, che il frammento d'orlo in terracotta, su cui è apposta la lamina di bronzo iscritta, avesse appartenuto alla bocca della cisterna entro la quale esso fu rinvenuto...Alcuni residui di malta impastati a detriti calcarei tuttora aderenti alla parete esterna del frammento, farebbero pensare ad un anello in muratura che avrebbe costituito il parapetto della cisterna, E. Stefani, Fossato di Vico. Antiche costruzioni scoperte in contrada "Aja della Croce”, in "Notizie degli scavi di antichità" (1940), (pp. 171-179), pp. 174-175

(28) F. Marcattili, Il santuario di Cupra a Fossato di Vico, cit. pp. 119, 121

(29) E. Stefani, Fossato di Vico. Antiche costruzioni scoperte in contrada "Aja della Croce”, cit., pp. 172-174

(30) E. Stefani, Fossato di Vico. Antiche costruzioni scoperte in contrada "Aja della Croce”, cit., p. 175

(31) E. Stefani, Fossato di Vico. Antiche costruzioni scoperte in contrada "Aja della Croce”, cit., pp. 176-178

(32) F. Marcattili, Il santuario di Cupra a Fossato di Vico, cit., p. 126

(33) L. Bonomi - L. Agostiniani, Lamine di Colfiorito, in L. Agostiniani - A. Calderini - R. Massarelli (a cura di), Screhto·Est. Lingua e scrittura degli antichi Umbri, Catalogo della mostra (Perugia-Gubbio, 22 settembre 2011-8 gennaio 2012), Università degli Studi di Perugia, Perugia 2011, pp. 25-26

(34) S. Sisani, Umbrorum Gens Antiquissima Italiae. Studi sulla società e le istituzioni dell’Umbria preromana, Deputazione di Storia Patria per l'Umbria, Perugia 2009, p. 196

(35) L’identificazione tra Bona Dea e la Venere di Cnido (una "Venere" al bagno) sembra confermata dall'iscrizione CIL 06, 76  (EDR158754): Bonae Deae Veneri Cnidiae, D̲(ecimus) I̲unius Annianus Hymenaeus et invicta (e) spira(e) P̣haedimiana (d(onum) d(ederunt))

(36) D. Candilio - M. Bertinetti, Bona dea: una statuetta ritrovata, "Bollettino di archeologia in line", IV, 2013/1, p. 33

(37) Il rituale delle lavationes relativo ai Veneralia del 1 aprile è spiegato da Ovidio (Fasti, IV, 133-162): "Venerate ritualmente la dea, madri e spose del Lazio, ed anche voi, che non indossate né la benda né la veste lunga. Togliete dal suo collo di marmo le catene d’oro, mettete da parte i gioielli: la dea va completamente lavata (...) Lei vuole che anche voi vi laviate, coperte da un ramo verde di mirto (...) nel luogo in cui scorre acqua calda, si offre incenso alla Fortuna Virile. Le donne vi si recano tutte insieme e si spogliano nude, svelando così tutti i difetti del loro corpo; è la Fortuna Virile che li nasconde e impedisce agli uomini di vederli, e questo lo si fa se le si offre, pregando, un po’ d’incenso".  "Volevo tuttavia sottolineare subito un’interessante analogia: l’offerta di incenso a Fortuna Virile-Venere Verticordia, compiuta certamente su altari molto particolari, si connette molto bene ai fumanti «litoreae […] altaria Cuprae» ricordati da Silio Italico", F. Marcattili, Tra Venere, Bona Dea e Cupra. Note a margine della lamina di Fossato di Vico, in A. Ancillotti - A. Calderini - R. Massarelli (a cura di), Forme e strutture della religione nell’italia mediana antica, III Convegno internazionale dell’Istituto di Ricerche e Documentazione sugli Antichi Umbri (Perugia, Gubbio 21-25 settembre 2011), "L'Erma" di Bretschneider, Roma 2016, p. 472

(38) F. Marcattili, Il santuario di Cupra a Fossato di Vico, cit., p. 122

(39) F. Marcattili, Il santuario di Cupra a Fossato di Vico, cit., p. 123

(40) T. Capriotti, Il santuario della dea Cupra a Cupra Maritima: una proposta di ubicazione, cit., p. 146

(41) D. Lollini, La civiltà picena, cit., pp. 178-179. Per l'attestazione del Juppiter Serenus a Gabicce si veda: A. Trevisiol, Fonti letterarie ed epigrafiche per la storia romana della provincia di Pesaro e Urbino, L'Erma di Bretschneider, Roma 1999, p. 59

(42) G. Baldelli, I luoghi di culto. Marche, in AA.VV., Piceni. Popolo d’Europa, cit., p. 87. Per il santuario delle acque di S. Vittore: M. Landolfi - G. Baldelli, San Vittore di Cingoli in M. Pacciarelli  (a cura di), Acque, grotte e dei, cit., pp. 180-183

(43) Un importante luogo di culto è stato individuato sulla cima di Monte Giove (Teramo), ad una quota di 749 metri s.l.m. Qui, in seguito alle esplorazioni degli anni 1974-75 da parte della locale Soprintendenza Archeologica, sono emerse alcune strutture pertinenti ad almeno quattro differenti ambienti. Fra i materiali rinvenuti, oltre a coperchi, fuseruole, rocchetti, pesi da telaio e oggetti metallici, sono numerosi i vasetti miniaturistici ad impasto (in particolare, dolii con quattro prese e tazze mono e biansate) decorati con piccole bugne. I reperti fittili vengono attribuiti al VI secolo. Meritano particolare attenzione una figuretta femminile in lamina d'argento ritagliata (V sec. a.C.) e un bronzetto di Veiove nell'atto di scagliare il fulmine (III sec. a.C.), V. d'Ercole, I luoghi di culto. Abruzzo, in AA.VV., Piceni. Popolo d’Europa, cit., p. 88; V. d'Ercole - S. Cosentino - G. Mieli, Stipe votiva dal santuario d'altura di Monte Giove, in AA.VV., Eroi e Regine. Piceni Popolo d’Europa, Catalogo della mostra (Roma, 12/4 - 1/7 2001), De Luca, Roma 2001 , pp. 338-339

(44) G. Baldelli, I luoghi di culto. Marche, AA.VV., Piceni. Popolo d’Europa, cit., p. 86

 

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