Durante il periodo di
massimo sviluppo della civiltà picena, fra il VII e
la prima metà del VI sec. a.C., le manifestazioni collettive
religiose subiscono una profonda crisi causata dall'instaurarsi di
una società aristocratica che antepone i valori dell'oikos
(famiglia)
e del genos (parenti) a quelli del gruppo di appartenenza. Le
sommità delle montagne, le caverne, i laghi e le sorgenti d'acqua
non rappresentano più, come nell'età del Bronzo, i luoghi
preposti ai culti collettivi. Al loro posto si sviluppano, secondo
una tendenza che era già iniziata ad imporsi alla fine dell'età
del Bronzo, le forme di culto domestico rivolte ai patres
e alle matres familias defunte e più in generale ai maiores.
Espressione di questo culto, che finisce per assumere un carattere
eroico e celebrativo, è la
stessa complessità di alcune tipologie di tombe (a circolo e a
tumulo) e la straordinaria ricchezza dei corredi che dimostrano, al di là
dell'ostentazione del proprio status, l'esaltazione del ruolo dei
morti nei confronti della società dei vivi, perseguita dai gruppi
aristocratici secondo un modello simile a quello che si verificava
in Etruria (1).
Nel corso del VI secolo a.C. e
soprattutto dall'età tardo-arcaica, sembrano registrarsi i primi
segni di ripresa di attività cultuale nei luoghi naturali
(grotte, sorgenti, fiumi) che avevano caratterizzato l'età del
Bronzo e l'esistenza, quindi, di specifici luoghi di culto. Le
offerte votive del territorio marchigiano sono costituite da
depositi più o meno cospicui e da bronzetti isolati, il cui
contesto originario e ormai purtroppo perduto. I
dati dei luoghi di culto si riferiscono spesso a materiali decontestualizzati
come i bronzi e bronzetti figurati votivi, riferibili a
produzione umbro-settentrionale ed etrusco-settentrionale,
isolati o provenienti da stipi (es. Isola di Fano, stipe di Coltona
a Cagli, il Marte da Attiggio, l'Ercole di Castelbellino,
Minerva e Zeus
di Apiro, il Giove di San Vittore di Cingoli), ex voto in lamina bronzea ritagliata in forma di
schematica figura umana (es. Monte Primo di Pioraco, Montefortino di
Arcevia, Civitalba di Sassoferrato) (2).
Offerte votive in territorio marchigiano (tratto
da A. Naso, Piceni. Storia e archeologia delle
Marche in epoca preromana, Longanesi, Milano 2000,
p. 237)
Nel
corso del VI sec. a.C. si verifica, quindi, un ritorno agli antichi culti
comunitari in rapporto con
le nuove realtà insediative di tipo vicanico. Ne è un esempio il
deposito votivo rinvenuto sul colle di Sant'Andrea a Cupramarittima. Il luogo di rinvenimento è situato in un punto di
passaggio tra l'area dell'abitato piceno e quella del più vicino
corrispondente sepolcreto. Qui, all'interno di una canaletta
conservatasi per circa 8 metri di lunghezza e 0,40 e 0,20 metri
rispettivamente di larghezza e profondità, sono stati recuperati
moltissimi oggetti miniaturizzati di impasto e modellati a mano: olle
biansate, vasi biconici, tazzine biansate e monoansate, mestoli,
fornelli, tripodi e altri oggetti pertinenti alla casa.
Probabilmente in quest'area si celebravano dei rituali idrici di
purificazione e di transizione tra il mondo dei vivi e quello dei
morti. Le forme vascolari sono per lo più le stesse rinvenute
nelle tombe picene di Cupramarittima, Ripatransone e Grottammare,
quasi tutte databili al VI - inizio V secolo a. C. E'
ancora dubbia la presenza di vasetti più antichi databili
all'VIII e VII sec. a.C. (3).
Un
deposito simile è stato scoperto nei pressi di Montefortino d'Arcevia
non molto distante dalla necropoli gallica. I numerosi materiali
documentano l'esistenza di un luogo sacro in cui è
stato praticato un culto idrico a carattere terapeutico ed
evidenziano almeno tre fasi distinte. Ad una prima fase (VI-V sec.
a.C.) di tipo umbro-laziale, attestata da
vasetti d'impasto e dagli ex-voto a figura umana in sottili lamine
di bronzo, segue una seconda fase (III-II sec. a.C.) di tipo
etrusco-laziale-campano connessa con la romanizzazione dell'area e
alla quale si riferiscono le ceramiche a vernice nera, i votivi
anatomici in terracotta, statuine e unguentari fittili. La terza
fase, di tipo romano, è attestata dalla presenza di vasi fittili
a fruttiera su sostegno (labra) connessi con il culto di Bona
Dea, assimilabile alla dea Cupra del pantheon umbro-piceno
(4). Alla fine dell'Ottocento lo studioso Brizio ipotizzava che il
tempio di questo santuario poteva trovarsi sull'altura in cui
insiste l'abitato di Montefortino, nelle vicinanze del quale, nei
pressi di una sorgente, segnalava la presenza di resti di muratura
in opera quadrata con blocchi di travertino (5).
Alla stessa epoca risalgono anche
i più antichi materiali del deposito votivo di
San Vittore di Cingoli.
Figura in assalto, Museo Archeologico di
San Vittore di Genga (AN) (foto dell'autore,
28/02/2009)
Nei depositi votivi della fine del
VI e inizio del V sec. a. C non è possibile identificare la divinità titolare del culto. In questa nuova fase
tuttavia non vengono più offerti oggetti fittili bensì
metallici, in particolare statuette di bronzo fuso a cera persa,
sia di produzione locale che etrusca.
Le statuette raffigurano
offerenti o, più spesso, divinità locali con caratteristiche
iconografiche delle divinità greche ed etrusche; oltre ad Ercole,
Giove e Minerva sono molto diffuse le statuette di "Marte in
assalto".
I depositi votivi, sempre lontani dagli abitati, si
trovano di solito presso corsi d'acqua o sorgenti come nel caso
delle stipi di Isola di Fano e di Cagli; in altri casi invece sono stati
individuati dei bronzetti isolati, come l'Ercole di Castelbellino,
il Marte di Villa Ruffi di Rimini e il Giove di Firenzuola.
Coperchio, tomba
14, loc. Pitino, San Severino Marche, fine VII - inizio VI sec. a. C.
(immagine da:
http://www.museibologna.it/archeologico/percorsi/48649/id/8994/oggetto/12146/)
|
Già
durante il periodo orientalizzante erano comparse delle figure di
esseri divini e demoniaci come elementi decorativi di particolari
oggetti; è il caso della figura a testa umana inserita fra
quattro protomi di animale (cavallo o lupo?). L'oggetto
costituisce l'impugnatura di un coperchio circolare bronzeo
rinvenuto nella tomba 14 della necropoli di Pitino di S.
Severino Marche (MC). Attorno a questo "palo totemico"
si dispongono due coppie alternate di opliti e arcieri in danza
rituale. Viene attribuito a maestranze locali e datato alla fine
del VII - inizio VI sec. a.C. (6).
Altri esempi sono il "signore dei cavalli" (despotes ton hippon)
raffigurato su alcune anse di idrie (7) e le figure femminili
alate ("dee alate") da Belmonte Piceno che alcuni sostengono rappresentino la dea
Cupra (8).
Figura
femminile alata, tomba
83, Belmonte Piceno, primo
quarto VI sec. a.C. (immagine da: academia.edu/38234757/Belmonte_Piceno_2017_Complete_edition_of_the_museum_catalog_in_italian) |
Ansa
di bronzo con
despotes ton hippon,
tomba
163, Belmonte Piceno, prima metà del VI sec. a.C. (immagine da: academia.edu/4875717/I_Piceni._Storia_e_archeologia_delle_Marche_in_epoca_preromana_Biblioteca_di_Archeologia_29_Milano_2000) |
"La rappresentazione del
despotes ton hippon è tipica nelle anse di bronzo pertinenti ad
hydriai;
esse sono fornite, oltre che di anse orizzontali decorate da
protomi equine divergenti, anche di due anse verticali con
l'immagine di un personaggio maschile stante, affiancato da
cavalli convergenti posti su un'asticella orizzontale di
raccordo alla spalla del vaso; facilitano la saldatura del
manico all'imboccatura due leoni distesi alle estremità di una
seconda sbarretta situata all'altezza delle spalle o ai lati
della testa del despotes.
Di queste anse di hydriai
sono noti ben otto esemplari; i contesti di ritrovamento sono
prevalentemente circoscritti al territorio piceno (coppie di
anse da Sirolo, Treia, Tolentino, Belmonte Piceno) o nelle aree
limitrofe (Foligno). Sussistono incertezze per la provenienza
degli esemplari conservati al Museo Nazionale Etrusco di Villa
Giulia e al Museo Civico Archeologico di Bologna. L'unico
esemplare scoperto in aree tirrenica è quello di Vulci.
Se lo schema generale di questa
classe appare costante, vanno tuttavia segnalate due varianti
principali, determinate dall'assenza o dalla presenza di aquile
(Villa Giulia, Belmonte Piceno) ai lati della figura principale.
Inoltre, despotes può avere la testa scoperta (Vulci,
Bologna) oppure protetta dall'elmo (attico nel tipo di Villa
Giulia, corinzio per i bronzi di Belmonte Piceno, Foligno e
Treia, che ha però un doppio lophos e orecchie equine o
bovine).
Nell'esemplare di Sirolo, come in quello di Tolentino,
il volto è inquadrato da un caschetto di capelli (o elmo aperto
senza cimiero ?) dalla cui sommità si diparte verso la parte
posteriore una sorta di protome leonina.
Il busto può essere
protetto da un corsetto (Treia, Foligno, Villa Giulia) e il pube
coperto da una sorta di perizoma (Bologna, Sirolo) o dal
chitonisco (Belmonte Piceno), mentre in altri casi è ben
evidenziato il fallo (Vulci, Treia, Foligno, Tolentino).
In
alcuni esemplari il despotes tocca il muso dei cavalli
(Bologna), ne afferra la criniera (Belinonte Piceno, Vulci)
oppure ne trattiene le briglie (Treia, Villa Giulia), mentre
nelle anse di Foligno, Sirolo e Tolentino gli avambracci della
figura centrale restano nascosti dietro la testa dei cavalli.
Solo nel caso di Treia la sbarretta di supporto è sostituita da
due serpenti, che si ritrovano anche nel becco delle aquile
nelle anse di Belmonte Piceno.
Da un punto di vista iconografico,
si deve notare in primo luogo che non sono state le hydriai
laconiche ad aver introdotto in area medio-adratica
l'iconografia del despotes ton hippon, da tempo diffusa
nel mondo greco ed etrusco, e attestata nel Piceno a partire
dall'ultimo quarto del VII sec. a.C.
In alcuni casi si tratta di
un soggetto isolato, come quello che decora il coperchio della
coppa in impasto dalla tomba n. 7 di Pitino di San Severino
Marche (fine VII - inizi VI sec. a.C.), in cui una figura
maschile si erge sul dorso di due cavalli affiancati,
appoggiando le mani sulla sommità delle loro teste, secondo
un'iconografia attestata anche in area tirrenica.
Allo stesso orizzonte cronologico
(610-580 a.C. circa) appartiene un'olla di impasto buccheroide
dalla tomba n. 3 di Pitino sulla cui spalla è un fregio continuo
di grossi equini trattenuti per le briglie da figure maschili
itifalliche. Nel disco-corazza da Torre dei Passeri, del tipo Numana (625-575 a.C. circa), un personaggio stante trattiene per
le zampe un grosso animale bicefalo, con collo sinuoso e fattezze
equine. Nel fregio centrale della pisside eburnea dalla tomba n.
15 di Pitino (fine V-inizi VI sec. a.C.) viene ripetuta per tre
volte l'immagine del despotes tra due cavalli
convergenti, con coda desinente in una protome teriomorfa; in un
caso gli equini sono montati da due piccoli cavalieri, forse
provvisti di elmo.
A questa serie, priva di un chiaro
sviluppo narrativo, va aggiunta la testimonianza più articolata
di due celebri dischi bronzei da Pitino di San Severino.
Nell'esemplare dalla tomba n. 17 la figura del despotes,
itifallica e con braccia sollevate sopra la piccola testa, si
drizza sul domo di un cavallo a doppio avantreno, con il quale
sovrasta un personaggio capovolto, con gambe divaricate e
braccia aperte, in una scena oggetto di non univoche
interpretazioni ma probabilmente riconoscibile come
rappresentazione di una violenta sopraffazione del nemico.
Ancora più complessa è la
raffigurazione del disco bronzeo dalla tomba n. 14. Un
personaggio maschile procede a cavallo verso sinistra,
accompagnato da un cane: lo stesso è rappresentato quale despotes
theron tra due animali con lunghe fauci e
lunga coda, mentre nella terza parte un cavallo e uno degli
animali suddetti convergono verso la figura maschile, che se ne
assicura il controllo tramite lacci. In questo caso il despotes sembra impegnato in una caccia alle fiere, con
partenza a cavallo, cattura delle stesse e loro
addomesticamento.
I manufatti
sono stati rinvenuti in tombe chiaramente riconoscibili come
emergenti e pertinenti a defunti di sesso sia maschile sia
femminile. Da un punto di vista iconografico, il despotes
è talora rappresentato itifallico, in un'ottica arcaica che
interpreta la potenza sessuale come testimonianza del valore
individuale e della prestanza. Si aggiunga che la presenza degli
equini con code mostruose parrebbe segnalare che il despotes
hippon è un essere dalla natura sovrumana capace di dominare
daimones dalle fattezze equine, ben noti alla tradizione
antica.
Rispetto a queste testimonianze
degli ultimi decenni del VII-inizi VI sec. a.C., la produzione delle
anse bronzee si segnala sia per elementi di continuità che di
rottura. Anzitutto il despotes hippon finisce per
scomparire dai manufatti di diversa tipologia e solo le hydriai sembrano essere state ritenute funzionali a
veicolarne l'immagine e i contenuti semantici.
In secondo luogo, queste
hydriai non rappresentano la continuazione di una forma
usata in precedenza per ospitare le raffigurazioni del despotes hippon, né riproducono un vaso assimilabile a
quelli della tradizione locale, ma imitano morfologie proprie
della produzione vascolare greca. Un'altra novità è quella della
standardizzazione dell'immagine, indotta a un modello autorevole
e prestigioso che ha determinato la scomparsa di dettagli
ricorrenti nelle realizzazioni precedenti, forse ritenuti non
più attuali, come la rappresentazione del carattere mostruoso e
sovrannaturale del cavallo. Un altro particolare ricorrente
nella produzione di fine VII-inizio VI sec. a.C., qual è il
riferimento alla potenza sessuale delle figure nude e
itifalliche, sembra significativamente attenuato, benché il
fallo resti uno dei pochi tratti a conservate una certa plastica
evidenza.
D'altra parte, sembra costituire
un elemento di continuità l'indicazione di una stretta relazione
tra despotes e mondo animale, come suggeriscono le
orecchie bovine o equine nell'esemplare di Treia, segno di una
contiguità col mondo animale nel possesso dei valori di forza e
potenza ferina che si vogliono minacciosamente esibire. In
sostanza, il prototipo cessa di essere quello falisco-cepenate o
etrusco, riconoscibile dietro la serie di VII-VI sec. a.C., per
divenire quello laconico.
E' indispensabile ricordare che il
mondo piceno di VII e VI sec. a.C. appare fortemente
caratterizzato dall'ideologia e dall'uso del cavallo. Lo
dimostra in primis l'elevato numero di sepolture fornite di uno
o più carri, oltre ai vari rinvenimenti di morsi e cilindri
cuspidali per briglie. A ciò si devono poi affiancare le
molteplici testimonianze iconografiche che mostrano come a
partire dall'VIII sec. a.C. il cavallo fosse uno dei soggetti
privilegiati dell'imagerie locale. Nella produzione artigianale
lo si vede semplicemente montato, rappresentato in scene di
caccia e di guerra oppure impiegato in esercizi di abilità o nei
rituali funerari. Non è comunque un caso che, a parte le figure
isolate di equini, lo schema più volte attestato sia proprio
quello del despotes ton hippon.
Dell'identificazione di questa
figura si sono occupati soprattutto gli specialisti di ceramica
geometrica greca, che l'hanno interpretata come Helios,
Poseidon, un semplice cavaliere o un eroe. In particolare, per
le nostre anse è stato avanzato il nome di Ercole, dei Dioscuri
e, naturalmente, dello spartano Poseidon Hippokyrios,
anche in questo caso non mancano quanti vi riconoscono una
generica figura divina oppure un guerriero o un eroe,
soprattutto per la presenza delle armi.
Sarebbe comunque imprudente
indicare uno specifico teonimo perché, esclusa una prospettiva
interpretativa puramente greca, si deve ammettere che ben poco
sappiamo del pantheon piceno. La preesistenza del motivo iconografico rende verosimile
supporre che la nuova versione greca dello schema possa essere
stata concepita quale veste aggiornata di una figura
tradizionale della mitologia locale, arricchita dal prestigio
derivato da un modello di origine allogena.
Se consideriamo parallelamente
l'impressionate testimonianza del coperchio di Pitino (tomba 14)
e le numerose rappresentazioni di despotes hippon di VII
e VI sec. a.C. già citate, sarebbe suggestivo intravedere nel
pantheon locale l'esistenza di un dio dei cavalli, ora
antropomorfo, ora con caratteri misti, ipotizzando che, come è
stato messo in luce per il mondo greco ed etrusco, prima
dell'acquisizione di un sembiante umano, le divinità picene
siano state entità dall'aspetto mostruoso o quantomeno ibrido.
Potremmo cioè ipotizzare la rappresentazione di una figura
mitologica, per noi senza nome, chiaramente legata al dominio
delle forze naturali, al loro addomesticamento e all'impiego del
cavallo.
Se per la Grecia e l'Italia
tirrenica la tradizione letteraria ci tramanda il ricordo di
figure con tratti equini, si deve notare che la stessa area
adriatica conosce questi personaggi collegati alla
cavalleria, come ad esempio Diomede, che il Periplo dello Pseudo Scilace ricorda tra l'altro come oggetto di culto proprio presso
Ancona. Soprattutto in Italia, questi sembra presentarsi come un
dio domatore connesso alla hippotrophia e alla hippodamia, cioè all'addomesticamento, all'allevamento dei
cavalli e persino all'introduzione di specifiche tecnologie
equestri come quella del morso dentato. In tale processo di
acquisizione di elementi allogeni, Diomede potrebbe essersi
sostituito ad una precedente figura mitologica, arricchendosi di
caratteri che lo rendono diverso rispetto al Diomede greco"
(9)
Ansa in
impasto configurata in forma di cavaliere, tomba 139,
Belmonte Piceno, fine VII-inizi VI sec. a.C.
(immagine da: comunebelmontepiceno.it/c044008/zf/index.php/servizi-aggiuntivi/index/index/idtesto/61)
|
Pendaglio configurato in cavallo con
testa di uccello, tomba 137,
Belmonte Piceno, VI sec. a.C. (immagine da:
comunebelmontepiceno.it/c044008/zf/index.php/servizi-aggiuntivi/index/index/idtesto/61) |
Nei bronzetti le divinità sono spesso raffigurate come dei veri
e propri simulacri di culto raggiungendo in alcuni casi delle
notevoli dimensioni; l'Ercole di Castelbellino, il Giove da
Cagli, gli esemplari Ortiz di Ginevra e il Giove etrusco di Apiro
superano i 40 cm. di altezza (10).
Numerosi
simboli religiosi e apotropaici si possono riconoscere nelle
decorazioni degli oggetti e nei pendagli: la mano, la ciprea, le
corna, la doppia protome ornitomorfa collegata alla barca solare o
alla ruota, la svastica sono elementi che affondano le loro
origini in epoca preistorica e risultano comuni a numerose
culture. E' difficile stabilire se questi simboli abbiano
conservato nella cultura picena il contenuto ideologico originario o se invece siano da
considerare come semplici riutilizzazioni decorative prive di ogni
significato religioso-ideologico (11). L'insistente presenza, ad
esempio, del simbolo delle "anatrelle" o "ocherelle"
(12), molto diffuso negli oggetti dei corredi funerari del VII-IV sec.
a.C., "potrebbe far pensare che esso conservi ancora una
valenza protettrice e salvifica, quale animale psicopompo e che
non si risolva in puro motivo decorativo" (13).
Pendagli a doppia protome taurina, Belmonte Piceno,
VI sec. a.C. (immagine da:
comunebelmontepiceno.it/c044008/zf/index.php/servizi-aggiuntivi/index/index/idtesto/61)
|
Per alcuni monili sarebbe da
attribuire invece un doppio valore di ornamento e di amuleto al
quale si riconosceva la virtù magica di allontanare o prevenire
il male. E' il caso di "talismani" realizzati con ambra o corallo e
monili formati da oggetti della vita quotidiana: conchiglie, denti
di animale e punte di corno. In certi casi alcuni di questi
oggetti venivano sostituiti da riproduzioni in metallo per dare
probabilmente un maggior valore simbolico al monile.
Nei siti piceni di VIII-VI sec. a.C. sono piuttosto diffusi i
pendagli a forma di manina aperta, simbolo chiaramente solare. Le
cipree, come pendaglio singolo, ricorrono spesso nelle tombe
femminili giovani; il valore di questo oggetto è probabilmente
relativo al campo della fecondità, vista la somiglianza
dell'apertura della conchiglia con l'organo genitale femminile.
Pendaglio a conchiglia, Belmonte Piceno, fine VII-VI
sec. a.C. (immagina da: comunebelmontepiceno.it/c044008/zf/index.php/servizi-aggiuntivi/index/index/idtesto/61)
|
Rimane ancora incerta la valenza
funzionale e simbolica dei cosiddetti “anelloni a nodi”,
una categoria di oggetti anulari, con diametro variabile tra gli
11 e i 20 cm, realizzati mediante fusione e costituiti da una
verga di bronzo piena, a sezione circolare, ornata lungo la
circonferenza da nodi, di forma lenticolare o sferoidale, nel
numero da un minimo di quattro a un massimo di sei. Dal VI sec.
a. C., in un'area di diffusione piuttosto ristretta, compresa
trai i fiumi Tenna e Tronto, si afferma l'uso di deporre questi
oggetti in alcune sepolture femminili, sulla zona
addominale-pelvica della defunta. Secondo Naso, sarebbe proprio
la distribuzione topografica esclusiva nel distretto Cupra
Marittima-Grottammare a connettere tali oggetti al culto della
dea Cupra (14).
Anellone a nodi, collezione, collezione Gorga
(immagine da: academia.edu/4839880/E._Biancifiori_Gli_anelloni_a_nodi_in_AA.VV._l_bronzi_della_Collezione_Gorga_Roma_2012_pp._366-372)
|
Luoghi
di culto
Nelle
Marche non sono stati rinvenuti resti architettonici di santuari né
sicure frequentazioni rituali di grotte o ripari. Ciò sarebbe da
imputare da una parte alla minore durevolezza del legno e
dell'argilla e dall'altra alla scarsità di esplorazioni
sistematiche, sia su vaste superfici adibite non a necropoli sia
nei luoghi di rinvenimento di ripostigli e oggetti votivi (15). E'
anche possibile che il culto non fosse praticato in edifici veri e
propri, ma si svolgesse all'aperto entro recinti o costruzioni
precarie (16).
Le
fonti antiche ricordano l'esistenza di un santuario dedicato a Diomede menzionato in relazione agli Umbri medioadriatici (17)
e alla dea Cupra
nella zona di Cupra Marittima.
La dea
Cupra sembra aver avuto una venerazione particolare presso i Piceni come conferma
innanzitutto la toponomastica picena antica; nella descrizione di
Plinio figurano infatti una Cupra oppidum (Cupra
Marittima) e una popolazione di Cuprenses Montani (Cupra
Montana) (18).
E' ancora dubbia l'esatta localizzazione del tempio a Cupra
Marittima (19) così come quella di Cupra Montana.
"L'insediamento romano pertinente alla moderna Cupra Montana si
trova a circa mezzo chilometro a nord dal centro attuale, e
vanta, in effetti, la presenza dei resti di un grandioso
santuario scoperti nel 1922. Ma non ci sono in realtà elementi
per identificarvi quel santuario di Cupra a cui certamente la
città deve il nome e che dovette costituire il fattore alla base
della stessa aggregazione urbana. Nel dibattito va, però,
ricordato che l'attiguo centro medioevale di Poggio Cupro,
menzionato come (Castrum) Podii Cuprae dal Sarti (secondo
cui sarebbe una forma più antica di quella in uso ai suoi tempi,
che riporta, però, come Castrum Podii Cupi), sembrerebbe
poter conservare nel proprio poleonimo la reminiscenza diretta
del nome della dea Cupra" (20).
Le fonti antiche forniscono delle
notizie molto importanti che costituiscono il punto di partenza
per lo studio e l'identificazione di questa divinità. Silio Italico colloca lungo il
litorale piceno i fumanti altaria Cuprae; Asinio Pollione
definisce Cupra come Veneris antistita cioè sacerdotessa di
Venere; Varrone accosta alla dea Cupra la latina Bona Dea,
e spiega che al termine sabino cyprum corrispondeva il
latino bonum; Strabone ricorda
l'esistenza di un santuario dedicato alla dea Cupra fondato dai
Tirreni, presso i quali Hera era chiamata Cupra. (21).
Il fatto che il santuario di Cupra
sia il solo citato da Varrone per l'intera fascia medio e
alto-adriatica dimostra la grande importanza che il santuario di
Cupra ebbe nel panorama religioso e sociale dell'Italia
adriatica.
Le più importanti attestazioni del culto
della dea sono state finora rinvenute sul versante umbro dell’Appennino
umbro-marchigiano. Si tratta di una serie di iscrizioni scoperte a Fossato di Vico (Helvillum
Vicus) e Colfiorito (Plestia) sedi certamente di
santuari della dea. Nell’iscrizione su lamina di bronzo redatta
in alfabeto umbro
rinvenuta nel 1868 presso Aja della Croce a Fossato di Vico e
databile alla fine del II secolo a.C. e nelle quattro lamine di Colfiorito
la dea è definita matrer (Mater). Le iscrizioni di Colfiorito, rinvenute nel 1962, e redatte in alfabeto
umbro-etrusco sono databili almeno al IV secolo a.C. e
costituiscono a tutt’oggi la più antica attestazione del nome
della dea. Gli studi linguistici su alcune
iscrizioni dimostrerebbero comunque una diffusione del culto di
Cupra anche in altre località centro-meridionali dell’Italia (22).
Lamina
di bronzo da Aja della Croce, Fossato di Vico (immagine da: academia.edu/2531560/Screhto_Est_Lingua_e_scrittura_degli_antichi_Umbri)
CVBRAR
·
MATRER ·
BIO ·
ESO OSETO ·
CISTERNO ·
N ·
C ·
V SV ·
MARONATO IIII V
·
L ·
VARIE ·
T ·
C ·
FVLONIE
Lamina
di bronzo da Colfiorito (immagine da: academia.edu/2531560/Screhto_Est_Lingua_e_scrittura_degli_antichi_Umbri)
cupras matres pletinas sacru esu
Fra i documenti epigrafici sono da
ricordare l'iscrizione CIL 09, 5501 (EDR115842) interpretata da
Calderini come una dedica a Cupra Obsequens (23) ma
soprattutto l’iscrizione CIL 09, 5294 (EDR093988), un documento di
grande importanza poiché testimonia il restauro del templum
Deae Cuprae voluto dall'imperatore Adriano nel 127 d.C. e
quindi una persistenza del culto fino al II sec. d.C.:
CVRRAE[---?] Opseque[nti] posueru[nt]
CIL 09, 5501
Imp(erator) Caesar divi Traiani Parthici f(ilius) divi Nervae nep(os) Traianus Hadrianus Aug(ustus) pontif(ex) maxs(imus) trib(unicia) potesta(te) XI co(n)s(ul) III munificentia sua templum Deae Cuprae restituit
CIL 09, 5294
L'iscrizione CIL 09, 5294, proveniente
dall'area suburbana di Cupra Marittima, è attualmente murata su
un pilastro della navata destra della chiesa di S. Martino a
Grottammare. "Essa è tanto preziosa non solo in quanto
documento relativo al tempio, ma anche perché rientra nel novero
delle attestazioni epigrafiche del nome della dea Cupra, di
fatto l'unica completamente certa dall'ambiente piceno; inoltre
l'informazione che essa fornisce sul restauro adrianeo documenta
la sopravvivenza del culto di Cupra fino all'inoltrata età
imperiale" (24).
La dea Cupra sembra rientrare nella classe delle
divinità il cui vero nome è per proibizione rituale
inconoscibile al di fuori dello stretto ambito cultuale, celato
dietro uno pseudonimo, realizzato con l'aggettivo "buona".
"Alla
luce della parentela tra il sabino e gli altri dialetti italici,
il nome della dea Cupra si può interpretare come femminile
sostantivato dell’aggettivo sabino cupro-, con un
significato equivalente a quello del latino bona: questo
rivelerebbe quindi una corrispondenza onomastica tra la dea Cupra e la
Bona Dea latina, come già avevano rilevato
gli studiosi alla fine del secolo scorso. Molti studiosi hanno illustrato e
precisato il ruolo di culti importati dall’Oriente greco-semitico in età arcaica, chiarendo il quadro assai
complesso dei culti femminili nella Penisola, rivelando come
essi siano riconducibili per la maggior parte alle varie
manifestazioni della Astarte-Afrodite diffusasi sotto nomi
diversi, e con sfumature e funzioni molto diverse tra loro, in
tutte le culture. Per coerenza interpretativa la figura di Cupra
umbro-picena deve venire accostata a questo tipo" (25).
Sulla base quindi delle fonti
antiche, in particolare Varrone, la qualificazione della dea
come mater e gli studi linguistici è possibile stabilire
un legame tra la dea Cupra appenninica e le Veneri del pantheon italico o
più in generale con una divinità femminile legata alla fertilità
e con i caratteri tipici dell’Astarte-Afrodite greco-semitica giunta in Italia tramite le rotte commerciali
intorno al VII secolo a.C. di cui fanno parte, oltre a Cupra, la
Uni (-Thesan) di Pyrgi, la Northia di
Volsinii, le Fortune del mondo laziale, Mater Matuta,
Bona Dea, Libitina, Venere e Giunone (26).
Il substrato sacrale della Dea
Madre riaffiora nel culto delle acque, dispensatrici di
fecondità e di vita, come dimostrano i contesti santuariali
della dea Cupra. Le già citate iscrizioni di Colfiorito e
Fossato di Vico sono state rinvenute in contesti idrici così
come la stipe votiva di Cupra Marittima.
Il santuario di Aja della Croce di
Fossato di Vico fu esplorato parzialmente nel 1869, l'anno di
rinvenimento della lamina, e poi in maniera più
sistematica nel 1918 sotto la direzione di E. Stefani. Esso
si sviluppa su un sistema di terrazzamenti artificiali in un
poggio che domina la vallata su cui transitava la via Flaminia e
dalla quale si distaccava il diverticolo per Ancona, altra
importante via di comunicazione.
Gli scavi del 1869 portarono alla
luce una fossa scavata nella roccia con all'interno una notevole
quantità di materiale architettonico e vascolare: alcuni rocchi
di colonna di travertino bianco scanalato e due capitelli
dorici, una piccola base di calcare e alcuni pesi da telaio
(tipici elementi che si addicono ad un culto femminile). Ed è
proprio da questo deposito che negli strati più superficiali
venne alla luce il reperto più importante, una lamina di bronzo
iscritta fissata con piombo fuso all'orlo superiore di un dolio
in terracotta. La cavità individuata, rivestita in cocciopesto, è interpretabile come una cisterna per la conservazione
dell'acqua, trasformata poi in deposito al momento
dell'abbandono del santuario.
"Come aveva già ipotizzato lo
Stefani, il pezzo può costituire quanto resta della vèra che
definiva in superficie l'imboccatura della medesima cisterna,
secondo un sistema di delimitazione dei pozzi che ha precedenti
nel mondo greco, dove infatti potevano essere impiegati bassi
orli circolari in terracotta o pithoi parzialmente
interrati" (27). Il rinvenimento, nel 1869, di altri frammenti
di terracotta all'interno della fossa farebbe supporre che la
vèra circolare altro non sia stata che un puteal fittile.
"I capitelli ed i rocchi scoperti
nella cisterna di Fossato, realizzati in travertino e pertinenti
a due colonne di ordine dorico, potrebbero costituire gli
elementi architettonici superstiti di una struttura funzionale,
nella fase monumentale del santuario, a marcare e cingere
enfaticamente il puteal e la sottostante cisterna.
Considerate anche le contenute dimensioni in altezza delle due
colonne, queste sembrano infatti costituire quanto resta di una
tholos o monopteros, evidentemente coperto come
dimostra la contestuale presenza di tegole e coppi nel deposito,
destinato quindi a sancire visivamente e materialmente, ovvero a
tutelare, il carattere sacrale del pozzo e dell'acqua contenuta
all'interno della cisterna" (28).
La cisterna fu nuovamente
esplorata da Stefani nel 1918. "Dopo pochi saggi infruttuosi, il
terzo giorno dall'inizio del lavoro, venne scoperto l'orlo
superiore della 'buca rotonda' parte della quale inoltravasi al
di sotto della macèra che limita a nord la proprietà Micheletti.
Demolita la macèra, ed abbattuto l'olmo che era stato piantato
in mezzo alla buca, si procedette al vuotamento di questa. Dal
cavo si estrassero pezzi informi e schegge di calcare, parecchi
frammenti di tegole e embrici, qualche frammento dì anfora e
vasi grezzi, alcuni pesi da telaio a tronco di piramide, due
piccoli frammenti di pietra scorniciata, uno scheggione di base
di colonnina in calcare, la parte inferiore di una basetta, pure
della stessa pietra, dei residui insignificanti di vasi vitrei e
qualche chiodo di ferro. La buca, incavata con molta accuratezza
nella roccia, aveva forma cilindrica, e misurava esattamente m.
3 di profondità e m. 2,30 di diametro. In fondo ad essa era
stata praticata una cavità imbutiforme di m. 1,64 di diametro e
profonda cm. 55. Siamo perciò dinanzi ad una vera e propria
cisterna, specialmente caratterizzata dalla suddetta cavità
imbutiforme e da alcuni residui di un rivestimento di
cocciopisto, che fu notato all'atto della scoperta" (29).
In tutta l'area circostante si
eseguirono dei saggi di scavo che portarono alla scoperta di
"due grandi vasche contigue, con fondo e pareti rivestiti di
cocciopísto, munite dei soliti cordoni e dipinte in colore
rosso, misuranti, l'una, — la più prossima alla cisterna — m.
5,60 di larghezza, l'altra, m. 4,30. Entrambe le vasche erano
state in gran parte distrutte da una cava di pietra, dì cui
vedevasi ancora la depressione, ma la loro lunghezza doveva
certamente superare i m. 7,50. In mezzo alla terra estratta
dalle vasche si trovarono parecchi frammenti di embrici e di
tegole, e due pesi da telaio" (30).
Il settore del santuario con la
cisterna e le due vasche occupava solo uno dei terrazzamenti del
poggio. L’area sacra, tuttavia, comprendeva un altro importante
settore esplorato sulla sommità del colle (toponimi "Aja Piccini" e "Aja
della Madonna del Carmine") sempre dallo Stefani che scoprì una
serie di ambienti, un vano pavimentato con coccipesto e un
ambiente con un pavimento a mosaico.
"Un terzo saggio, aperto in
prossimità della balza che limita ad ovest la spianata, portò
alla scoperta, a circa cm. 40 di profondità, di un ambiente con
pavimentazione a mosaico, in gran parte avvallato e screpolato,
fatto con tessere bianche e nere su fondo di cocciopisto
rossastro (...) Tale pavimentazione constava di un'area
quadrata, di m. 5 di lato, costituita da due zone a meandro
separate da una a rombi disposti su tre direzioni diverse
formanti dei cubi visti prospetticamente, da un'altra a torri e
mura meniate, e, infine, da una quinta zona a squame. La parte
centrale del mosaico manca completamente. Il pavimento, sui lati
nord ed est, era circondato da una zona a tessere bianche e nere
formanti un disegno a scacchiera, mentre sul lato ovest era
un'ampia zona a linee oblique intersecantisi formanti un disegno
a rombi. Presso l'estremità nord della parete orientale del
pavimento, si trovarono parecchi frammenti di intonaco dipinto,
che originariamente doveva decorare la parete stessa. Tali
frammenti si dividono in due gruppi: l'uno, il più numeroso, a
rombi dí colore bruno, verde e bianco formanti un disegno a cubi
prospettici, perfettamente eguale a quello in mosaico del
pavimento, l'altro, imitante un marmo a venature variopinte"
(31).
Per quanto riguarda la datazione
del complesso santuariale, Marcattili fa notare che "già
l’organizzazione scenografica a terrazze, la tipologia dei
capitelli rinvenuti nella cisterna e la cronologia proposta per
la lamina suggerivano una datazione nell’ambito della seconda
metà del II secolo a.C., e tale cronologia è confermata proprio
dai motivi ornamentali della pavimentazione musiva e degli
intonaci" (32).
Risulta ovvio, pertanto, che nel
culto di Cupra l'elemento acqua fosse predominante; questo forte
legame con l’acqua è ribadito anche in altri contesti: il
santuario di Colfiorito e la stipe votiva di Cupra Marittima,
costituita da oltre duemila vasetti miniaturistici ad impasto
probabilmente associati ad una vicina sorgente.
Il santuario di Colfiorito,
rinvenuto in località La Capannaccia in seguito a scavi condotti
negli anni '60 del XX secolo, sorgeva tra la sponda meridionale
del Lacus Plestinus, prosciugato dai Varano nel XV
secolo, e l'attuale palude di Colfiorito. Fu fondato
probabilmente intorno al VI sec. a.C. in un luogo occupato in
precedenza da un insediamento dell'età del Ferro. L'abbondante
materiale recuperato attesta una frequentazione dal VI sec. a. C
fino all'età tardorepubblicana.
"La fase arcaica, cui non possiamo
attribuire alcuna struttura muraria, è attestata da migliaia di
bronzetti votivi, alcuni vere e proprie statuine, ma la maggior
parte di tipo schematico raffiguranti figure maschili di
guerrieri e femminili di oranti, e animali, da una stipe di
vasellame ceramico databile al V secolo a. C e da numerosi
oggetti di varia natura (ornamenti personali, dadi, fusi e
fusaiole, pesi da telaio, balsamari, etc.) alcuni dei quali
estremamente significativi sulla natura della dea Cupra cui è
dedicato il santuario quali il montante lunare di bronzo, una
conchiglia di bronzo, gli oggetti legati alla filatura e alla
tessitura. Inoltre la maggior parte dell'abbondante vasellame
rinvenuto, ceramico e vitreo, è legato all'acqua e all'uso
dell'acqua" (33).
A questa fase più antica del
santuario appartengono le
quattro lamine bronzee iscritte con la dedica alla dea Cupra, "madre dei Plestini".
In due casi le lamine sono state rinvenute ripiegate più volte
su se stesse, in modo da far supporre un intervento di
intenzionale distruzione. Almeno in un caso una delle lamine
presenta lungo il margine inferiore destro un piccolo foro,
relativo forse al suo fissaggio ad un supporto (34).
Dopo la conquista romana (III sec.
a.C.) fu probabilmente costruito il sacello con muri in blocchi
di calcare. Tra il
materiale votivo di questa fase ci sono gli oggetti tipici di
una frequentazione coloniale: ex voto anatomici, statuetta di
Ercole, ciotole a vernice nera con nomi o lettere iscritte,
monete. Il santuario fu poi abbandonato in età tardorepubblicana quando, con ogni probabilità,
si costruì
il tempio dedicato al culto imperiale e riportato alla luce sotto la chiesa di S. Maria di
Pistia.
Il ruolo sacrale svolto
dall'elemento acqua nei riti della dea Cupra è assimilabile a
quello della "omologa" Bona Dea (e, in parte, con Venere)
(35); il confronto tra le evidenze archeologiche riferibili alle
divinità possono contribuire, da una parte a confermare
ulteriormente la radice comue delle due divinità, e dall'altra a
spiegare con maggior dettaglio i rituali che venivano praticati
nei santuari della dea Cupra.
Secondo la versione più antica del mito,
Bona dea era figlia di
Fauno mentre secondo
una tradizione più recente sarebbe
moglie, e forse anche sorella di Fauno, da lui percossa ed
uccisa con rami di mirto. Era una Dea della
fecondità e della salute ed era oggetto di culto esclusivamente
muliebre, che culminava in una festa
notturna, celebrata agli inizi di dicembre, a carattere
misterico, alla quale partecipavano nobili
matrone romane ed anche le Vestali. Aveva luogo nella casa
di un magistrato cum imperio,
appositamente ornata di viticci e di fiori, escluso il mirto. Le
offerte votive erano costituite da una scrofa incinta e dal
vino, donato però col nome di latte.
E' legata, in
origine a forme di vita pre-urbana a sussistenza pastorale e
predilige luoghi elevati e scoscesi, in prossimità di corsi
d'acqua o sorgenti purissime, di per sé garanzia di buona salute. Di conseguenza sono frequenti le sue
successive contaminazioni, frutto
di incroci culturali, con altre divinità dalle evidenti
caratteristiche tumaturgiche, che presiedono
la fecondità e la riproduzione, come Igea, Magna Mater,
Cerere-Proserpina, Diana, Venere, Caelestis, Fortuna-Tyche (36).
L'acqua utilizzata nei santuari
era funzionale alle lavationes (37), "liturgie connesse
ai passaggi di status delle donne, alle nozze in particolare, e
nelle quali l’acqua era utilizzata sia per il lavacro della
statua di culto - come per Venere avveniva in occasione dei Veneralia del 1° aprile -, sia per il bagno delle devote
che, attraverso queste abluzioni rituali, si preparavano al
meglio per un’unione sessuale auspicata feconda" (38).
"Ora le evidenze archeologiche rivelano in modo piuttosto chiaro
i luoghi e gli
impianti in cui tali lavacri si svolgevano. Per Afrodite-Venere
si possono ricordare
la piscina nei pressi del foro della colonia latina di Paestum,
oppure, sempre a Paestum, gli strongyla ("cerchi") del santuario extraurbano di
Santa Venera, apprestamenti circolari aperti sulla fronte e rivestiti in marmo e
cocciopesto, organizzati in
due sistemi distinti funzionali a riti iniziatici di lavatio
riservati alle donne. Per Bona
Dea, invece, è proficuo menzionare le due vasche quadrangolari
ín opera reticolata
rivestite in cocciopesto portate in luce nel cortile del
santuario ostiense della regio
V dove è stato dedicato da Terentia il suddetto puteal, o gli
apprestamenti balneari — sempre in numero di due — nel complesso dell'altro tempio di
Bona Dea ubicato
fuori Porta Marina" (39).
Se si considerano i dati
archeologici che dimostrano una
frequentazione etrusca in siti interni connessi con le
principali vie di comunicazione fra l'Adriatico e il Tirreno (si
ricordi gli oggetti d’artigianato etrusco trovati nelle tombe di
Matelica, Fabriano, Pievetorina, Pitino di S. Severino Marche,
Tolentino), la notizia di Strabone che vede gli Etruschi come i
fondatori del santuario
di Cupra Maritima, le fonti epigrafiche (lamelle di Fossato di
Vico e Colfiorito) che testimoniano la
presenza del
culto della dea Cupra lungo la dorsale umbro-marchigiana in due
importanti punti di valico, si può ipotizzare che "genti
etrusche
siano giunte attraverso l’Appennino umbro-marchigiano sulla
costa adriatica
fondando un santuario dedicato ad una divinità che poteva
riassumere gli aspetti
della volsiniense Northia e della pirgense Uni con quelli di una figura già presente nel pantheon umbro-piceno e che
avrebbe espresso al meglio queste caratteristiche in un sito
emporico, come quello
di Cupra Maritima, che doveva garantire proficui rapporti col
mondo greco, padano e nord-europeo" (40).
Guerriero etrusco offerente, da Ripatransione, prima
metà VII sec. a.C. (immagine da: academia.edu/4875717/I_Piceni._Storia_e_archeologia_delle_Marche_in_epoca_preromana_Biblioteca_di_Archeologia_29_Milano_2000) |
Allo stato attuale delle ricerche, la continuazione di culti
locali in manifestazioni religiose di epoca romana è in alcuni
casi soltanto ipotizzabile. Esempi potrebbero essere quelli connessi con la
navigazione di Venere Euplea ("dea della buona navigazione") e di
Juppiter Serenus
(CIL XI, 6312) attestati
rispettivamente nel tempio di Ancona e nel promontorio di Gabicce
(41). La continuità e la sovrapposizione a più antichi culti
locali è invece sicuramente attestata nei depositi votivi di
Montefortino d'Arcevia e di Isola di Fano e nei santuari termali
di Cupra Marittima e di San Vittore di Cingoli (42).
In
mancanza di sicure evidenze archeologiche, l'esistenza dei luoghi
di culto è ipotizzabile solo in quelle località dove sono stati rinvenuti i
depositi votivi (43). Come già è stato detto essi si trovano al di fuori o lontani dagli abitati
e dai sepolcreti; spesso situati sulle sponde dei fiumi o torrenti
(Isola di Fano e Castelbellino), presso le sorgenti (Coltone di
Cagli e Montefortino), in punti particolari lungo vie di
comunicazione (Corinaldo) o in zone montane e submontane (Monte
Primo, Monte Valmontagnana). Da segnalare che l'area di
distribuzione dei depositi a bronzetti sembra ricalcare, a partire
dal 500 a.C. e ad eccezione di Ripatransone e Porto San Giorgio,
quella della ceramica attica (44).
Revisione articolo 23
luglio 2021
(1) G. Colonna, Le
forme della devozione, in AA.VV.,
Piceni.
Popolo d’Europa, Catalogo della mostra (Francoforte
- Ascoli Piceno - Chieti, 1999-2000), De Luca, Roma
1999, p. 89
(2) G. Tagliamonte,
Santuari e luoghi di culto preromani nell'Italia
medio-adriatica, in E Govi (a cura di), La città
etrusca e il sacro. Santuari e istituzioni politiche.
Atti del Convegno (Bologna 21-23 gennaio 2016), Bologna
2017, p. 428
(3) G. Baldelli,
Deposito votivo da Cupra Marittima, località Sant'Andrea,
in M. Pacciarelli (a cura di), Acque,
grotte e Dei. 3000 anni di culti preromani in Romagna,
Marche e Abruzzo, Fusignano 1997, pp. 161-171
(4) M. Landolfi,
Montefortino di Arcevia, in M. Pacciarelli
(a cura di), Acque, grotte e Dei, cit., pp.
172-179
(5) E. Brizio, Notizie
degli Scavi di Antichità, 1893, p. 191 - E. Brizio,
Montefortino (frazione nel Comune di Arcevia).
Sepolcreto gallico scoperto in vicinanza dell'abitato,
in "Notizie degli Scavi di Antichità", 1896, pp. 3-13;
E. Brizio, Il sepolcreto gallico di Montefortino
presso Arcevia, in "Monumenti Antichi dell'Accademia
dei Lincei", IX, 1899, cc. 617-791
(6) M. Landolfi,
Coperchio con figure plastiche, in
Piceni. Popolo d’Europa,
cit., p. 250, scheda n. 433
(7) Gli oggetti
sono stati rinvenuti nelle necropoli di Belmonte Piceno,
Tolentino e Foligno; attribuiti a maestranze locali sono
datati entro la prima metà del VI sec. a.C.,
M. Landolfi, Coppie di anse di bronzo. Ansa di
bronzo, in
Piceni.
Popolo d’Europa,
cit., p. 246, schede n. 407, 408, 410
(8) G. Rocco, Figure
femminili alate, in
Piceni. Popolo d’Europa,
cit., p. 232, scheda n. 361
(9) T. Ismaelli,
Hippodamoi piceni. Alcune considerazioni sulle anse
bronzee con despotes ton hippon dal Piceno, in G.
Tagliamonte (a cura di), Ricerche di archeologia
medio-adriatica. I. Le necropoli: contesti e materiali,
Atti dell'incontro di studio (Cavallino-Lecce, 27-28
maggio 2005), Congedo Editore, 2008, pp. 43-64
(10) G.
Colonna, Le forme della devozione, in AA.VV.,
Piceni.
Popolo d’Europa,
cit., p. 90
(11) D. Lollini, La
civiltà picena, in AA.VV., Popoli e civiltà
dell'Italia antica, Roma 1976, p. 179
(12) "Generici
volatili che sono raffigurati, a tutto tondo o nella
decorazione lineare, ma sempre in maniera schematica,
spesso altamente stilizzata in numerosi oggetti del
corredo funerario" che simboleggiano "le anime
dei morti che accompagnano il sole nel suo viaggio
notturno nel mondo sotterraneo":
L. Franchi dell'Orto, Le "anetrelle": sopravvivenza
di una simbologia religiosa dell'età del Bronzo europea,
in AA.VV., Piceni. Popolo d’Europa,
cit., p. 91
(13) L. Franchi dell'Orto,
Le "anetrelle", in AA.VV., Piceni. Popolo
d’Europa, cit., p. 92
(14)
A. Naso, Piceni. Storia
e archeologia delle Marche in epoca preromana,
Longanesi, Milano 2000, p. 241.
In virtù della
circoscritta area di attestazione degli anelloni,
Gabriele Baldelli ha attribuito agli anelloni il valore
di indicatori archeologici di un’altra possibile
aggregazione dal significato etnico e politico
nell’ambito di un ipotetico sistema territoriale piceno
a carattere cantonale, E. Biancifiori, Gli anelloni a
nodi, in M. G. Benedettini (a cura di), Il Museo
delle Antichità Etrusche e Italiche III. I Bronzi della
Collezione Gorga, Officina Edizioni, Roma 2012, (pp.
366-372), p. 366
(15) G.
Baldelli, I luoghi di culto. Marche, in
AA.VV.,
Piceni.
Popolo d’Europa, cit., p. 86
(16) A. Naso, Piceni.
Storia e archeologia delle Marche in epoca preromana,
cit., p. 235
(17)
Pseudo Scilace, Periplo,
17: "Dopo i Sanniti c'è il popolo degli Umbri, cui
appartiene la città di Ancona. Tale popolo venera
Diomede, avendone ricevuti benefici, e c'è un tempio in
suo onore. La navigazione lungo le coste dell'Umbria
dura due giorni e una notte" (Μετὰ
δὲ Σαυνίτας ἔθνος ἐστὶν Ὀμβρικοὶ, καὶ πόλις ἐν αὐτῷ
Ἀγκών ἐστι. Τοῦτο δὲ τὸ ἔθνος τιμᾷ Διομήδην, εὐεργετηθὲν
ὑπ' αὐτοῦ καὶ ἱερόν ἐστιv αὐτοῦ. Παράπλονς δε της
Όμβριχης έβτϊν ημερών δνο καϊ ννχτός)
(18) Plinio, Naturalis
Historia, III, 110-111: Quinta regio Piceni est
(...)
Cupra oppidum (...) Cuprenses cognomine
Montani
(19)
A. Calderini, Cupra un
dossier per l'identificazione, in "Eutopia" I, 1-2,
Edizioni Quasar, Roma 2001, pp. 48-49;
T. Capriotti, Il
santuario della dea Cupra a Cupra Maritima: una proposta
di ubicazione, in L. Braccesi - F. Raviola - G.
Sassatelli, "Hesperia. Studi sulla grecità di
occidente", 26, L’Erma di Bretschneider, Roma 2010, pp.
7-159
(20)
A. Calderini, Cupra un
dossier per l'identificazione, cit., p. 50
(21) Silio Italico,
Punica, VIII 431-432: et quis litoreae fumant
altaria Cuprae; Asinio Pollione, in Flavio Sosipatro
Carisio, Artis grammaticae, I, 100, 24:
veneris antistita Cupra; Varrone, De lingua
latina, V, XXXII:,
Vicus Cyprius a cypro, quod ibi Sabini cives additi
consederunt, qui a bono omine id appellarunt: nam cyprum
Sabine bonum;
Strabone,
Geografia,
V, 4, 2:
Εφεξη̃ς δὲ
τὸ τη̃ς Κύπρας ̉ϊερόν, Тυρρηνω̃ν ̉ίδρυμα καὶ κτίσμα˙
τὴν δ’Ήραν ε̉κει̃νοι Κύπραν καλου̃σιν
(22) "Altre possibili
attestazioni del teonimo Cupra hanno una
distribuzione areale molto più vasta, sempre, comunque,
all'interno dei territori degli Italici e pongono la
questione di una eventuale natura panitalica della dea,
giacché, se confermate, ne estenderebbero il culto
all'intero mondo italico", A. Calderini, Cupra un
dossier per l'identificazione, cit., pp. 58 segg.
(23) A. Calderini,
Cupra un dossier per l'identificazione, cit., pp.
50-54
(24)
A. Calderini, Cupra un
dossier per l'identificazione, cit., p. 48
(25)
T. Capriotti,
Luoghi di culto
nelle città portuali delle regiones V e VI dell'Italia
augustea, Tesi di dottorato "Scienze dell'antichità,
filologico-letterarie e storico-artistiche", Università
degli studi di Trieste, 20 aprile 2009, pp. 361,
362
(26) T. Capriotti, Il
santuario della dea Cupra a Cupra Maritima: una proposta
di ubicazione, cit., p. 146
(27) F. Marcattili,
Il santuario di Cupra a Fossato di Vico, in
"Studi Etruschi", 80, 2017 [2018], (pp. 115-129), p.
117. "Si potrebbe arguire, che il frammento d'orlo
in terracotta, su cui è apposta la lamina di bronzo
iscritta, avesse appartenuto alla bocca della cisterna
entro la quale esso fu rinvenuto...Alcuni residui di
malta impastati a detriti calcarei tuttora aderenti alla
parete esterna del frammento, farebbero pensare ad un
anello in muratura che avrebbe costituito il parapetto
della cisterna,
E. Stefani,
Fossato di Vico. Antiche costruzioni scoperte in
contrada "Aja della Croce”, in "Notizie degli scavi
di antichità" (1940), (pp. 171-179),
pp. 174-175
(28) F. Marcattili,
Il santuario di Cupra a Fossato di Vico, cit. pp.
119, 121
(29) E. Stefani,
Fossato di Vico. Antiche costruzioni scoperte in
contrada "Aja della Croce”, cit., pp. 172-174
(30) E. Stefani,
Fossato di Vico. Antiche costruzioni scoperte in
contrada "Aja della Croce”, cit., p. 175
(31) E. Stefani,
Fossato di Vico. Antiche costruzioni scoperte in
contrada "Aja della Croce”, cit., pp. 176-178
(32) F. Marcattili,
Il santuario di Cupra a Fossato di Vico, cit., p.
126
(33) L. Bonomi - L.
Agostiniani,
Lamine di Colfiorito, in L. Agostiniani - A.
Calderini - R. Massarelli (a cura di), Screhto·Est.
Lingua e scrittura degli antichi Umbri, Catalogo
della mostra (Perugia-Gubbio, 22 settembre 2011-8
gennaio 2012), Università degli Studi di Perugia,
Perugia 2011, pp. 25-26
(34) S. Sisani,
Umbrorum Gens Antiquissima Italiae. Studi sulla società
e le istituzioni dell’Umbria preromana, Deputazione
di Storia Patria per l'Umbria, Perugia 2009, p. 196
(35) L’identificazione tra
Bona Dea e la Venere di Cnido (una "Venere" al
bagno) sembra confermata dall'iscrizione CIL 06, 76
(EDR158754): Bonae Deae Veneri Cnidiae, D̲(ecimus)
I̲unius Annianus Hymenaeus et invicta (e) spira(e) P̣haedimiana
(d(onum) d(ederunt))
(36) D. Candilio - M.
Bertinetti,
Bona dea: una statuetta ritrovata, "Bollettino di
archeologia in line", IV, 2013/1, p. 33
(37) Il rituale delle
lavationes
relativo ai Veneralia del 1 aprile è spiegato
da Ovidio (Fasti, IV, 133-162): "Venerate
ritualmente la dea, madri e spose del Lazio, ed anche
voi, che non indossate né la benda né la veste lunga.
Togliete dal suo collo di marmo le catene d’oro, mettete
da parte i gioielli: la dea va completamente lavata
(...) Lei vuole che anche voi vi laviate, coperte da un
ramo verde di mirto (...) nel luogo in cui scorre acqua
calda, si offre incenso alla Fortuna Virile. Le donne vi
si recano tutte insieme e si spogliano nude, svelando
così tutti i difetti del loro corpo; è la Fortuna Virile
che li nasconde e impedisce agli uomini di vederli, e
questo lo si fa se le si offre, pregando, un po’
d’incenso". "Volevo tuttavia sottolineare subito
un’interessante analogia: l’offerta di incenso a Fortuna
Virile-Venere Verticordia, compiuta certamente su altari
molto particolari, si connette molto bene ai fumanti «litoreae
[…] altaria Cuprae» ricordati da Silio Italico",
F. Marcattili,
Tra Venere, Bona Dea e Cupra. Note a margine
della lamina di Fossato di Vico, in A. Ancillotti -
A. Calderini - R. Massarelli (a cura di), Forme e
strutture della religione nell’italia mediana antica,
III Convegno internazionale dell’Istituto di Ricerche e
Documentazione sugli Antichi Umbri (Perugia, Gubbio
21-25 settembre 2011), "L'Erma" di Bretschneider, Roma
2016, p.
472
(38) F. Marcattili,
Il santuario di Cupra a Fossato di Vico, cit., p.
122
(39) F. Marcattili,
Il santuario di Cupra a Fossato di Vico, cit.,
p. 123
(40) T. Capriotti, Il
santuario della dea Cupra a Cupra Maritima: una proposta
di ubicazione, cit., p. 146
(41) D. Lollini, La
civiltà picena, cit., pp. 178-179. Per
l'attestazione del
Juppiter Serenus a
Gabicce si veda: A. Trevisiol,
Fonti letterarie ed epigrafiche per la storia romana
della provincia di Pesaro e Urbino, L'Erma di
Bretschneider, Roma 1999, p. 59
(42) G. Baldelli, I
luoghi di culto. Marche, in
AA.VV.,
Piceni. Popolo d’Europa, cit., p. 87. Per il santuario
delle acque di S. Vittore: M. Landolfi - G. Baldelli,
San Vittore di Cingoli in M. Pacciarelli
(a cura di),
Acque, grotte e
dei,
cit., pp. 180-183
(43) Un
importante luogo di culto è stato individuato sulla cima
di Monte Giove (Teramo), ad una quota di 749 metri
s.l.m. Qui, in seguito alle esplorazioni degli anni
1974-75 da parte della locale Soprintendenza
Archeologica, sono emerse alcune strutture pertinenti ad
almeno quattro differenti ambienti. Fra i materiali
rinvenuti, oltre a coperchi, fuseruole, rocchetti, pesi
da telaio e oggetti metallici, sono numerosi i vasetti
miniaturistici ad impasto (in particolare, dolii con
quattro prese e tazze mono e biansate) decorati con
piccole bugne. I reperti fittili vengono attribuiti al
VI secolo. Meritano particolare attenzione una figuretta
femminile in lamina d'argento ritagliata (V sec. a.C.) e
un bronzetto di Veiove nell'atto di scagliare il fulmine
(III sec. a.C.),
V. d'Ercole, I luoghi
di culto. Abruzzo, in
AA.VV.,
Piceni.
Popolo d’Europa,
cit., p. 88; V. d'Ercole - S. Cosentino - G. Mieli,
Stipe votiva dal santuario d'altura di Monte Giove,
in AA.VV.,
Eroi e Regine.
Piceni Popolo d’Europa,
Catalogo della mostra (Roma, 12/4 - 1/7 2001), De Luca,
Roma 2001 , pp. 338-339
(44) G.
Baldelli, I luoghi di culto. Marche,
AA.VV.,
Piceni.
Popolo d’Europa,
cit., p. 86 |