Nella sua opera Memorie della città di Cingoli, Orazio Avicenna riporta una serie di informazioni, apprese da un non precisato "Erudito scrittore", dalle quali è possibile desumere che la città di Cingoli fu "edificata", "antichissimamente", dalla "Regina Circe"; è per questo motivo che il suo nome e quello del colle sul quale sorge era chiamato Circea, come si desume anche da altri numerosi manoscritti. Sembrerebbe comunque che questa tradizione fosse presente a Cingoli fin da un'epoca piuttosto antica. Sempre secondo quanto sostiene l’Avicenna, infatti, anche in un manoscritto del XII secolo e riferito alla "Vita di S. Floriano" si citava il nome Circea in riferimento alla città di Cingoli: de Civitate Circea hodie Cingulum.

 

“Già ogn'uno è informato particolarmente de nostri Paesi, che varie sono state l’opinioni sopra la nobile Città di Cingoli, affermando alcuni essere stato edificato antichissimamente dalla Regina Circe. Tempo veramente da quello, che da altri alla fondatione d'esso s'asserisce. Da molti tuttavia questa opinione viene confutata; Conciosia cosa che, se bene nella vita del glorioso San Fiorano Protettore di Iesi, che manuscritta si conserva in quella Città, si legga, Cingoli ove nacque il sudetto Santo esser chiamato Circea, de Civitate Circea hodie Cingulum dicono; ma senza apportare ragione alcuna, che il chiamarlo Circea fu errore o dello Scrittore, o del Compositore dell'Istoria; benchè universalmente convenghino tutti, che San Fiorano sia nato; altri dicono in Cingoli” (...)
“Che Cingoli sia stato chiamato Circea in molti Manuscritti non ha dubbio alcuno. Qual fusse questa Regina Circea, che l'edificò, o fusse quella venuta dalle Tebaide Regioni, o quella venuta da Damasco, o quell'altra, come io credo, che affermano essere stata insigne nell'arte dell'eloquenza, onde fingono, che facesse diventare stupidi, e quali convertisse gli huomini in fatti, e che fosse ancora singolare nella cognitione degli Astri (dal che viene che Maga fu nominata, benche la sua particolar professione fusse il predire per via de' Pianeti le cose future, Arti veramente in quel tempo appresso i Persiani, gli Arabi, Caldei, Egittij e altri Popoli pregiatissime, e tutte per Divine) io non voglio tratternermi a investigarlo, ne meno a disaminarne le opinioni, che ve ne sono, non trovando cosa a mio senno da assicurarne in questo proposito la verità negli animi altrui; E tanto più quanto habbiamo havuto persona dotta, che ha lasciato scrittura sopra di ciò ripiena di belle curiosità;
Et o sia capitata in altrui mani dimezzata, e imperfetta, o sia per altro pensiero stata in qualche parte da alcuno soppressa; chiaro è, che lo Scrittore era di molta stima, e con molta autorità provava, Cingoli essere stato edificato molti secoli prima di Labieno; Onde consequentemente egli è stato anche di parete, che il nome di Cingoli derivasse o dal Monte fu 'l quale fu edificato, che si chiamava Circeo, o pur da i giuochi Circensi, che vi furono, alcuni dicono, instituiti, alcuni altri essercitati per l'occasioni, che à narrarle sarebbe troppo lungo, e inutile. Supposto dunque per vero, come certo può essere, e come si prova da quell'Erudito scrittore accennato pur hora da me, che Cingoli sia stato edificato dalla Regina Circe, e che Circea anticamente si nominasse”
(1).

 

Oltre all'Avicenna, un altro riferimento alla leggendaria fondazione ci viene fornito dell'erudito cingolano Filippo Raffaelli (XIX sec.); nella biblioteca di famiglia era conservato, infatti, un manoscritto di tal Franceschini (verosimilmente il Tito Franceschini che nel 1602 pubblicò l'Istoria della Vita della gloriosa S. Sperandia protettrice di Cingoli) intitolato “La rinascente Fenice nei colli di Circe ossia Brevi notizie dell'antica città di Cingoli” (2). L'Avicenna si riferiva forse a tal Franceschini quando parlava dello "Scrittore", l'"Erudito scrittore", dal quale apprese le notizie sulla fondazione di Cingoli?

I riferimenti a questa leggenda sono quindi piuttosto scarsi e risultano a tutt'oggi insufficienti per intraprendere una sua analisi; rimanendo nel campo della pura illazione e volendo comunque trovare una spiegazione, un fondo di verità, a questa leggenda, si potrebbe avanzare l'ipotesi che essa conservi il ricordo non tanto di un atto fondativo, quanto la presenza di un elemento che possa far pensare a ciò. Questo elemento, tramandato sotto forma di leggenda, potrebbe essere il ricordo di un luogo cultuale dedicato ad una qualche divinità femminile di epoca picena intorno al quale sarebbe poi sorto, nel corso del III sec. a.C. l'insediamento di Cingulum.

Alcuni elementi (3) suggeriscono, infatti, che già in età repubblicana Cingoli sia stato sede di un insediamento già strutturato, anche dal punto di vista amministrativo; considerando la sua lontananza dalle principali vie di comunicazione e dalle direttrici commerciali è alquanto singolare, infatti, che un tale insediamento fosse presente in un'età di parecchio anteriore alla creazione del municipio romano a meno che non si ammetta l'ipotesi che, sull'alto colle cingolano, fosse stato presente un elemento catalizzatore, aggregativo, come appunto un luogo di culto.

La dea Cupra sembra aver avuto una venerazione particolare presso i Piceni come conferma innanzitutto la toponomastica picena antica; nella descrizione di Plinio figurano infatti una Cupra oppidum (Cupra Marittima) e una popolazione di Cuprenses Montani (Cupra Montana).

Alla luce della parentela tra il sabino e gli altri dialetti italici, il nome della dea Cupra si può interpretare come femminile sostantivato dell’aggettivo sabino cupro-, con un significato equivalente a quello del latino bona: questo rivelerebbe quindi una corrispondenza onomastica tra la dea Cupra e la Bona Dea latina, come già avevano rilevato gli studiosi alla fine del secolo scorso. Molti studiosi hanno illustrato e precisato il ruolo di culti importati dall’Oriente greco-semitico in età arcaica, chiarendo il quadro assai complesso dei culti femminili nella Penisola, rivelando come essi siano riconducibili per la maggior parte alle varie manifestazioni della Astarte-Afrodite diffusasi sotto nomi diversi, e con sfumature e funzioni molto diverse tra loro, in tutte le culture. Per coerenza interpretativa la figura di Cupra umbro-picena deve venire accostata a questo tipo (4).

Sulla base delle fonti antiche, in particolare Varrone, la qualificazione della dea come mater e gli studi linguistici, è possibile stabilire un legame tra la dea Cupra appenninica e le Veneri del pantheon italico o più in generale con una divinità femminile legata alla fertilità e con i caratteri tipici dell’Astarte-Afrodite greco-semitica giunta in Italia tramite le rotte commerciali intorno al VII secolo a.C. di cui fanno parte, oltre a Cupra, la Uni (-Thesan) di Pyrgi, la Northia di Volsinii, le Fortune del mondo laziale, Mater Matuta, Bona Dea, Libitina, Venere e Giunone
(5).

Per similitudine nelle caratteristiche e nella provenienza dall’antico substrato mediterraneo è possibile, quindi, accostare la figura di Circe alle figure più propriamente italiche (Feronia, Angizia, Bona Dea, Diana, Marica, Artemide). Tutte queste figure condividevano: la signoria su terra, piante, animali; garantivano la guarigione al loro popolo attraverso l’uso delle erbe del loro giardino segreto all’interno del bosco; la signoria sui serpenti; l’essere dee, maghe, donne, sacerdotesse sapienti; la capacità di mutare la forma di sé stesse e degli uomini; il rapporto con gli eroi; l’essere divinità eponime di terre e genti; l’essere Signore della vita e della morte.

Secondo l'iconografia e la mitologia classica, Circe è, infatti, attorniata da leoni e lupi, resi mansueti dalla sua magia; una vera Potnia theròn, la “Signora degli animali”. Come tutte le antiche dee Madri, aveva un aspetto ctonio e infero, nonché magico responsivo, è la dea che procura gli oracoli e che fornisce bevande allucinogene, che fa uscire fuori la vera natura degli uomini. Circe è una divinità in grado di esercitare un forte dominio sulla natura, sugli animali e sugli uomini, dotata anche di una capacità lussuriosa e produttiva, è la natura provvida che fa partorire donne e animali, e fa crescere le piante.

 

Dosso Dossi, Circe e i suoi amanti in un paesaggio, olio su tela, National Gallery of Art, Washington, circa 1525 (da commons.wikimedia.org/wiki/Category:Circe_and_her_Lovers_in_a_Landscape?uselang=it)

 

E' logico, e prudente, sostenere che l'ipotesi qui espressa, cioè l'esistenza di un luogo di culto di una divinità italica (dea cupra?) che abbia da un lato permesso lo sviluppo di un insediamento fin dall'età repubblicana in un luogo ameno e dall'altro che abbia consentito la nascita di una tradizione leggendaria, sia una mera supposizione non supportata da prove e che tale rimarrà fino a quando non si avranno a disposizione dati oggettivi, innanzitutto archeologici.

Riguardo alla nascita di questa leggenda, Paolo Appignanesi invitava a riflettere sulle seguenti considerazioni: difficilmente lo storico di un paese costretto già da secoli da un passo di Cesare (Bell. Civ., I, 15: Etiam Cingulo, quod oppidum Labienus constituerat suaque pecunia exaedificaverat,ad eum legati veniunt, quaeque imperaverit, se cupidissime facturos pollicentur) a interrogarsi sulle proprie origini si sarebbe lasciato sfuggire l'opportunità di valersi di una tradizione che quelle stesse spingeva oltre il momento di Labieno; altrettanto difficilmente avrebbe potuto inventarne una di sana pianta e renderla accettabile se non fosse già esistita, in embrione, una favolosa narrazione popolare e conseguentemente il terreno adatto per recepirne la versione nobilitata. Non può essere trascurata a questo punto anche la possibilità che sia sopravvissuta fino al Medioevo e recepita successivamente da storici locali e infine dall'Avicenna una tradizione orale che legava effettivamente l'antica Cingulum al nome di Circe. Ma l'esame di tale possibilità presupponendo l'acquisizione di indizi toponomastici, archeologici, letterari, araldici, sigillografici ecc., richiederà tempi assai lunghi per essere affrontato  (6).

 


 

Circe e Ulisse con uomini trasformati in animali, illustrazione xilografica, stampata da Johannes Zainer, circa 1474 (da commons.wikimedia.org/wiki/Image:Woodcut_illustration_of_Circe_and_Odysseus_with_men_transformed_into_animals_-_Penn_Provenance_Project.jpg?uselang=it)

 

Le metamorfosi di Circe: dea, maga e femme fatale (7)

Quando Odisseo arriva sulla sua isola, non sa nulla di lei. Lui e suoi uomini sono dei sopravvissuti: ancora sconvolti dalla perdita dei compagni assassinati brutalmente dai Ciclopi e dai Lestrigoni, sono affamati ed hanno bisogno di fare provviste. Tutto ciò che Odisseo vede, sbarcando, è un filo di fumo, proveniente da un luogo in mezzo al bosco, al centro dell’isola. Dopo tante sventure, Odisseo è comprensibilmente sospettoso, ma non ha altra scelta che esplorare la situazione, così manda in avanscoperta un contingente guidato da Euriloco. A sorpresa, scoprono un luogo bello e strano: la casa di Circe è fatta di pietre ben levigate, e tutt’intorno giacciono lupi e leoni. Sentono una bella voce cantare (una donna o una dea?) e decidono di entrare, tutti eccetto Euriloco.

Circe offre agli ospiti una zuppa di formaggio, miele fresco, vino e cereali, alla quale ha aggiunto una misteriosa droga. I Greci bevono la pozione, lei li tocca con la sua bacchetta (rhabdos) e quelli si trasformano in maiali7. Intanto Odisseo è preoccupato (dei compagni è tornato il solo Euriloco, terrorizzato), e decide di andare a dare un’occhiata lui stesso. Nel bosco incontra Hermes, che lo mette in guardia, consegnandogli un’erba magica, il moly. Quando Circe vorrà trasformarti, lo istruisce Hermes, «tu sguaina la tua spada affilata e balza su di lei come se volessi ucciderla. Atterrita, lei ti offrirà il suo letto. Tu non rifiutare l’amore della dea […], ma chiedile di giurare il gran giuramento dei numi, che nessun altro malvagio inganno ordirà contro di te e che, quando sarai disarmato e nudo, non ti farà vile ed impotente» (Od. 10, 294-301). Odisseo segue le istruzioni di Hermes e le cose vanno esattamente come il dio aveva previsto. Non appena l’eroe ha minacciato Circe, la dea si getta a terra e abbracciando le ginocchia di lui nel gesto rituale della supplica gli dice: «Vieni ora, rimetti la spada nel fodero e saliamo insieme sul mio letto, affinché, dopo esserci uniti in amore, possiamo infine fidarci l’uno dell’altra» (Od. 10, 333-35).

Questo è un punto centrale nella versione omerica del mito, perché d’ora in poi Circe si trasformerà in un’amabile padrona di casa, offrendo ai naufraghi ospitalità per un lungo anno, ed usando infine i suoi poteri per aiutare Odisseo nel suo viaggio di ritorno ad Itaca. Dopo aver fatto l’amore con l’eroe, Circe ritrasforma i compagni in esseri umani, facendoli anche più belli e più giovani di prima. È l’inizio di un periodo di riposo e serenità, tanto che Odisseo si dimentica di Itaca e alla fine sono gli hetairoi a ricordargli che vogliono tornare a casa. L’eroe allora supplica Circe di farli ripartire e lei accetta senza esitazione, dicendo che non desidera farlo restare nella sua casa contro la sua volontà: non solo gli restituisce la libertà ma gli concede anche il suo aiuto, senza rimpianti e senza riserve9. Il rapporto tra i due protagonisti è quello di una dea con il suo protetto. (...)

Circe nell’Odissea è una figura molto complessa, e forse per questo particolarmente affascinante. È una dea terribile (deine theòs) (Od. 10, 136), esperta in pozioni magiche (polypharmakos) (Od. 10, 276) ed in astuzie malvagie (olophoia denea Kirke) (Od. 10, 289). Come ogni divinità arcaica, Circe ha una faccia positiva ed una negativa, è terribile e benigna, è una potnia theron, una signora degli animali, una divinità liminale, che sa come parlare coi morti, che può apparire e sparire ed agire senza essere vista. (...)

Dopo Omero incontriamo Circe molte altre volte nella letteratura antica, ma con una caratterizzazione ben diversa. In Virgilio Circe è una figura sinistra, una pericolosa forza della natura. La incontriamo all’inizio del settimo libro dell’Eneide, quando Enea ed i suoi Troiani stanno per approdare sulla costa italica. Navigando sottocosta di fronte al luogo dove Circe vive, i Troiani sentono la dea cantare e gli animali (i lupi ed i leoni) ululare e gemere scuotendo le catene (Aen. 7, 15-18). La descrizione di Virgilio riprende molti dei dettagli omerici: il canto di Circe, il telaio a cui la dea siede tessendo, il fuoco di legno di cedro. (...)

Non c’è alcun indizio del fatto che Enea, come Odisseo, potrebbe apprendere cose importanti da lei. La Circe virgiliana non è ambigua, è solo malvagia e va evitata (...) In Ovidio Circe personifica una passione così estrema che distrugge chiunque impedisca la sua soddisfazione. Nelle Metamorfosi lei è protagonista di tre episodi, relativi al suo amore per Glaucos, Odysseus e Picus (Met. 13, 900-14, 74; 14, 242-434)24. Il trattamento ovidiano dell’episodio di Odisseo segue molto da vicino quello omerico, ma l’atmosfera è molto più cupa. La storia non è raccontata da Odisseo stesso, come in Omero, ma da uno dei compagni, che è stato trasformato in maiale e poi salvato dall’eroe. Odisseo qui arriva esplicitamente come vendicatore (ultor) (Met. 14, 290), Circe è chiaramente terrorizzata da lui e l’atto d’amore che sussegue non è un invito, ma il risultato della sua sottomissione. Le altre due favole condividono lo stesso soggetto: Circe è innamorata di qualcuno che non ricambia i suoi sentimenti e si vendica in maniera violenta e crudele. (...)

Non c’è nessun mistero nella Circe di Ovidio: nonostante la sua natura divina, lei si comporta come una donna delusa ed abbandonata, ferita, furiosa, gelosa e vendicativa. In primo piano sono la sua sessualità elementare, la sua violenza e la sua crudeltà. In Ovidio, per la prima volta, l’aspetto della magia riceve una grande attenzione, molto maggiore che non in Omero o in Virgilio, dove è solo un accessorio secondario, espressione più che di magia come sapere specialistico (non differenziabile dalla sfera religiosa all’epoca della fissazione dei poemi omerici), della sua potenza divina.

Ma ai Greci ed ai Romani dell’epoca di Ovidio, Circe doveva apparire certamente più come una strega che non come una dea, nonostante la presenza di un culto, al Circeo, probabilmente precedente alla tradizione virgiliana e da esso indipendente. Il suo essere una “straniera”, la sua liminalità, il suo isolamento, bastavano a renderla diversa dalle divinità olimpiche e a fare di lei, col tempo, una maga operante ai limiti, se non del tutto al di fuori, della religiosità tradizionale, emblema di un sapere pericoloso ed ambiguo. Il ritratto ovidiano in particolare, che la presenta come un’incantatrice crudele e senza scrupoli, ha attirato l’attenzione degli allegoristi cristiani, che l’hanno interpretata come una figura demoniaca, personificazione del legame tra il femminino, l’irrazionale, la morte, la seduzione e le forze oscure ed istintive della natura. Privata di ogni qualità positiva, Circe si adattava bene alle teorie cristiane sulla natura demoniaca della donna e della sessualità femminile promulgate dal Medioevo (...).

L’iconografia antica ha ben rappresentato il processo di “umanizzazione” di Circe e la sua trasformazione da dea in maga. Nell’arte greca Circe compare all’interno delle rappresentazioni del mito di Ulisse, frequenti soprattutto in epoca arcaica. (...)

Dal punto di vista iconografico, il mito di Circe appare diffuso particolarmente tra la metà del VI e l’inizio del V sec. a.C., soprattutto sui vasi a figure nere. In due kylikes attiche da Boston databili alla seconda metà del VI sec. a.C. la dea appare nuda, con un cane ai suoi piedi, mentre offre la pozione ai Greci, già parzialmente trasformati in animali diversi (per esempio un cane, un cavallo, un cigno, un gallo e un leone). Circe, in posa ieratica, appare in genere nelle rappresentazioni arcaiche del mito come figura centrale: la sua ricorrente nudità sembra voler sottolineare la sua divinità.

L’iconografia della “dea nuda”, tipica dell’orientalizzante ed attestata tra VIII e VII secolo a.C. nei santuari di Artemis Orthia a Sparta e di Athena a Gortina (Creta), potrebbe aver influenzato la creazione di questa iconografia e forse anche del personaggio divino di Circe nell’Odissea che, come queste divinità arcaiche, è anch’essa una dea “senza marito” e vive sola con le sue ancelle in una casa tutta femminile. In queste rappresentazioni arcaiche Circe non è presentata come si raffigurerebbe normalmente una donna, ma nella posa di un kouros arcaico, di cui condivide la nudità eroica. Circe non si accorda infatti con la norma del comportamento femminile, ma piuttosto inclina verso il maschile, dal momento che conduce una vita di cui è la sola responsabile (...)

Odisseo appare normalmente in un ruolo secondario, e talora può essere completamente assente (...) Sui vasi a figure rosse troviamo un’immagine completamente diversa di Circe. Qui l’attenzione è spostata su Odisseo che la disarma, mentre Circe perde la centralità originaria ed assume il ruolo della sconfitta. Questa nuova iconografia, attestata già intorno al 460 su una lekythos da Erlangen (...)

Mentre dunque nelle rappresentazioni più antiche Circe era una figura centrale, le immagini classiche del V sec. si concentrano sul momento in cui Odisseo la sconfigge, sfoderando la spada: Odisseo è aggressivo e minaccioso, Circe sorpresa, spaventata ed umiliata. Come Lampis giustamente suggerisce, in questa iconografia si riflette una nuova mentalità. Circe, diventata umana, deve prendere una posizione subordinata all’uomo, come si conviene ad una donna attica del V sec. (...)

L’iconografia romana del mito è piuttosto stereotipata: in particolare negli affreschi, di cui conosciamo alcuni esempi da Pompei e dall’Esquilino, il tema dominante è quello della “sottomissione” di Circe, con la dea prostrata e supplicante ai piedi di un minaccioso Ulisse, mentre la magia gioca un ruolo assolutamente secondario, accennata solo dalla fugace presenza degli animali in secondo piano, spesso nascosti dietro una finestra. (...)

Durante il Medioevo, Omero non era stato accessibile agli intellettuali dell’Europa occidentale, pur continuando ad essere letto e commentato nell’Oriente bizantino. I suoi poemi erano persi e ne sopravvivevano solo frammenti, citazioni all’interno di opere retoriche e filosofiche, nelle opere dimitografia e nei compendi. Ovidio invece continuava ad essere letto, e così anche Virgilio e i commentatori tardoantichi. Non meraviglia dunque che l’unica Circe nota fino alla fine del XV secolo fosse molto influenzata dalle Metamorfosi ovidiane da una parte, e dall’interpretazione allegorica di origine tardoantica e molto popolare nel Medioevo dall’altra. È stata la Circe maga famosissima e clarissima meretrix descritta da Agostino e da Servio non certo la Circe dea, ad influenzare la tradizione. (...)

Un testo che ebbe un ruolo importante nella trasmissione della tradizione omerica dopo la fine del mondo antico fu la Ephemeris de Historia Belli Troiani, traduzione latina di un’opera attribuita al personaggio favoloso di Ditti Cretese, che si riteneva fosse stato testimone oculare della guerra di Troia. Alla Ephemeris di Ditti cretese si ispirò il poeta normanno Benoît de Sainte-Maure con il suo Roman de Troie (fine XII secolo), in cui si raccontavano tutte le storie del ciclo troiano, compresa quella di Ulisse. Qui Circe e Calipso (!) sono due dame bellissime senza marito che vivono sole sulle isole Eolie e insidiano tutti coloro che capitano loro a tiro. Circe è dunque scivolata lentamente sulla figura di Calipso, così consegnando alla letteratura futura due modelli perfetti per le varie maghe rinascimentali buone o cattive, come Alcina, Armida, Morgana ed Acrasia.

Nel 1488 vide la luce a Firenze l’editio priceps in greco dell’opera di Omero, presto tradotta in latino e in varie altre lingue, rendendo Omero di nuovo accessibile. Così l’ambigua divinità dell’Odissea poteva riprendere il suo posto accanto alla Circe di Virgilio e di Ovidio. Nel frattempo, anche i manoscritti dei Moralia di Plutarco erano ricomparsi sui mercati occidentali, e con essi una singolare versione del mito di Circe, in cui le vittime trasformate erano del tutto soddisfatte della nuova condizione animalesca (...)

Nella letteratura rinascimentale si affiancano ora altre immagini accanto a quella stereotipata della Circe maga malevola e sensuale40. Giovanni Battista Gelli, membro dell’Accademia fiorentina e amico di Cosimo de’ Medici, era una di una di queste voci alternative. La sua Circe, pubblicata nel 1549, e chiaramente ispirata da un’operetta di Plutarco (il cosiddetto Gryllos o bruta animalia ratione uti) è una collezione di dialoghi tra Circe (la cui simpatia ed intelligenza sono evidenti fin dall’inizio), Ulisse e gli animali trasformati.

Ulisse vuole partire dall’isola, portandosi dietro tutti gli animali che una volta erano stati Greci. Circe si dichiara d’accordo, ma prima deve chiedere agli animali se ne hanno voglia. E difatti, tutti, tranne uno, rispondono che non hanno nessuna voglia di tornare umani e sono perfettamente felici come sono. Particolarmente interessante è l’argomento della cerva, che essendo stata non un uomo ma una donna, trova la condizione dell’animale molto più piacevole di quella della donna, e dice chiaramente che avendo provato la libertà non ha nessuna intenzione di tornare serva. Il coraggioso femminismo di questa operetta è in realtà un fatto piuttosto isolato anche nel Rinascimento, ma ci sono altri poeti e filosofi che propongono un’immagine positiva di Circe.
 

 

Johann Wilhelm Baur, Circe transforms Picus into a woodpecker, British Museum, 1641 (da britishmuseum.org/collection/image/1246077001)

 

La leggenda di Circe e Picchio

“In terra d'Ausonia regnava Pico, un figlio di Saturno appassionato di cavalli addestrati al combattimento. Il suo aspetto era quello che vedi: tu stesso puoi ammirarne la bellezza e giudicare da questo ritratto com'era in vita. (...)

Col suo volto aveva affascinato le Driadi nate sui monti del Lazio, per lui sospiravano le divinità

delle fonti e le Naiadi tutte, quelle dell'Albula, del Numicio, dell'Aniene, dell'Almone dal brevissimo corso o dell'impetuoso Nare, del Fàrfaro dall'onda scura, quelle che vivono nel regno boscoso di Diana Scìtica o nel lago vicino. Ma lui tutte le disprezza; una ninfa sola corteggia, una ninfa che si diceva partorita da Venilia sul Palatino a Giano, il dio bifronte.

Di rara bellezza, ma per l'arte ancor più rara con cui cantava, fu chiamata Canente. Col suo canto riusciva a commuovere selve e sassi, ad ammansire le belve, riusciva a frenare le correnti dei fiumi, a trattenere nel volo gli uccelli.

Un giorno, mentre lei con la sua dolce voce di donna cantava, Pico uscì di casa per andare nelle campagne di Laurento a caccia di cinghiali; (...)

In quello stesso bosco si era recata anche la figlia del Sole, lasciando i campi che Circei son detti dal suo nome, per raccogliere su quei fiorenti colli erbe rare.

E quando, nascosta in una macchia, vide il giovane Pico, ne fu colpita: di mano le caddero le erbe che aveva colto e si sentì percorrere da un fuoco in tutte le sue vene. (...) evocò il fantasma inconsistente di un cinghiale e lo fece correre davanti agli occhi del re, fingendo che andasse a rintanarsi in un bosco fitto d'alberi, dove la vegetazione è più folta e un cavallo non può addentrarsi.

Subito Pico ignaro si lancia all'inseguimento d'una preda fantasma, smonta d'un balzo dalla groppa sudata del cavallo e inseguendo una chimera, s'inoltra a piedi nel cuore del bosco.

Circe recita preghiere, pronuncia parole infernali e adora dèi misteriosi con una nenia misteriosa, che usa per annebbiare il volto niveo della luna e stendere una coltre di nuvole davanti a quello di suo padre.

E anche questa volta a quella nenia il cielo si oscura, esala nebbie la terra e i compagni di Pico si perdono in un intrico di sentieri, finché nessuno scorta più il re.

Trovato luogo e momento adatto: 'Per questi tuoi occhi,' gli dice, 'che hanno ammaliato i miei, per la tua bellezza, delizia mia, che mi spinge a supplicarti anche se son dea, prenditi a cuore la mia passione e accetta come suocero il Sole, che tutto penetra con lo sguardo: non disprezzare, ingrato, Circe, figlia del Titano!'.

Ma lui, sprezzante, la respinge, respinge le sue preghiere: 'Chiunque tu sia, non sono tuo. Un'altra, sì, un'altra mi lega a sé e prego il cielo che mi leghi per quanto è lunga la vita! Finché il destino mi conserverà la figlia di Giano, Canente, mai violerò per un altro amore il patto che a lei mi lega'.

Dopo avere invano tentato e ritentato di commuoverlo: 'Me la pagherai' esclamò; 'non rivedrai mai più Canente; imparerai coi fatti di cosa sia capace una donna offesa nel suo amore, e Circe è donna, e innamorata e offesa'.

Due volte allora si girò verso ponente, due verso levante; tre volte lo toccò con la verga e tre volte recitò una formula. Il giovane fugge, ma con stupore si accorge di correre più veloce del solito; si scopre addosso delle penne e, sdegnato di dover vivere d'un tratto nei boschi del Lazio mutato in uccello, trafigge le querce selvatiche col duro becco e furioso infligge ferite lungo i rami. Le penne assumono il color purpureo del mantello; la borchia d'oro, che prima fermava la sua veste, diventa una piuma e di riflessi d'oro si cinge il collo; di ciò che appartenne a Pico l'unica cosa che rimane è il nome. (...)

Sulle spiagge di Tartesso si spegneva il tramonto del sole e invano gli occhi e il cuore di Canente avevano atteso il ritorno del marito. Servitori e popolo al lume delle torce perlustrano in ogni luogo tutte le selve.

E la ninfa non si accontenta di piangere, di strapparsi i capelli, di percuotersi il petto; fa, sì, tutto questo, ma poi corre fuori e vaga impazzita per le campagne del Lazio. Per sei notti e per sei giorni, quando tornava a splendere il sole, fu vista vagare senza dormire e senza cibarsi per monti e valli, dove la guidava il caso.

L'ultimo a vederla fu il Tevere: stanca per il dolore e il cammino, ormai accasciata lungo la sua riva. Lì afflitta sussurrava fra le lacrime fievoli parole che pur nel dolore si scioglievano in melodia, come il funebre canto che il cigno intona in punto di morte. Poi, struggendosi per lo strazio, sin nell'intimo del cuore, si dissolse e a poco a poco svanì nella leggerezza dell'aria” (8).

 

 

Circes concubitum detestatur Picus, stampa di A. Tempesta, 1606 (da britishmuseum.org/collection/image/1613366890)

 

 

The transformation of Picus into a woodpecker, stampa di W. Walker, 1774-1778 (da britishmuseum.org/collection/image/1613368764)

 

 

La Circe virgiliana

Celebrate le esequie secondo il rito e elevato il tumulo, il pio Enea, vedendo il mare tranquillo, lascia il porto e naviga a vele spiegate. Spira una brezza leggera nella notte e la Luna illumina serena il viaggio, il mare splende sotto la tremula luce.

Le navi passano accanto alla terra di Circe, dove la ricca figlia del Sole fa risuonare d'un canto assiduo i boschi inaccessibili e, a notte, nella sua grande casa si fa luce bruciando il cedro profumato e tesse fini tele con la spola sonora.

Di là s'odono i gemiti e i gridi dei leoni che scuotono le catene, ruggendo nella notte; si sentono infuriare nelle stalle i cinghiali di lunghe setole e gli orsi, si sentono ululare enormi lupi; tutti uomini che Circe, Dea crudele, con erbe magiche ha trasformato, dando loro l'aspetto di bestie feroci.

Temendo che i pii Troiani toccassero quella terra e entrassero in porto a esporsi agli incanti di Circe, Nettuno riempì le vele di venti favorevoli, li fece fuggire veloci e li trasse oltre i flutti che ribollivano intorno alla costa rocciosa”. (9)

 

 

 


(1)  O. Avicenna, Memorie della città di Cingoli, Jesi, 1644, pp. 43-44, 47.

(2) P. Appignanesi, Sulla fondazione leggendaria di Cingoli, in P. Appignanesi - D. Bacelli, La liberazione di Cingoli e altre pagine di storia cingolana, Cingoli 1986, nota 13, pp. 423-424

(3) Dai versi di un poema di Silio Italico (I sec. d.C.) si traggono due notizie molto interessanti: la partecipazione di un esponente della famiglia Labiena, proveniente da Cingoli, alla battaglia di Canne e l’esistenza a Cingoli, al tempo della seconda guerra punica, di un centro arroccato e difeso da “alte mura” (Silio Italico, Punica, X, 31-35: Labienus et Ocres sternuntur leto atque Opiter quos Setia colle vitifero, celsis Labienum Cingula saxa miserunt muris (...) nam Labienus obit penetrante per ilia corno, "Labieno e Ocres giacevano morti, e così Opiter, gli ultimi due nati nelle ricche colline di Setia, Labieno mandato dalle alte mura di Cingoli (...) Labieno muore trafitto ad un fianco").  Se dubbi si possono avanzare sulla notizia della presenza a Cingoli, al tempo della seconda guerra punica, di “alte mura”, il dato circa l'esistenza di un nucleo abitativo risalente a quel periodo, e che diede i natali ad un esponente della gens Labiena, sembra certamente più credibile.

L’esistenza di un centro repubblicano a Cingoli sembra provata da un’iscrizione (CIL IX 5679, EDR 015002) del III sec. a.C. nella quale sono menzionati i due magistri Terebius e Vibolenus:
MAGISTER
[E]I • TEREBIVS
ET • VIBOLEN
VS
L’assenza di ulteriori dati nell’iscrizione non permette di spiegare la natura dei due magistri; ma sia che si tratti di sacerdoti, preposti ad un qualche culto locale, sia che si tratti di magistrati civili, di un vicus o di un pagus, il testo accerterebbe una frequentazione dell’altura di Cingoli in età piuttosto antica,
G. Paci, Per la storia di Cingoli e del Piceno settentrionale in età romana repubblicana, in AA.VV., Cingoli dalle origini al sec. XVI. Contributi e ricerche, Atti del XIX Convegno di Studi Maceratesi, Cingoli 15-16 ottobre 1983, "Studi Maceratesi", 19, Centro di Studi Storici Maceratesi, Macerata 1986, p. 91; G. Paci, Cingulum, in Supplementa Italica, n. 6 (1990), Roma 1990, pp. 48-49.

Secondo la studiosa L. R. Taylor, analizzando un passo dell’orazione Pro C. Rabirio di Cicerone “è naturale identificare Cingoli con la prefectura del Picenum che Cicerone associa con i Labieni e il contesto dell’affermazione di Cesare su Cingoli fornisce la conferma per questa identificazione: Auximo Caesar progressus omnem agrum Picenum percurrit. Cunctae earum regionum praefecturae libentissimis animis eum recipiunt exercitumque eius omnibus rebus iuvant. Etiam Cingulo, quod oppidum Labienus constituerat suaque pecunia exaedificaverat, ad eum legati veniunt quaeque imperaverit se cupidissime facturos pollicentur. Alla luce del passo citato da Cicerone etiam qui sembra implicare l’inclusione di Cingoli tra le praefecturae che hanno accolto Cesare” ( L. R. Taylor, Labienus and the Status of the Picene Town Cingulum, in "The Classical Review" n. 35, 1921, pp. 158-159). L'ipotesi avanzata dalla studiosa dimostrerebbe quindi l'esistenza di una prefettura a Cingoli nel II sec. a.C..

(4) T. Capriotti, Luoghi di culto nelle città portuali delle regiones V e VI dell'Italia augustea, Tesi di dottorato "Scienze dell'antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche", Università degli studi di Trieste, 20 aprile 2009, pp. 361, 362.

(5) T. Capriotti, Il santuario della dea Cupra a Cupra Maritima: una proposta di ubicazione, in L. Braccesi - F. Raviola - G. Sassatelli, "Hesperia. Studi sulla grecità di occidente", 26, L’Erma di Bretschneider, Roma 2010, p. 146.

(6) P. Appignanesi, Sulla fondazione leggendaria di Cingoli, in P. Appignanesi - D. Bacelli, La liberazione di Cingoli e altre pagine di storia cingolana, Cingoli 1986, pp. 423-424

(7) I. Berti, Le metamorfosi di Circe: dea, maga e femme fatale. "Status Quaestionis", 1(8), 2015. https://doi.org/10.13133/2239-1983/13143

(8) Ovidio, Le Metamorfosi, XIV, 320-430.

(9) Virgilio, Eneide, VII, 5-25

 


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