Nella sua opera Memorie della città di Cingoli,
Orazio Avicenna riporta una serie di informazioni, apprese
da un non precisato "Erudito scrittore", dalle quali è possibile
desumere che la città di Cingoli fu "edificata",
"antichissimamente", dalla "Regina Circe"; è per questo motivo
che il suo nome e quello del colle sul quale sorge era chiamato
Circea, come si desume anche da altri numerosi
manoscritti. Sembrerebbe comunque che questa tradizione fosse presente a Cingoli fin da un'epoca piuttosto
antica. Sempre secondo quanto sostiene l’Avicenna, infatti, anche
in un manoscritto del XII secolo e
riferito alla "Vita di S. Floriano" si citava il nome Circea
in riferimento alla città di Cingoli: de Civitate Circea hodie
Cingulum.
“Già ogn'uno è
informato particolarmente de nostri Paesi, che varie
sono state l’opinioni sopra la nobile Città di
Cingoli, affermando alcuni essere stato edificato
antichissimamente dalla Regina Circe. Tempo
veramente da quello, che da altri alla fondatione
d'esso s'asserisce. Da molti tuttavia questa
opinione viene confutata; Conciosia cosa che, se
bene nella vita del glorioso San Fiorano Protettore
di Iesi, che manuscritta si conserva in quella
Città, si legga, Cingoli ove nacque il sudetto Santo
esser chiamato Circea, de Civitate Circea hodie
Cingulum dicono; ma senza apportare ragione alcuna,
che il chiamarlo Circea fu errore o dello Scrittore,
o del Compositore dell'Istoria; benchè
universalmente convenghino tutti, che San Fiorano
sia nato; altri dicono in Cingoli” (...)
“Che Cingoli sia stato chiamato Circea in molti
Manuscritti non ha dubbio alcuno. Qual fusse questa
Regina Circea, che l'edificò, o fusse quella venuta
dalle Tebaide Regioni, o quella venuta da Damasco, o
quell'altra, come io credo, che affermano essere
stata insigne nell'arte dell'eloquenza, onde
fingono, che facesse diventare stupidi, e quali
convertisse gli huomini in fatti, e che fosse ancora
singolare nella cognitione degli Astri (dal che
viene che Maga fu nominata, benche la sua particolar
professione fusse il predire per via de' Pianeti le
cose future, Arti veramente in quel tempo appresso i
Persiani, gli Arabi, Caldei, Egittij e altri Popoli
pregiatissime, e tutte per Divine) io non voglio
tratternermi a investigarlo, ne meno a disaminarne
le opinioni, che ve ne sono, non trovando cosa a mio
senno da assicurarne in questo proposito la verità
negli animi altrui; E tanto più quanto habbiamo
havuto persona dotta, che ha lasciato scrittura
sopra di ciò ripiena di belle curiosità;
Et o sia capitata in altrui mani dimezzata, e
imperfetta, o sia per altro pensiero stata in
qualche parte da alcuno soppressa; chiaro è, che lo
Scrittore era di molta stima, e con molta autorità
provava, Cingoli essere stato edificato molti secoli
prima di Labieno; Onde consequentemente egli è stato
anche di parete, che il nome di Cingoli derivasse o
dal Monte fu 'l quale fu edificato, che si chiamava
Circeo, o pur da i giuochi Circensi, che vi furono,
alcuni dicono, instituiti, alcuni altri essercitati
per l'occasioni, che à narrarle sarebbe troppo
lungo, e inutile. Supposto dunque per vero, come
certo può essere, e come si prova da quell'Erudito
scrittore accennato pur hora da me, che Cingoli sia
stato edificato dalla Regina Circe, e che Circea
anticamente si nominasse”
(1). |
Oltre all'Avicenna,
un altro riferimento alla leggendaria fondazione ci viene
fornito
dell'erudito cingolano
Filippo Raffaelli (XIX sec.); nella biblioteca di famiglia era
conservato, infatti, un manoscritto di tal Franceschini
(verosimilmente il Tito Franceschini che nel 1602 pubblicò l'Istoria
della Vita della gloriosa S. Sperandia protettrice di Cingoli)
intitolato “La rinascente Fenice nei colli di Circe ossia Brevi
notizie dell'antica città di Cingoli”
(2). L'Avicenna
si riferiva forse a tal Franceschini quando parlava dello
"Scrittore", l'"Erudito scrittore", dal quale apprese le notizie
sulla fondazione di Cingoli?
I riferimenti
a questa leggenda sono quindi piuttosto scarsi e risultano a
tutt'oggi insufficienti per intraprendere una sua analisi;
rimanendo nel campo della pura illazione e volendo comunque
trovare una spiegazione, un fondo di verità, a questa leggenda,
si potrebbe avanzare l'ipotesi che essa conservi il ricordo non
tanto di un atto fondativo, quanto la presenza di un elemento che
possa far pensare a ciò. Questo elemento, tramandato sotto forma
di leggenda, potrebbe essere
il ricordo di un luogo cultuale dedicato ad una
qualche divinità femminile di epoca picena
intorno al
quale sarebbe poi sorto, nel corso del III sec. a.C.
l'insediamento di Cingulum.
Alcuni
elementi (3)
suggeriscono, infatti, che già in età repubblicana Cingoli sia
stato sede di un insediamento già strutturato, anche dal punto
di vista amministrativo; considerando la sua lontananza dalle
principali vie di comunicazione e dalle direttrici commerciali è
alquanto singolare, infatti, che un tale insediamento fosse presente in
un'età di parecchio
anteriore alla creazione del municipio
romano a meno che non si ammetta l'ipotesi che, sull'alto colle
cingolano, fosse stato presente un elemento catalizzatore,
aggregativo, come appunto un luogo di culto.
La dea Cupra sembra aver avuto una
venerazione particolare presso i Piceni come conferma
innanzitutto la toponomastica picena antica; nella descrizione
di Plinio figurano infatti una Cupra oppidum (Cupra
Marittima) e una popolazione di Cuprenses Montani (Cupra
Montana).
“Alla luce
della parentela tra il sabino e gli altri dialetti italici, il
nome della dea Cupra si può interpretare come femminile
sostantivato dell’aggettivo sabino cupro-, con un significato
equivalente a quello del latino bona: questo rivelerebbe quindi
una corrispondenza onomastica tra la dea Cupra e la Bona Dea
latina, come già avevano rilevato gli studiosi alla fine del
secolo scorso. Molti studiosi hanno illustrato e precisato il
ruolo di culti importati dall’Oriente greco-semitico in età
arcaica, chiarendo il quadro assai complesso dei culti femminili
nella Penisola, rivelando come essi siano riconducibili per la
maggior parte alle varie manifestazioni della Astarte-Afrodite
diffusasi sotto nomi diversi, e con sfumature e funzioni molto
diverse tra loro, in tutte le culture. Per coerenza
interpretativa la figura di Cupra umbro-picena deve venire
accostata a questo tipo”
(4).
Sulla base delle fonti antiche, in particolare Varrone,
la qualificazione della dea come mater e gli studi
linguistici, è possibile stabilire un legame tra la dea Cupra
appenninica e le Veneri del pantheon italico o più in generale
con una divinità femminile legata alla fertilità e con i
caratteri tipici dell’Astarte-Afrodite greco-semitica giunta in
Italia tramite le rotte commerciali intorno al VII secolo a.C.
di cui fanno parte, oltre a Cupra, la Uni (-Thesan)
di Pyrgi, la Northia di Volsinii, le Fortune
del mondo laziale, Mater Matuta, Bona Dea,
Libitina, Venere e Giunone
(5).
Per similitudine nelle
caratteristiche e nella provenienza dall’antico substrato mediterraneo
è possibile, quindi, accostare la figura di Circe alle figure
più propriamente italiche (Feronia, Angizia, Bona Dea, Diana, Marica, Artemide). Tutte queste figure condividevano: la
signoria su terra, piante, animali; garantivano la guarigione al
loro popolo attraverso l’uso delle erbe del loro giardino
segreto all’interno del bosco; la signoria sui serpenti;
l’essere dee, maghe, donne, sacerdotesse sapienti; la capacità
di mutare la forma di sé stesse e degli uomini; il rapporto con
gli eroi; l’essere divinità eponime di terre e genti; l’essere
Signore della vita e della morte.
Secondo l'iconografia e la
mitologia classica, Circe è, infatti, attorniata da leoni e lupi, resi
mansueti dalla sua magia; una vera Potnia theròn, la
“Signora degli animali”. Come tutte le antiche dee Madri, aveva
un aspetto ctonio e infero, nonché magico responsivo, è la dea
che procura gli oracoli e che fornisce bevande allucinogene, che
fa uscire fuori la vera natura degli uomini. Circe è una
divinità in grado di esercitare un forte dominio sulla natura,
sugli animali e sugli uomini, dotata anche di una capacità
lussuriosa e produttiva, è la natura provvida che fa partorire
donne e animali, e fa crescere le piante.
|
Dosso
Dossi, Circe e i suoi amanti in un paesaggio, olio
su tela, National Gallery of Art, Washington, circa
1525 (da commons.wikimedia.org/wiki/Category:Circe_and_her_Lovers_in_a_Landscape?uselang=it) |
E' logico, e
prudente, sostenere che l'ipotesi qui espressa, cioè l'esistenza
di un luogo di culto di una divinità italica (dea cupra?) che
abbia da un lato permesso lo sviluppo di un insediamento fin
dall'età repubblicana in un luogo ameno e dall'altro che abbia
consentito la nascita di una tradizione leggendaria, sia una mera supposizione non supportata
da prove e che tale rimarrà fino a quando non si avranno a
disposizione dati oggettivi, innanzitutto
archeologici.
Riguardo alla
nascita di
questa leggenda, Paolo Appignanesi invitava a riflettere
“sulle seguenti considerazioni:
difficilmente lo storico di un paese costretto già da secoli da un
passo di Cesare
(Bell.
Civ., I, 15: Etiam Cingulo, quod oppidum Labienus constituerat
suaque pecunia exaedificaverat,ad eum legati veniunt, quaeque
imperaverit, se cupidissime facturos pollicentur)
a interrogarsi sulle proprie origini si sarebbe
lasciato sfuggire l'opportunità di valersi di una tradizione che quelle
stesse spingeva oltre il momento di Labieno; altrettanto difficilmente
avrebbe potuto inventarne una di sana pianta e renderla accettabile se
non fosse già esistita, in embrione, una favolosa narrazione popolare e
conseguentemente il terreno adatto per recepirne la versione nobilitata.
Non può essere trascurata a questo punto anche la possibilità
che sia sopravvissuta fino al Medioevo e recepita successivamente da
storici locali e infine dall'Avicenna una tradizione orale che legava
effettivamente l'antica Cingulum al nome di Circe. Ma l'esame di
tale possibilità presupponendo l'acquisizione di indizi toponomastici,
archeologici, letterari, araldici, sigillografici ecc., richiederà
tempi assai lunghi per essere affrontato”
(6).
|
Circe
e Ulisse con uomini trasformati in animali,
illustrazione xilografica, stampata da Johannes
Zainer, circa 1474 (da
commons.wikimedia.org/wiki/Image:Woodcut_illustration_of_Circe_and_Odysseus_with_men_transformed_into_animals_-_Penn_Provenance_Project.jpg?uselang=it) |
Le metamorfosi
di Circe: dea, maga e femme fatale
(7)
“Quando Odisseo arriva sulla sua
isola, non sa nulla di lei. Lui e suoi uomini sono dei
sopravvissuti: ancora sconvolti dalla perdita dei compagni
assassinati brutalmente dai Ciclopi e dai Lestrigoni, sono
affamati ed hanno bisogno di fare provviste. Tutto ciò che
Odisseo vede, sbarcando, è un filo di fumo, proveniente da un
luogo in mezzo al bosco, al centro dell’isola. Dopo tante
sventure, Odisseo è comprensibilmente sospettoso, ma non ha
altra scelta che esplorare la situazione, così manda in
avanscoperta un contingente guidato da Euriloco. A sorpresa,
scoprono un luogo bello e strano: la casa di Circe è fatta di
pietre ben levigate, e tutt’intorno giacciono lupi e leoni.
Sentono una bella voce cantare (una donna o una dea?) e decidono
di entrare, tutti eccetto Euriloco.
Circe offre agli ospiti una zuppa
di formaggio, miele fresco, vino e cereali, alla quale ha
aggiunto una misteriosa droga. I Greci bevono la pozione, lei li
tocca con la sua bacchetta (rhabdos) e quelli si
trasformano in maiali7. Intanto Odisseo è preoccupato (dei
compagni è tornato il solo Euriloco, terrorizzato), e decide di
andare a dare un’occhiata lui stesso. Nel bosco incontra Hermes,
che lo mette in guardia, consegnandogli un’erba magica, il
moly. Quando Circe vorrà trasformarti, lo istruisce Hermes,
«tu sguaina la tua spada affilata e balza su di lei come se
volessi ucciderla. Atterrita, lei ti offrirà il suo letto. Tu
non rifiutare l’amore della dea […], ma chiedile di giurare il
gran giuramento dei numi, che nessun altro malvagio inganno
ordirà contro di te e che, quando sarai disarmato e nudo, non ti
farà vile ed impotente» (Od. 10, 294-301). Odisseo segue
le istruzioni di Hermes e le cose vanno esattamente come il dio
aveva previsto. Non appena l’eroe ha minacciato Circe, la dea si
getta a terra e abbracciando le ginocchia di lui nel gesto
rituale della supplica gli dice: «Vieni ora, rimetti la spada
nel fodero e saliamo insieme sul mio letto, affinché, dopo
esserci uniti in amore, possiamo infine fidarci l’uno
dell’altra» (Od. 10, 333-35).
Questo è un punto centrale nella
versione omerica del mito, perché d’ora in poi Circe si
trasformerà in un’amabile padrona di casa, offrendo ai naufraghi
ospitalità per un lungo anno, ed usando infine i suoi poteri per
aiutare Odisseo nel suo viaggio di ritorno ad Itaca. Dopo aver
fatto l’amore con l’eroe, Circe ritrasforma i compagni in esseri
umani, facendoli anche più belli e più giovani di prima. È
l’inizio di un periodo di riposo e serenità, tanto che Odisseo
si dimentica di Itaca e alla fine sono gli hetairoi a
ricordargli che vogliono tornare a casa. L’eroe allora supplica
Circe di farli ripartire e lei accetta senza esitazione, dicendo
che non desidera farlo restare nella sua casa contro la sua
volontà: non solo gli restituisce la libertà ma gli concede
anche il suo aiuto, senza rimpianti e senza riserve9. Il
rapporto tra i due protagonisti è quello di una dea con il suo
protetto. (...)
Circe nell’Odissea è una
figura molto complessa, e forse per questo particolarmente
affascinante. È una dea terribile (deine theòs) (Od.
10, 136), esperta in pozioni magiche (polypharmakos) (Od.
10, 276) ed in astuzie malvagie (olophoia denea Kirke) (Od.
10, 289). Come ogni divinità arcaica, Circe ha una faccia
positiva ed una negativa, è terribile e benigna, è una potnia
theron, una signora degli animali, una divinità liminale, che sa
come parlare coi morti, che può apparire e sparire ed agire
senza essere vista. (...)
Dopo Omero incontriamo Circe molte
altre volte nella letteratura antica, ma con una
caratterizzazione ben diversa. In Virgilio Circe è una figura
sinistra, una pericolosa forza della natura. La incontriamo
all’inizio del settimo libro dell’Eneide, quando Enea ed
i suoi Troiani stanno per approdare sulla costa italica.
Navigando sottocosta di fronte al luogo dove Circe vive, i
Troiani sentono la dea cantare e gli animali (i lupi ed i leoni)
ululare e gemere scuotendo le catene (Aen. 7, 15-18). La
descrizione di Virgilio riprende molti dei dettagli omerici: il
canto di Circe, il telaio a cui la dea siede tessendo, il fuoco
di legno di cedro. (...)
Non c’è alcun indizio del fatto
che Enea, come Odisseo, potrebbe apprendere cose importanti da
lei. La Circe virgiliana non è ambigua, è solo malvagia e va
evitata (...) In Ovidio Circe personifica una passione così
estrema che distrugge chiunque impedisca la sua soddisfazione.
Nelle Metamorfosi lei è protagonista di tre episodi,
relativi al suo amore per Glaucos, Odysseus e Picus (Met.
13, 900-14, 74; 14, 242-434)24. Il trattamento ovidiano
dell’episodio di Odisseo segue molto da vicino quello omerico,
ma l’atmosfera è molto più cupa. La storia non è raccontata da
Odisseo stesso, come in Omero, ma da uno dei compagni, che è
stato trasformato in maiale e poi salvato dall’eroe. Odisseo qui
arriva esplicitamente come vendicatore (ultor) (Met.
14, 290), Circe è chiaramente terrorizzata da lui e l’atto
d’amore che sussegue non è un invito, ma il risultato della sua
sottomissione. Le altre due favole condividono lo stesso
soggetto: Circe è innamorata di qualcuno che non ricambia i suoi
sentimenti e si vendica in maniera violenta e crudele. (...)
Non c’è nessun mistero nella Circe
di Ovidio: nonostante la sua natura divina, lei si comporta come
una donna delusa ed abbandonata, ferita, furiosa, gelosa e
vendicativa. In primo piano sono la sua sessualità elementare,
la sua violenza e la sua crudeltà. In Ovidio, per la prima
volta, l’aspetto della magia riceve una grande attenzione, molto
maggiore che non in Omero o in Virgilio, dove è solo un
accessorio secondario, espressione più che di magia come sapere
specialistico (non differenziabile dalla sfera religiosa
all’epoca della fissazione dei poemi omerici), della sua potenza
divina.
Ma ai Greci ed ai Romani
dell’epoca di Ovidio, Circe doveva apparire certamente più come
una strega che non come una dea, nonostante la presenza di un
culto, al Circeo, probabilmente precedente alla tradizione
virgiliana e da esso indipendente. Il suo essere una
“straniera”, la sua liminalità, il suo isolamento, bastavano a
renderla diversa dalle divinità olimpiche e a fare di lei, col
tempo, una maga operante ai limiti, se non del tutto al di
fuori, della religiosità tradizionale, emblema di un sapere
pericoloso ed ambiguo. Il ritratto ovidiano in particolare, che
la presenta come un’incantatrice crudele e senza scrupoli, ha
attirato l’attenzione degli allegoristi cristiani, che l’hanno
interpretata come una figura demoniaca, personificazione del
legame tra il femminino, l’irrazionale, la morte, la seduzione e
le forze oscure ed istintive della natura. Privata di ogni
qualità positiva, Circe si adattava bene alle teorie cristiane
sulla natura demoniaca della donna e della sessualità femminile
promulgate dal Medioevo (...).
L’iconografia antica ha ben
rappresentato il processo di “umanizzazione” di Circe e la sua
trasformazione da dea in maga. Nell’arte greca Circe compare
all’interno delle rappresentazioni del mito di Ulisse, frequenti
soprattutto in epoca arcaica. (...)
Dal punto di vista iconografico,
il mito di Circe appare diffuso particolarmente tra la metà del
VI e l’inizio del V sec. a.C., soprattutto sui vasi a figure
nere. In due kylikes attiche da Boston databili alla
seconda metà del VI sec. a.C. la dea appare nuda, con un cane ai
suoi piedi, mentre offre la pozione ai Greci, già parzialmente
trasformati in animali diversi (per esempio un cane, un cavallo,
un cigno, un gallo e un leone). Circe, in posa ieratica, appare
in genere nelle rappresentazioni arcaiche del mito come figura
centrale: la sua ricorrente nudità sembra voler sottolineare la
sua divinità.
L’iconografia della “dea nuda”,
tipica dell’orientalizzante ed attestata tra VIII e VII secolo
a.C. nei santuari di Artemis Orthia a Sparta e di Athena a
Gortina (Creta), potrebbe aver influenzato la creazione di
questa iconografia e forse anche del personaggio divino di Circe
nell’Odissea che, come queste divinità arcaiche, è anch’essa una
dea “senza marito” e vive sola con le sue ancelle in una casa
tutta femminile. In queste rappresentazioni arcaiche Circe non è
presentata come si raffigurerebbe normalmente una donna, ma
nella posa di un kouros arcaico, di cui condivide la
nudità eroica. Circe non si accorda infatti con la norma del
comportamento femminile, ma piuttosto inclina verso il maschile,
dal momento che conduce una vita di cui è la sola responsabile
(...)
Odisseo appare normalmente in un
ruolo secondario, e talora può essere completamente assente
(...) Sui vasi a figure rosse troviamo un’immagine completamente
diversa di Circe. Qui l’attenzione è spostata su Odisseo che la
disarma, mentre Circe perde la centralità originaria ed assume
il ruolo della sconfitta. Questa nuova iconografia, attestata
già intorno al 460 su una lekythos da Erlangen (...)
Mentre dunque nelle
rappresentazioni più antiche Circe era una figura centrale, le
immagini classiche del V sec. si concentrano sul momento in cui
Odisseo la sconfigge, sfoderando la spada: Odisseo è aggressivo
e minaccioso, Circe sorpresa, spaventata ed umiliata. Come
Lampis giustamente suggerisce, in questa iconografia si riflette
una nuova mentalità. Circe, diventata umana, deve prendere una
posizione subordinata all’uomo, come si conviene ad una donna
attica del V sec. (...)
L’iconografia romana del mito è
piuttosto stereotipata: in particolare negli affreschi, di cui
conosciamo alcuni esempi da Pompei e dall’Esquilino, il tema
dominante è quello della “sottomissione” di Circe, con la dea
prostrata e supplicante ai piedi di un minaccioso Ulisse, mentre
la magia gioca un ruolo assolutamente secondario, accennata solo
dalla fugace presenza degli animali in secondo piano, spesso
nascosti dietro una finestra. (...)
Durante il Medioevo, Omero non era
stato accessibile agli intellettuali dell’Europa occidentale,
pur continuando ad essere letto e commentato nell’Oriente
bizantino. I suoi poemi erano persi e ne sopravvivevano solo
frammenti, citazioni all’interno di opere retoriche e
filosofiche, nelle opere dimitografia e nei compendi. Ovidio
invece continuava ad essere letto, e così anche Virgilio e i
commentatori tardoantichi. Non meraviglia dunque che l’unica
Circe nota fino alla fine del XV secolo fosse molto influenzata
dalle Metamorfosi ovidiane da una parte, e dall’interpretazione
allegorica di origine tardoantica e molto popolare nel Medioevo
dall’altra. È stata la Circe maga famosissima e clarissima
meretrix descritta da Agostino e da Servio non certo la Circe
dea, ad influenzare la tradizione. (...)
Un testo che ebbe un ruolo
importante nella trasmissione della tradizione omerica dopo la
fine del mondo antico fu la Ephemeris de Historia Belli
Troiani, traduzione latina di un’opera attribuita al
personaggio favoloso di Ditti Cretese, che si riteneva fosse
stato testimone oculare della guerra di Troia. Alla Ephemeris
di Ditti cretese si ispirò il poeta normanno Benoît de
Sainte-Maure con il suo Roman de Troie (fine XII secolo),
in cui si raccontavano tutte le storie del ciclo troiano,
compresa quella di Ulisse. Qui Circe e Calipso (!) sono due dame
bellissime senza marito che vivono sole sulle isole Eolie e
insidiano tutti coloro che capitano loro a tiro. Circe è dunque
scivolata lentamente sulla figura di Calipso, così consegnando
alla letteratura futura due modelli perfetti per le varie maghe
rinascimentali buone o cattive, come Alcina, Armida, Morgana ed
Acrasia.
Nel 1488 vide la luce a Firenze l’editio
priceps in greco dell’opera di Omero, presto tradotta in latino
e in varie altre lingue, rendendo Omero di nuovo accessibile.
Così l’ambigua divinità dell’Odissea poteva riprendere il suo
posto accanto alla Circe di Virgilio e di Ovidio. Nel frattempo,
anche i manoscritti dei Moralia di Plutarco erano ricomparsi sui
mercati occidentali, e con essi una singolare versione del mito
di Circe, in cui le vittime trasformate erano del tutto
soddisfatte della nuova condizione animalesca (...)
Nella letteratura rinascimentale
si affiancano ora altre immagini accanto a quella stereotipata
della Circe maga malevola e sensuale40. Giovanni Battista Gelli,
membro dell’Accademia fiorentina e amico di Cosimo de’ Medici,
era una di una di queste voci alternative. La sua Circe,
pubblicata nel 1549, e chiaramente ispirata da un’operetta di
Plutarco (il cosiddetto Gryllos o bruta animalia
ratione uti) è una collezione di dialoghi tra Circe (la cui
simpatia ed intelligenza sono evidenti fin dall’inizio), Ulisse
e gli animali trasformati.
Ulisse vuole partire dall’isola,
portandosi dietro tutti gli animali che una volta erano stati
Greci. Circe si dichiara d’accordo, ma prima deve chiedere agli
animali se ne hanno voglia. E difatti, tutti, tranne uno,
rispondono che non hanno nessuna voglia di tornare umani e sono
perfettamente felici come sono. Particolarmente interessante è
l’argomento della cerva, che essendo stata non un uomo ma una
donna, trova la condizione dell’animale molto più piacevole di
quella della donna, e dice chiaramente che avendo provato la
libertà non ha nessuna intenzione di tornare serva. Il
coraggioso femminismo di questa operetta è in realtà un fatto
piuttosto isolato anche nel Rinascimento, ma ci sono altri poeti
e filosofi che propongono un’immagine positiva di Circe”.
|
Johann Wilhelm Baur, Circe transforms Picus into
a woodpecker, British Museum, 1641 (da
britishmuseum.org/collection/image/1246077001) |
La leggenda di Circe e Picchio
“In terra d'Ausonia regnava Pico, un figlio di
Saturno appassionato di cavalli addestrati al
combattimento. Il suo aspetto era quello che vedi:
tu stesso puoi ammirarne la bellezza e giudicare da
questo ritratto com'era in vita. (...)
Col suo volto aveva affascinato le Driadi nate sui
monti del Lazio, per lui sospiravano le divinità
delle fonti e le Naiadi tutte, quelle dell'Albula,
del Numicio, dell'Aniene, dell'Almone dal brevissimo
corso o dell'impetuoso Nare, del Fàrfaro dall'onda
scura, quelle che vivono nel regno boscoso di Diana
Scìtica o nel lago vicino. Ma lui tutte le
disprezza; una ninfa sola corteggia, una ninfa che
si diceva partorita da Venilia sul Palatino a Giano,
il dio bifronte.
Di rara bellezza, ma per l'arte ancor più rara con
cui cantava, fu chiamata Canente. Col suo canto
riusciva a commuovere selve e sassi, ad ammansire le
belve, riusciva a frenare le correnti dei fiumi, a
trattenere nel volo gli uccelli.
Un giorno, mentre lei con la sua dolce voce di donna
cantava, Pico uscì di casa per andare nelle campagne
di Laurento a caccia di cinghiali; (...)
In quello stesso bosco si era recata anche la figlia
del Sole, lasciando i campi che Circei son detti dal
suo nome, per raccogliere su quei fiorenti colli
erbe rare.
E quando, nascosta in una macchia, vide il giovane
Pico, ne fu colpita: di mano le caddero le erbe che
aveva colto e si sentì percorrere da un fuoco in
tutte le sue vene. (...) evocò il fantasma
inconsistente di un cinghiale e lo fece correre
davanti agli occhi del re, fingendo che andasse a
rintanarsi in un bosco fitto d'alberi, dove la
vegetazione è più folta e un cavallo non può
addentrarsi.
Subito Pico ignaro si lancia all'inseguimento d'una
preda fantasma, smonta d'un balzo dalla groppa
sudata del cavallo e inseguendo una chimera,
s'inoltra a piedi nel cuore del bosco.
Circe recita preghiere, pronuncia parole infernali e
adora dèi misteriosi con una nenia misteriosa, che
usa per annebbiare il volto niveo della luna e
stendere una coltre di nuvole davanti a quello di
suo padre.
E anche questa volta a quella nenia il cielo si
oscura, esala nebbie la terra e i compagni di Pico
si perdono in un intrico di sentieri, finché nessuno
scorta più il re.
Trovato luogo e momento adatto: 'Per questi tuoi
occhi,' gli dice, 'che hanno ammaliato i miei, per
la tua bellezza, delizia mia, che mi spinge a
supplicarti anche se son dea, prenditi a cuore la
mia passione e accetta come suocero il Sole, che
tutto penetra con lo sguardo: non disprezzare,
ingrato, Circe, figlia del Titano!'.
Ma lui, sprezzante, la respinge, respinge le sue
preghiere: 'Chiunque tu sia, non sono tuo. Un'altra,
sì, un'altra mi lega a sé e prego il cielo che mi
leghi per quanto è lunga la vita! Finché il destino
mi conserverà la figlia di Giano, Canente, mai
violerò per un altro amore il patto che a lei mi
lega'.
Dopo avere invano tentato e ritentato di
commuoverlo: 'Me la pagherai' esclamò; 'non rivedrai
mai più Canente; imparerai coi fatti di cosa sia
capace una donna offesa nel suo amore, e Circe è
donna, e innamorata e offesa'.
Due volte allora si girò verso ponente, due verso
levante; tre volte lo toccò con la verga e tre volte
recitò una formula. Il giovane fugge, ma con stupore
si accorge di correre più veloce del solito; si
scopre addosso delle penne e, sdegnato di dover
vivere d'un tratto nei boschi del Lazio mutato in
uccello, trafigge le querce selvatiche col duro
becco e furioso infligge ferite lungo i rami. Le
penne assumono il color purpureo del mantello; la
borchia d'oro, che prima fermava la sua veste,
diventa una piuma e di riflessi d'oro si cinge il
collo; di ciò che appartenne a Pico l'unica cosa che
rimane è il nome. (...)
Sulle spiagge di Tartesso si spegneva il tramonto
del sole e invano gli occhi e il cuore di Canente
avevano atteso il ritorno del marito. Servitori e
popolo al lume delle torce perlustrano in ogni luogo
tutte le selve.
E la ninfa non si accontenta di piangere, di
strapparsi i capelli, di percuotersi il petto; fa,
sì, tutto questo, ma poi corre fuori e vaga
impazzita per le campagne del Lazio. Per sei notti e
per sei giorni, quando tornava a splendere il sole,
fu vista vagare senza dormire e senza cibarsi per
monti e valli, dove la guidava il caso.
L'ultimo a vederla fu il Tevere: stanca per il
dolore e il cammino, ormai accasciata lungo la sua
riva. Lì afflitta sussurrava fra le lacrime fievoli
parole che pur nel dolore si scioglievano in
melodia, come il funebre canto che il cigno intona
in punto di morte. Poi, struggendosi per lo strazio,
sin nell'intimo del cuore, si dissolse e a poco a
poco svanì nella leggerezza dell'aria”
(8).
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Circes
concubitum detestatur Picus, stampa di A. Tempesta,
1606 (da britishmuseum.org/collection/image/1613366890) |
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The
transformation of Picus into a woodpecker, stampa di
W. Walker, 1774-1778 (da britishmuseum.org/collection/image/1613368764) |
La
Circe virgiliana
“Celebrate le
esequie secondo il rito e elevato il tumulo, il pio
Enea, vedendo il mare tranquillo, lascia il porto e
naviga a vele spiegate. Spira una brezza leggera
nella notte e la Luna illumina serena il viaggio, il
mare splende sotto la tremula luce.
Le navi passano
accanto alla terra di Circe, dove la ricca figlia
del Sole fa risuonare d'un canto assiduo i boschi
inaccessibili e, a notte, nella sua grande casa si
fa luce bruciando il cedro profumato e tesse fini
tele con la spola sonora.
Di là s'odono i gemiti
e i gridi dei leoni che scuotono le catene, ruggendo
nella notte; si sentono infuriare nelle stalle i
cinghiali di lunghe setole e gli orsi, si sentono
ululare enormi lupi; tutti uomini che Circe, Dea
crudele, con erbe magiche ha trasformato, dando loro
l'aspetto di bestie feroci.
Temendo che i pii
Troiani toccassero quella terra e entrassero in
porto a esporsi agli incanti di Circe, Nettuno
riempì le vele di venti favorevoli, li fece fuggire
veloci e li trasse oltre i flutti che ribollivano
intorno alla costa rocciosa”.
(9) |
(1)
O.
Avicenna, Memorie della città di
Cingoli, Jesi, 1644, pp. 43-44, 47.
(2) P.
Appignanesi, Sulla fondazione leggendaria di Cingoli, in
P. Appignanesi - D. Bacelli, La liberazione di Cingoli e altre pagine di storia cingolana,
Cingoli 1986, nota 13, pp. 423-424
(3) Dai versi
di un poema di Silio Italico (I sec. d.C.) si traggono due
notizie molto interessanti: la partecipazione di un esponente
della famiglia Labiena, proveniente da Cingoli, alla battaglia
di Canne e l’esistenza a Cingoli, al tempo della seconda guerra
punica, di un centro arroccato e difeso da “alte mura” (Silio
Italico, Punica, X, 31-35: Labienus et Ocres
sternuntur leto atque Opiter quos Setia colle vitifero, celsis
Labienum Cingula saxa miserunt muris (...) nam Labienus obit
penetrante per ilia corno, "Labieno e Ocres giacevano morti,
e così Opiter, gli ultimi due nati nelle ricche colline
di Setia, Labieno mandato dalle alte mura di Cingoli
(...) Labieno muore trafitto ad un fianco"). Se dubbi si
possono avanzare sulla notizia della presenza a Cingoli, al
tempo della seconda guerra punica, di “alte mura”, il dato circa
l'esistenza di un nucleo abitativo risalente a quel periodo, e
che diede i natali ad un esponente della gens Labiena, sembra
certamente più credibile.
L’esistenza di un centro
repubblicano a Cingoli sembra provata da un’iscrizione (CIL IX
5679, EDR 015002) del III sec. a.C. nella quale sono menzionati
i due magistri Terebius e Vibolenus:
MAGISTER
[E]I • TEREBIVS
ET • VIBOLEN
VS
L’assenza di ulteriori dati nell’iscrizione non permette di
spiegare la natura dei due magistri; ma sia che si tratti di
sacerdoti, preposti ad un qualche culto locale, sia che si
tratti di magistrati civili, di un vicus o di un pagus, il testo
accerterebbe una frequentazione dell’altura di Cingoli in età
piuttosto antica,
G. Paci, Per la storia di Cingoli e del Piceno
settentrionale in età romana repubblicana, in AA.VV.,
Cingoli dalle origini al sec. XVI. Contributi e ricerche,
Atti del XIX Convegno di Studi Maceratesi, Cingoli 15-16 ottobre
1983, "Studi Maceratesi", 19, Centro di Studi Storici
Maceratesi, Macerata 1986, p. 91; G. Paci, Cingulum, in
Supplementa Italica, n. 6 (1990), Roma 1990, pp. 48-49.
Secondo la studiosa L. R. Taylor,
analizzando un passo dell’orazione Pro C. Rabirio di
Cicerone “è naturale identificare Cingoli con la prefectura
del Picenum che Cicerone associa con i Labieni e il contesto
dell’affermazione di Cesare su Cingoli fornisce la conferma per
questa identificazione: Auximo Caesar progressus omnem agrum
Picenum percurrit. Cunctae earum regionum praefecturae
libentissimis animis eum recipiunt exercitumque eius omnibus
rebus iuvant. Etiam Cingulo, quod oppidum Labienus constituerat
suaque pecunia exaedificaverat, ad eum legati veniunt quaeque
imperaverit se cupidissime facturos pollicentur. Alla luce
del passo citato da Cicerone etiam qui sembra implicare
l’inclusione di Cingoli tra le praefecturae che hanno
accolto Cesare” (
L. R. Taylor, Labienus and the Status of the Picene Town
Cingulum, in "The Classical Review" n. 35, 1921, pp.
158-159). L'ipotesi avanzata dalla studiosa dimostrerebbe quindi
l'esistenza di una
prefettura a Cingoli nel II sec. a.C..
(4) T. Capriotti, Luoghi di
culto nelle città portuali delle regiones V e VI dell'Italia
augustea, Tesi di dottorato "Scienze dell'antichità,
filologico-letterarie e storico-artistiche", Università degli
studi di Trieste, 20 aprile 2009, pp. 361, 362.
(5) T. Capriotti, Il santuario
della dea Cupra a Cupra Maritima: una proposta di ubicazione,
in L. Braccesi - F. Raviola - G. Sassatelli, "Hesperia. Studi
sulla grecità di occidente", 26, L’Erma di Bretschneider, Roma
2010, p. 146.
(6)
P.
Appignanesi, Sulla fondazione leggendaria di Cingoli, in
P. Appignanesi - D. Bacelli, La liberazione di Cingoli e altre pagine di storia cingolana,
Cingoli 1986, pp. 423-424
(7)
I. Berti,
Le metamorfosi di Circe: dea, maga e femme fatale.
"Status Quaestionis", 1(8), 2015. https://doi.org/10.13133/2239-1983/13143
(8)
Ovidio,
Le Metamorfosi, XIV, 320-430.
(9) Virgilio, Eneide, VII,
5-25
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