Titus
Labienus
(1)
è senza dubbio l'esponente più noto della gens
Labiena
(2), una famiglia di origine picena e di rango
equestre; tale provenienza e ceto sono testimoniati dall’orazione
di Cicerone del 63 a.C. a favore di C. Rabirio, accusato da
Labieno di avere ucciso Lucio Saturnino e suo zio Quinto Labieno:
Tu
denique, Labiene, quid faceres tali in re ac tempore? Cum ignaviae ratio te
in fugam atque in latebras impelleret, improbitas et furor L.
Saturnini in Capitolium arcesseret, consules ad patriae salutem ac
libertatem vocarent, quam tandem auctoritatem, quam vocem, cuius
sectam sequi, cuius imperio parere potissimum velles? 'Patruus,'
inquit, 'meus cum Saturnino fuit.' Quid? Pater quicum? Quid?
Propinqui vestri, equites Romani? Quid? Omnis praefectura, regio,
vicinitas vestra? Quid? Ager Picenus universus utrum tribunicium
furorem, an consularem auctoritatem secutus est?
(3).
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Ritratto ideale di Tito Labieno,
autore ignoto, 1636, Pinacoteca comunale di
Cingoli (foto del 3/7/2011) |
I Labieni
costituivano un affermato ed intraprendente nucleo gentilizio già
sul finire del II sec. a.C. In questo periodo erano infatti attivi
a Roma due fratelli, Tito e Quinto, rispettivamente, padre e zio
di Tito Labieno
(4).
Non
esistono a tutt'oggi testimonianze archeologiche o epigrafiche che
indichino la città di Cingoli come luogo di nascita di Tito
Labieno.
Alcune fonti letterarie dimostrano, tuttavia, lo stretto
legame fra la gens Labiena, Tito Labieno e Cingoli
(5).
Dai versi
di un poema di Silio Italico si traggono due notizie molto
interessanti: la partecipazione di un esponente della famiglia
Labiena, proveniente da Cingoli, alla battaglia di Canne e l’esistenza a Cingoli, al
tempo della seconda guerra punica, di un centro arroccato e difeso
da "alte mura": Labienus et
Ocres sternuntur leto atque Opiter quos Setia colle vitifero,
celsis Labienum Cingula saxa miserunt muris (...) nam
Labienus obit penetrante per ilia corno
(6).
In mancanza
di dati archeologici e di altre testimonianze scritte non è
possibile accertare il fondamento storico di queste notizie.
Sarebbe tuttavia azzardato considerare come un caso la
corrispondenza tra fonte poetica e fonte epigrafica riguardo l’esistenza
di un centro repubblicano a Cingoli; ciò sembra infatti provato
dall'iscrizione C.I.L. IX 5679
(7) del III sec. a.C. nella quale
sono menzionati i due magistri Terebius e Vibolenus
(8). Se dubbi si possono avanzare sulla notizia della presenza a Cingoli, al
tempo della seconda guerra punica,
di "alte mura", il dato circa l'esistenza di un nucleo
abitativo, risalente a quel periodo, che diede i natali ad un esponente della gens
Labiena sembra certamente più credibile.
Dalla
lettura di alcune fonti medievali è possibile estrapolare un
ulteriore dato che dimostra lo stretto legame fra il territorio
cingolano e la gens Labiena. Il toponimo "Avenale",
una frazione di Cingoli, è infatti attestato in alcuni documenti
nella forma "Lavenano":
la bolla di
Lucio III del 1184, diretta all'abate del Monastero di S. Maria di
Valfucina, e la bolla di Gregorio IX del 1236 menzionano la chiesa
di "S. Marie de Lavenano"; l'atto notarile del 1213 in
cui Attone, prete di "S. Marie Lavenani", riconferma a
Ludovico di Michele l'enfiteusi di una terra "in fundo
Lavenano". Il toponimo, piuttosto chiaro, dimostra
l'esistenza di proprietà fondiarie della gens Labiena in
quella zona di Cingoli (9).
La
principale fonte a sostegno dell'origine cingolana di Labieno è
rappresentata dal Bellum Civile di Giulio Cesare. In un
passo dell'opera si legge infatti che: Etiam Cingulo, quod
oppidum Labienus constituerat suaque pecunia exaedificaverat
(10);
Labieno tuttavia non costruì Cingoli, egli fece si che tale
abitato acquistasse la fisionomia di città, condizione necessaria
per la concessione dello statuto municipale.
Già nel
1788 il Colucci, basandosi anche sugli scritti dello storico
cingolano Filippo Maria Raffaelli, aveva attribuito il giusto
significato ai verbi constituerat e exaedificaverat
(11); Labieno fu un restauratore, un mecenate del I sec. a.C., che
decise di investire le proprie ricchezze a Cingoli, evidentemente
la sua terra di origine.
Dall'orazione
di Cicerone in favore di C. Rabirio si desume un terminus
post quem della data di nascita di Tito Labieno. Sappiamo
infatti che nel 100 a.C., al tempo in cui Saturnino e Quinto
Labieno furono uccisi, Labieno non era ancora nato:
Scilicet tibi graviorem dolorem patrui tui mors attulit quam C.
Graccho fratris, et
tibi acerbior eius patrui mors est quem numquam vidisti quam illi
eius fratris quicum concordissime vixerat
(12).
Nel 63 a.C.
ricoprì l'incarico di Tribuno della
plebe (13). Dall'anno del suo tribunato a quando partì per la
Gallia con Cesare (58 a.C.) non si hanno più notizie di lui,
tuttavia il fatto di essere nominato da Cesare legatus pro
praetore (14) fa pensare che egli abbia ricoperto la carica di
Pretore. Dal momento che la legge prevedeva che un magistrato non
poteva assumere un incarico l'anno dopo averne ricoperto un altro,
è probabile che Labieno assunse la carica di Pretore nell'arco di
tempo compreso tra il 61 e il 59 a.C. L'età minima richiesta per
ricoprire questa magistratura era quarant'anni per cui,
considerando le notizie forniteci da Cicerone nell'orazione in
favore di Rabirio, è possibile collocare, in via approssimativa,
la data di nascita di Tito Labieno nel 99 a.C.
Ancora
Cicerone
(15) ci testimonia che Labieno combatté insieme a
Cesare, nel 78 a.C., nella campagna navale di Publio Servilio (proconsole in Cilicia dal 78 al 75 a.C.) contro i pirati
cilici; non è, tuttavia, da vedere in ciò l'inizio del legame di
Labieno con Cesare
(16)
anche se, probabilmente, la carriera militare iniziò per
entrambi proprio in Oriente.
Di Labieno,
poi, non si hanno altre informazioni fino a quando, come abbiamo visto, ricoprì la carica di
Tribuno della plebe.
L'orientamento
politico che Labieno seguì nel 63 e la sua partecipazione attiva
ai progetti di Cesare è provato da almeno tre eventi.
Il fatto
che Labieno fu scelto per condurre l'azione contro Rabirio
dimostra chiaramente come egli fosse il collaboratore più fidato
di Cesare.
Labieno
inoltre riuscì a fare approvare un provvedimento con il quale fu
abrogata la lex Cornelia de sacerdotiis, una legge voluta
da Silla che prevedeva l'elezione del pontifex maximus da
parte dei pontefici, e il ritorno ai meccanismi elettivi della
precedente lex Domitia secondo la quale l'elezione era
affidata al popolo. Cesare che ambiva a questa importante carica
"si servì del tribuno T. Labieno, che gli doveva essere
ligio anche per il favore prestatogli nella causa contro Rabirio"
(17).
Ed infine,
gli onori decretati a Pompeo per le sue azioni belliche in Asia
Minore e il suo prossimo ritorno a Roma; i tribuni Ampio e Labieno
proposero, infatti, una legge (lex Ampia Labiena de
triumphalibus ornamentis Gnaei Pompei) che consentiva a Pompeo
di portare nei ludi circensi una corona d'oro e ogni genere di
abbigliamento trionfale e durante le rappresentazioni teatrali la
toga pretesta e la corona d'oro. Questa proposta, ispirata ai due
tribuni da Cesare, fu dettata dal desiderio di quest'ultimo di
accattivarsi la simpatia di Pompeo
(18)
oppure fu un’azione mirata per favorire i piani dello stesso
Cesare?
(19)
.
Nel periodo
compreso fra il tribunato (63 a.C.) e la partenza per la Gallia
(58 a.C.), come si è detto poco sopra, le fonti storiche non
danno alcuna informazione di Labieno; presumibilmente, oltre a
ricoprire la carica di Pretore, fu impegnato
anche in azioni di guerra, o in Oriente con Pompeo (guerra contro
Mitridate VI) o in Spagna con Cesare (guerra contro i Lusitani).
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Medaglia
di Labieno - O. Avicenna, Memorie della città di
Cingoli, 1644, tav. I (Incerta attribuzione)
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La
guerra in Gallia
Grazie
all'accordo con Pompeo e Crasso del 60 a.C. (primo triumvirato)
Cesare ottenne il consolato nel 59 a.C. Inoltre, su proposta del tribuno Publio Vatinio (1 marzo 59 -
Lex Vatinia), si fece attribuire il proconsolato per cinque anni della Gallia Cisalpina e dell'Illiria con il mandato di difendere i confini di Roma.
Negli anni precedenti
il 59, infatti, alcuni eventi accaduti ai confini dei territori romani avevano destato parecchie preoccupazioni. Sul confine orientale vi era stata la possibile minaccia dei pirati illiri e di popolazioni traco-illiriche che erano avanzate in direzione della Gallia
Cisalpina. Nel 61 a.C. gli Allobrogi avevano devastato alcuni territori della Gallia Narbonense, provincia
romana fin dal 125 a.C., mentre nel 60 a.C. il gruppo germanico dei Suebi, capeggiato da Ariovisto, aveva occupato un territorio ad ovest del Reno, non molto distante dai confini della Gallia Narbonense.
La scelta della Gallia rientrava pertanto nei piani ambiziosi e lungimiranti di Cesare: essa gli avrebbe offerto l'occasione di conquistare un paese ricco di risorse naturali, aprire nuovi mercati e, con la sottomissione di una così vasta regione, di presentarsi trionfante a Roma come unico benefattore del popolo. Cesare ebbe l'abilità di non intervenire subito nel paese anche perché il suo mandato di proconsole non gli permetteva un'azione di conquista dei territori posti al di fuori dei confini romani.
Dopo aver ottenuto anche il governo della Gallia Narbonense e il comando di un'ulteriore legione, Cesare aspettò il momento giusto per intervenire militarmente in Gallia.
Ai suoi progetti di conquista vennero incontro due ottime occasioni che non si lasciò
sfuggire: gli Elvezi, che abitavano i territori a nord-est del lago Lemano (lago di Ginevra), erano intenzionati a migrare verso occidente, una marcia che li avrebbero portati ad attraversare la Narbonense. La seconda occasione gli venne, successivamente, da alcune tribù galliche che si rivolsero a Cesare per ottenere protezione contro le popolazioni germaniche di
Ariovisto.
Nel 58 a.C.
appena Cesare venne a conoscenza degli spostamenti degli Elvezi,
lasciò Roma ed in otto giorni arrivò a Genava
(Ginevra) dove fece costruire una linea di difesa, con fossati,
steccati e fortini. Cesare lasciò quindi il comando delle
fortificazioni al luogotenente Tito Labieno per recarsi in Italia
a reclutare altre truppe. E' in questa occasione che Labieno viene
citato per la prima volta nel Bellum Gallicum: Ob eas
causas ei munitioni quam fecerat T. Labienum legatum praeficit
(20).
L'incarico
affidatogli dimostra la grande fiducia che Cesare riponeva in lui
e, come ricorda lo storico Cassio Dione
(21), la consuetudine di
lasciare il comando a Tito Labieno divenne quasi una regola quando
Cesare si assentava dalla Gallia.
Secondo
quanto narra il Bellum Gallicum, gli Elvezi furono
sconfitti da Cesare, mentre sia Plutarco
(22) che Appiano
(23)
affermano che non fu Cesare, ma Labieno ad ottenere questa
importante vittoria, che determinò gravissime perdite fra i
Tigurini, una delle quattro tribù che componevano il gruppo degli
Elvezi e che in quest'occasione costituivano la retroguardia
nemica.
Alla
battaglia contro gli Elvezi ne seguirono altre contro popolazioni
celtiche e germaniche (57-55 a.C.) ed in molti di questi scontri
Labieno diede il suo fondamentale contributo; combatté
vittoriosamente al comando di tre
legioni contro i Belgi nella battaglia presso il fiume Axona
(Aisne) (Bellum Gallicum, II, XI), contro gli Atrebati
presso il fiume Sabis (Sambre) (Bellum Gallicum, II,
XXVI) e al comando di due legioni contro i Morini (Bellum
Gallicum, IV, XXXVIII).
Durante la
seconda spedizione in Britannia, nel 54 a.C., Cesare affidò a Labieno,
a capo di tre legioni e duemila cavalieri, il compito di controllare i porti, provvedere agli approvvigionamenti verso l’isola
e garantire la tranquillità delle genti galliche (Bellum
Gallicum, V, VIII). Sbarcato in Britannia, Cesare lasciò a
guardia della flotta dieci coorti e trecento cavalieri sotto il
comando di Quinto Atrio e si diresse verso l’interno. Una
violenta tempesta danneggiò però numerose navi e Cesare, chiesto
l'aiuto di Labieno (Bellum Gallicum, V, XI), ottenne
l'invio di 60 navi (Bellum Gallicum, V, XXIII).
Dopo la
vittoria sui Britanni le legioni romane tornarono in Gallia e si
disposero negli accampamenti invernali; a Tito Labieno, come era
accaduto anche prima della spedizione in Britannia
(Bellum Gallicum, III, XI), fu
assegnato il comando della legione destinata ai territori dei
Remi, al confine con i Treveri (Bellum Gallicum, V, XXIV),
un territorio molto importante e al tempo stesso uno dei più
pericolosi dell'intera Gallia. Labieno dovette più volte
combattere contro i Treveri, comandati da Induziomaro, e in tutte le occasioni riuscì a
sconfiggere il nemico (Bellum Gallicum, V, XLVII - V, XLVIII - V, LIII - V, LVI - V, LVII - V,
LVIII).
Il sesto anno della campagna gallica (53 a.C.) iniziò con l'ennesima rivolta di alcune popolazioni della Gallia Belgica e delle regioni orientali della Gallia Celtica; i Treveri, capeggiati dai parenti di Induziomaro, riuscirono a trovare degli alleati fra i Germani e gli Eburoni. Preparativi di rivolta si ebbero anche tra i Nervi, gli Atuatuci, i Menapi, i Senoni ed i Carnuti. Cesare decise quindi di aumentare il numero delle legioni stanziate in Gallia da sette a dieci e ne inviò due di rinforzo a Labieno, ancora accampato in prossimità del territorio dei Treveri dove combatté vittoriosamente l’ennesima battaglia
(Bellum Gallicum, VI, V - VI, VII - VI, VIII).
Nell'autunno dello stesso anno, mentre Cesare era impegnato a
combattere contro gli Eburoni, Labieno, al comando di tre legioni
fu inviato nel territorio dei Menapi
(Bellum Gallicum, VI, XXXIII).
Nel 52 a.C.
dopo aver
portato vittoriosamente a termine la conquista dei principali
centri dei Senoni (Vellaunodunum), dei Carnuti (Cenabum)
e dei Biturgi (Noviodunum e Avaricum), Cesare divise
l'esercito in due parti; egli, a capo di sei legioni, puntò verso
il centro arverno di Gergovia, mentre Labieno, con quattro
legioni (sicuramente la VII e la XII) e parte della cavalleria, fu
inviato presso i territori dei Senoni e dei Parisii (Bellum
Gallicum, VII, XXXIV).
Dopo alcuni
scontri presso Gergovia, Cesare decise di togliere
l'assedio alla città e di dirigersi verso il territorio dei
Senoni per ricongiungersi con Labieno e affrontare così il nemico
con maggiori forze.
Labieno,
venuto a conoscenza delle difficoltà di Cesare a Gergovia
e della rivolta degli Edui e dei Bellovaci, una volta sconfitti i
nemici a Lutetia (Parigi) (Bellum Gallicum,
VII - LVII, LVIII, LX, LXI, LXII), decise di non proseguire
l'offensiva e di ritornare ad Agedincum per riunirsi con
Cesare.
L’ultima grande rivolta scoppiata in Gallia fu quella
guidata da Vercingetorige, re degli Arverni, che riuscì a coalizzare numerosi popoli (Senoni, Parisi, Pictoni, Cadurci, Turoni, Aulerci, Lemovici, Andi) e tutte le tribù che abitavano la costa atlantica.
Vercingetorige,
intenzionato a fermare l'avanzata di Cesare,
si mosse con il suo esercito da Bibracte verso il
territorio dei Mandubi. Qui però subì una sconfitta che lo vide
costretto a rifugiarsi nella città di Alesia. L'esercito romano
cinse d'assedio la città con due anelli di fortificazioni,
fossati d'acqua, palizzate, torri di guardia e fortini. Dopo circa
un mese di assedio, giunse in aiuto dei Galli un grande esercito
al comando dell'atrebate Commio, degli edui Viridomaro e
Eporedorige e dell'arverno Vercassivellauno.
Quest’ultimo
prese posizione su un colle posto a nord-ovest di Alesia e sferrò
il suo attacco insieme a Vercingetorige che guidava il suo
esercito nella pianura sottostante. Mentre le truppe di Cesare,
insieme alle coorti di Bruto e Fabio, erano impegnate contro
l'esercito di Vercingetorige, Labieno con sei coorti fu inviato in
aiuto dei romani che combattevano nei pressi del colle (Bellum
Gallicum, VII, LXXXVI).
Dopo aver
respinto l'attacco di Vercingetorige, Cesare, con la cavalleria e
quattro coorti, si spostò sul secondo fronte della battaglia con
l'intenzione di prendere il nemico su più lati (Bellum
Gallicum, VII, LXXXVII) e sferrare l’attacco decisivo al
quale partecipò lo stesso Labieno al comando di quaranta coorti (Bellum
Gallicum, VII, LXXXVII). Sconfitto l'esercito gallico,
Vercingetorige si arrese ai Romani.
Al termine
di questa battaglia, Cesare dispose, per l'inverno del 52-51 a.C.,
le undici legioni nei vari territori della Gallia. Tito Labieno ed
il suo luogotenente Marco Sempronio Rutilo, a capo delle legioni
VII, XV e della cavalleria, fu inviato nelle terre dei Sequani (Bellum
Gallicum, VII, LC).
Le imprese belliche che seguirono la battaglia di
Alesia furono soprattutto azioni mirate a sedare le rivolte di alcune popolazioni.
Nel 51 a.C. mentre Cesare combatteva una delle ultime battaglie, contro
i Pictoni e i Cadurci, Labieno per la terza volta fu inviato, al comando di due legioni, presso il territorio dei Treveri
(Bellum Gallicum, VIII, XXV).
"Labieno sostenne con successo nel territorio dei Treveri
un combattimento di cavalleria e dopo aver ucciso molti Treveri e
Germani, che non negavano mai a nessuno aiuti contro i Romani,
riuscì ad aver vivi in suo potere parecchi dei loro capi e tra
questi l'Eduo Suro, il quale era di grande nobiltà e aveva fama
di valore e solo degli Edui era rimasto in armi sino a quel
momento" (Bellum Gallicum, VIII, XLV).
Nell'inverno
del 51-50 a.C., dopo la sottomissione di alcune tribù dell'Aquitania,
l'intera Gallia poteva dirsi completamente conquistata. Le legioni
furono dislocate negli accampamenti invernali, Cesare rientrò
nella Gallia Narbonense e affidò a Labieno il comando della Gallia
Cisalpina:
"Ivi
pur sentendo spesso dire che Labieno era sobillato dai suoi
avversari e avvertito che ciò avveniva per volere di pochi,
affinché se vi fosse stato un intervento del Senato contro Cesare
egli fosse privato di qualche parte dell'esercito, tuttavia non
prestò fede a ciò che si diceva di Labieno e non si lasciò
indurre a fare alcunché contro l'autorità del Senato, poiché
egli riteneva che le sue ragioni potessero facilmente trionfare,
se i senatori avessero votato liberamente" (Bellum
Gallicum, VIII, LII).
E' questa
l'ultima citazione di Tito Labieno nel Bellum Gallicum, una
citazione che preannuncia la defezione di Labieno ed il suo
passaggio tra le fila di Pompeo durante la guerra civile.
|
Medaglia
di Labieno - O. Avicenna, Memorie della città di
Cingoli, 1644, tav. II (Falso rinascimentale)
|
La
guerra civile
Fu
probabilmente nei giorni successivi il 10 gennaio del 49 a.C.,
giorno nel quale Cesare varcò con le sue truppe il Rubicone, che
Labieno decise di passare dalla parte di Pompeo.
Cesare
cominciò la sua discesa in Italia dal Piceno. Dopo aver preso Auximum
(Osimo), presidiato dalle truppe di Azio Varo, "percorre
tutto l'Agro Piceno. Tutte le prefetture di quelle regioni lo
accolgono con entusiasmo e danno ogni genere di rifornimenti al
suo esercito. Giungono a lui dei legati anche da Cingoli, città
che Labieno aveva colonizzata e costruita con il proprio denaro;
gli promettono di eseguire molto volentieri i suoi ordini"
(Bellum Civile, I, XV).
Oltre
al Bellum Civile, scritto da Cesare probabilmente nel 46
a.C., una fonte molto importante per comprendere l'inizio della
guerra civile nonché gli stati d'animo ed i pensieri dei
filo-pompeiani sono le Epistulae di Cicerone (Ad Atticum,
Ad Familiares).
Cesare
nella sua opera fa solo un breve cenno al suo ex luogotenente,
allo scopo di sottolineare, quasi sarcasticamente, che anche
Cingoli si era schierata dalla sua parte; il suo è un
atteggiamento di ostentato distacco
(24). Se il Bellum Gallicum
dava un grande risalto alla figura di Labieno, i racconti di
Cesare e dei suoi continuatori sulla guerra civile (Bellum
Civile, Bellum Africum, Bellum Hispaniense) danno poche
informazioni. Secondo il punto di vista dei cesariani, infatti,
Labieno era passato dalla parte dei nemici ed era quindi più
conveniente tralasciare eventi a lui favorevoli e sminuire
addirittura la sua figura.
Cicerone,
al contrario, elogia Labieno e sottolinea la sua importanza tra le
fila di Pompeo dimenticando a sua volta i precedenti piuttosto
scomodi di questo nuovo alleato. Basti pensare, infatti, alla
militanza politica di Labieno nel partito democratico e al suo
duro scontro con lo stesso Cicerone all'epoca del processo contro
Rabirio; oppure alla severa critica di Cicerone (dicembre 50 a.C.)
riguardo "all'immorale ricchezza" accumulata da Labieno
durante la guerra in Gallia (Ad Atticum, VII, 7, 6).
In
una lettera del 19 gennaio, o più probabilmente del 21 gennaio,
Cicerone scrive ad Attico (Ad Atticum, VII, 11, 1) della
defezione di Labieno senza dare tuttavia grande rilievo alla
notizia. Nell'epistola
inviata il 22 gennaio, tra l'altro, si rammarica del fatto che il
passaggio di Labieno tra le fila di Pompeo non abbia avuto una
grande risonanza a causa dell'assenza di molte autorità romane (Ad
Atticum, VII, 12, 4- 5). Dopo l'occupazione di Cesare di
località strategiche sia sul versante adriatico che tirrenico,
infatti, Pompeo era partito per la Campania il 17 gennaio e il
giorno dopo i magistrati e molti senatori lo avevano seguito.
Nell'epistola
del 23 gennaio Cicerone esalta Labieno, definendolo addirittura un
héros (eroe, semidio) per l'alto esempio di senso civico
che aveva dimostrato e che, tra l'altro, era stato fonte di dolore
per Cesare (Ad Atticum, VII, 13, 1).
Il
22 gennaio Labieno incontrò a Teanum Sidicinum (Teano)
Pompeo ed i consoli; Cicerone lo annovera fra i grandi uomini (vir
mea sententia magnus) e segnala l'effetto positivo della sua
presenza fra i senatori (Ad Atticum, VII, 13a, 3). La
situazione di felice ottimismo per la presenza di Labieno viene
ribadita da Cicerone in una epistola di qualche giorno dopo (25
gennaio?) alla moglie Terenzia ed alla figlia Tullia: "(la
presenza di) Labieno ha migliorato la situazione" (Ad
Familiares, XIV, 14, 2).
Pochi
giorni dopo Labieno partiva con Pompeo ed i consoli verso la
Puglia (Ad Atticum, VII, 15, 3). Cesare, nel frattempo,
dopo l'occupazione del Piceno, metteva sotto assedio Corfinium
(Corfinio) che era difesa dalle coorti di Lucio Vibullio Rufo e di
Lucio Domizio Enobarbo.
Il
27 gennaio, in un'epistola all'amico Tirone, Cicerone si sofferma
sul significato morale del gesto di Labieno: "Un colpo molto
grave Cesare l'ha già ricevuto da colui che rivestiva il più
alto grado nel suo esercito e che non ha voluto farsi complice
dello scelus: Tito Labieno l'ha lasciato ed è con noi; e,
come sembra, molti altri seguiranno il suo esempio" (Ad
Familiares, XVI, 12, 4).
Quando
Pompeo seppe della caduta di Corfinio, si spostò da Lucera a
Brindisi, con il proposito di salpare per l'Oriente. Cesare, che
non era arrivato in tempo per impedire la fuga di Pompeo (17 marzo
49 a.C.), decise di recarsi a Roma dopo aver dato istruzioni ai
suoi comandanti di occupare la Sicilia e la Sardegna. In Sardegna
inviò Valerio Orca a capo di una legione, mentre in Sicilia,
occupata dal pompeiano Catone, inviò tre legioni guidate da Gaio
Curione, con l'ordine poi di passare in Africa una volta
conquistata l'isola.
Il
5 aprile Cesare si mosse verso Marsiglia per dirigersi in Spagna,
dove altre truppe di Pompeo si stavano organizzando. Conclusa
vittoriosamente la campagna di Spagna (agosto) e l'occupazione di
Marsiglia (ottobre), tutta la parte occidentale dei territori
romani era oramai sotto il suo controllo. Solo in Africa le truppe
di Cesare, guidate da Scribonio Curione, erano state sconfitte da
re Giuba I di Numidia, alleato di Pompeo, e da Azio Varo (25
agosto).
Cesare
rientrò a Roma alla fine del 49 a.C. ed emanò alcuni decreti di
carattere finanziario e politico; indisse i comizi per l'elezione
dei consoli per l'anno 48 a.C., quando fu eletto insieme a Publio
Servilio l'Isaurico, e poi si imbarcò da Brindisi (4 gennaio 48
a.C.) alla volta delle coste dell'Epiro.
Dopo
aver occupato Orico, Apollonia ed altre città dell'Epiro, Cesare
rivolse le sue truppe verso Dyrrhachium
(Durazzo), dove si era accampato un
piccolo presidio di truppe pompeiane. Pompeo intanto, informato
dell'arrivo di Cesare, si mosse da Tessalonica (Salonicco)
verso Dyrrhachium;
giunse nei pressi della città prima di Cesare e si accampò sulla
riva destra del fiume Apso. Anche Cesare, in attesa di rinforzi da
Brindisi, si accampò nei pressi del fiume.
Nel
luglio del 48 a.C. i due eserciti si scontrarono nei pressi di Dyrrhachium
e Cesare, duramente sconfitto, fu costretto a
retrocedere ed iniziare una ritirata verso sud. Non sappiamo che
ruolo svolse Tito Labieno in questa battaglia; Cesare, infatti,
nei capitoli del Bellum Civile che descrivono questo
avvenimento, omette qualsiasi riferimento alle azioni del suo ex
luogotenente; probabilmente ebbe ruoli di comando e contribuì
senz'altro alla vittoria dei pompeiani.
Secondo
Appiano, Pompeo
non seppe trarre profitto da questa vittoria. Lo storico greco,
infatti, narra che i pompeiani potevano conquistare l'accampamento di Cesare e finire
la guerra in un solo colpo se Labieno non avesse consigliato di
inseguire coloro che fuggivano dopo la sconfitta
(25). A proposito
di questo errore di valutazione, Cesare non nomina Labieno, né lo
fa Plutarco. Quest'ultimo narra solo che Pompeo si accontentò di
far fuggire i nemici dentro le fortificazioni, aggiungendo che
Cesare ebbe a dire: "oggi la vittoria sarebbe stata dei nemici,
se avessero avuto comandanti migliori"
(26).
Dopo
questa battaglia i due eserciti si scontrarono nuovamente il 9
agosto del 48 a.C. a Pharsalus (Farsalo). Prima del combattimento si tenne un
grande consiglio nel campo di Pompeo; egli, sicuro della vittoria,
esortò ed incoraggiò i suoi uomini convinto del fatto che con
solo la cavalleria si sarebbe potuto sconfiggere il nemico.
Dopo
di lui prese la parola Labieno che disse: "Non credere,
Pompeo, che questo sia l'esercito che vinse la Gallia e la
Germania. Ho partecipato a tutti i combattimenti e non dico a
vanvera cose a te ignote. Pochissimi rimangono di quell'esercito;
una gran parte è morta, come è necessario che accada in tanti
combattimenti; molti perirono nella pestilenza dell'autunno in
Italia; molti se ne sono tornati alle loro case; molti sono
rimasti nel continente. Non avete forse udito che di quelli che
erano rimasti con il pretesto di malattia, si son fatte coorti in
Brindisi? Queste truppe che voi vedete sono state raccolte dalle
leve di questi anni nella Gallia Citeriore e i più provengono
dalle colonie transpadane. Tuttavia i più forti, il nerbo
dell'esercito, sono periti nei due combattimenti di Durazzo"
(Bellum Civile, III, LXXXVII). "Dopo aver detto
ciò, giurò che non sarebbe ritornato nell'accampamento se non da
vincitore, ed esortò gli altri a fare altrettanto" (Bellum
Civile, III, LXXXVII).
Questa
volta però le truppe di Cesare ebbero la meglio; dopo la sconfitta
molti pompeiani si rifugiarono in Spagna e in Africa. Pompeo si
ricongiunse con la propria famiglia e fuggì in Egitto dove, il 29
settembre, fu ucciso su ordine del re Tolomeo XIII.
Alle
truppe pompeiane stanziate in Africa si aggiunse successivamente
anche Labieno; egli, dopo la battaglia di Pharsalus fu il primo a
raggiungere Dyrrhachium con la triste notizia (Cicerone, De
Divinatione, I, 32, 68) cercando di attenuarla con
l'affermazione che Cesare era stato gravemente ferito (Sesto
Giulio Frontino, Strategemata, II, 7, 13).
Dopo
questo episodio e l'inizio delle prime battaglie africane (46
a.C.) non si hanno molte informazioni su Labieno. Sappiamo che
egli, mentre si trovava in Africa, decise di recarsi con Catone
all'oracolo di Zeus Ammone presso Cirene (Libia), ma solo
il secondo ebbe il permesso di entrare. Poi, dopo una difficile
marcia lungo la Sirte arrivarono nella provincia d'Africa e
Labieno fu impegnato ad organizzare una forte ed efficiente
cavalleria composta principalmente da Galli, Germani e Numidi.
Anche se Catone decise di affidare a Metello Scipione il comando
delle truppe stanziate in Africa, Labieno può essere considerato
il vero comandante delle operazioni
(27).
Dopo
la pacificazione delle province orientali e la guerra alessandrina
(47 a.C.) Cesare approdò in Africa ad Hadrumetum (Susa,
Tunisia) alla fine del 47 a.C. e successivamente si accampò nei
pressi della città di Ruspina (Monastir, Tunisia) dove, il
4 gennaio del 46 a.C., avvenne il primo scontro con le truppe
pompeiane. Secondo
il racconto del Bellum Africum gli uomini di Cesare, meno
numerosi, costrinsero alla ritirata i pompeiani nonostante questi
ultimi avessero adottato una nuova tattica di combattimento, che
prevedeva un accerchiamento con la cavalleria, e disponessero di
una moltitudine di soldati (Bellum Africum, 19).
Ma
Dione e Appiano ci tramandano una storia un po' diversa. Il primo
narra che Petreio e Labieno assalirono e sconfissero le legioni di
Cesare e che quest'ultimo fosse piuttosto preoccupato per
l'imminente arrivo di altre truppe nemiche comandate da Scipione e
dal re Giuba (28). Anche secondo Appiano, Labieno e Petreio
sconfissero l'esercito di Cesare; egli, inoltre, ricorda che
mentre si svolgeva la battaglia, il cavallo di Labieno, ferito, lo
sbalzò a terra; i suoi uomini lo trassero in salvo, mentre
Petreio, sicuro di poter vincere in qualsiasi momento, ordinò ai
suoi di desistere dal combattere dicendo che non si poteva
privare Scipione, ancora assente, dell'onore della vittoria. E
questa, aggiunge lo storico, fu un'altra fortuna per Cesare
(29).
Alla
battaglia di Ruspina seguirono altri scontri tra l'esercito di
Cesare e le truppe pompeiane; si combatterono battaglie presso le
città di Uzitta (Bellum Africum, 52),
Zeta (Bellum Africum,
69-70), Sassuram (Bellum Africum, 75), Tegea (Bellum Africum,
78) ed in tutti questi
eventi bellici il comando della cavalleria era sempre affidato a
Labieno.
Il
4 aprile del 46 a.C. Cesare decise di puntare verso la città di Tapso
(Ras Dimas, Tunisia),
controllata dalle truppe di Vergilio, un fedelissimo di Scipione.
Nello scontro di Tapso, decisivo per l'intera campagna
africana, fu l'esercito di Cesare ad uscire vincitore. Catone si
suicidò mentre Afranio, Scipione e il re Giuba furono
uccisi. Non sappiamo che ruolo ebbe Labieno nella battaglia; probabilmente, come fu presente ad ogni battaglia, anche nella
disfatta di Tapso comandò la sua cavalleria.
Dopo
questa sconfitta, Labieno si diresse in Spagna dove si erano
rifugiati gli ultimi anticesariani sotto la guida dei figli di
Pompeo, Gneo e Sesto, e di Azio Varo. La battaglia decisiva tra
gli opposti schieramenti si combatté a Munda, presso
l'odierna Osuna, il 17 marzo del 45 a.C.
"Il
combattimento si protrasse per qualche tempo senza che si
registrassero significativi progressi dall'una o dall'altra parte,
il che indusse i generali ad abbandonare le loro posizioni di
comando per unirsi alle truppe ed incoraggiarle di persona.
Cesare
assunse il comando dell'ala destra, dove stava combattendo
aspramente la Legio X Gemina. La sua presenza infiammò il morale
della decima legione, che cominciò a progredire. Rendendosi conto
di questa manovra, Gneo Pompeo distolse una legione dal proprio
fianco destro per rinforzare il sinistro che veniva attaccato.
Questo si rivelò un grave errore. L'attacco da parte della Legio
X Gemina fu, infatti, solo un diversivo.
Una volta indebolito il
fianco destro dei pompeiani, la cavalleria di Cesare sferrò un
attacco che fu risolutivo per le sorti della battaglia.
Contemporaneamente, Bogud, re di Mauretania alleato di Cesare,
attaccò da dietro i pompeiani. Tito Labieno, comandante della
cavalleria pompeiana, si accorse di questo attacco e si preparò a
fronteggiarlo facendo dietro-front.
Ma i legionari interpretarono male questa sua manovra.
Essendo già attaccati sull'ala sinistra (Legio X Gemina)
e su quella destra (carica di cavalleria), pensarono che
Labieno stesse fuggendo. Temendo il peggio, le legioni
pompeiane abbandonarono le posizioni e si diedero alla
fuga. Molti soldati pompeiani caddero mentre cercavano
di fuggire dalle truppe di Cesare. Altri trovarono la
morte nella difesa della città di Munda"
(30). |
La
manovra di Labieno è ricordata sia da Cassio Dione
(31)
che da Floro (32).
"In
questo combattimento perirono circa trentamila avversari e forse
anche di più; ed inoltre Labieno e Azio Varo, ai quali dopo la
morte fu fatto il funerale, e così anche circa tremila cavalieri
romani, parte di Roma, parte della provincia" (Bellum
Hispaniense, 31). Appiano
narra che furono portate a Cesare le teste di Labieno, di Azio
Varo e di altri uomini illustri
(33) mentre Velleio narra solo che
"Labieno e Varo morirono in combattimento"
(34).
Secondo
Appiano, Cesare disse, a proposito della battaglia di Munda, che
"molte volte aveva combattuto per la vittoria, ora invece per la
vita" (35),
a dimostrazione di quanto coraggio e valore misero in campo fino
in ultimo le truppe pompeiane ed i loro comandanti.
Labieno
e il consolato
Nell'autunno
dell'anno 50 a.C. Cesare assegnò a Labieno il comando della
Gallia Cisalpina: T. Labienum Galliae togatae praefecit, quo
maiore commendatione conciliaretur ad consulatus petitionem
(36). Questa frase del Bellum
Gallicum ha suscitato numerose controversie fra gli studiosi a
proposito di una possibile candidatura di Labieno al consolato per
l'anno 49 a.C.
Lo
studioso Ronald Syme scrive: "la proposizione dipendente
nel primo brano è sgraziata e ambigua. In primo luogo, qual è il
soggetto del verbo "conciliaretur"? Presumibilmente
"Gallia togata", la cui regione deve essere indotta per
favorire qualcuno della candidatura per il consolato. In secondo
luogo, la candidatura di chi viene favorita mettendo Labienus
a capo della Gallia Cisalpina - di Cesare o di Labieno? Molti
studiosi presumono il primo. Mommsen, comunque, capisce una
prospettiva candidatura di Labienus"
(37).
Anche
l'Abbott è possibilista riguardo alla candidatura di Labieno:
"Cesare fece Labieno governatore della Gallia Togata, in modo
da favorire la sua candidatura per il consolato. Se avesse
sospettato della slealtà di Labieno, non gli avrebbe dato tale
posizione" (38).
Il
Münzer (39), al contrario, non supporta l'ipotesi della
candidatura perché, secondo lui, non si hanno prove sul fatto che Labieno
ricoprì la carica di pretore, necessaria al fine di raggiungere
la magistratura consolare. Syme obietta sostenendo che "Labienus
non fu un politico notevole. Inoltre, i Fasti pretoriani
non possono essere recuperati interamente. Che sei dei pretori del
59 a.C. siano conosciuti per nome, è reale: nel 61 e 60,
comunque, solo tre e due rispettivamente"
(40).
Fra
le due posizioni si colloca quella del Broughton che nella terza
edizione della sua opera The Magistrates of the Roman Republic sostiene
che Labieno fu "probabilmente" pretore nel 59 a.C.
(41).
Prosegue
il Syme: "Le edizioni standard del Bellum Gallicum del
Kübler, Meusel, Rice Holmes e Klotz accettano tutte una proposta
di Ktaffert, e fanno leggere il brano come segue: 'T. Labienum
Galliae praefecit togatae quo maior ei commendatio conciliaretur
ad consulatus petitionem'. Con questa lettura, il riferimento al
consolato di Labienus è determinato, su qualche uso ragionevole
latino dei pronomi latini. È perciò paradossale e disgraziato
che Rice Holmes dedusse che il pronome 'ei' era riferito a Cesare
e al consolato di Cesare. Perciò, se si seguono i migliori testi
moderni del Bellum Gallicum, difficilmente ci può essere
qualche dubbio. Forse la lettura dei manoscritti potrebbe essere
difesa dopo tutto, poiché Hirtius [probabilmente l'autore dell'VIII
libro del De bello gallico] non era, infatti, uno
scrittore molto elegante. In ogni caso, su entrambe le letture, la
parola 'ipse' all'inizio del brano successivo, riferendosi alle
attività proprie di Cesare, come se per contrasto, può forse
essere inteso come una indicazione del senso dell'intero passo. Il
testo è in discussione. Un breve cenno all'ambiente sociale della
vita politica romana confermerà l'interpretazione qui adottata.
Non c'è alcuna probabilità che gli umili natali piceni
ispirarono qualche grande influenza o anche l'inizio di una clientela
nella Cisalpina, che il suo governo di quella regione poteva
conquistare favore per Cesare, un nobile e un consolare. Cesare
già possedeva i loro voti; al principio dell'anno, quando
scendendo nella Cisalpina per sollecitare l'elezione all'augurato
del suo questore M. Antonius, egli raccomandò la propria
candidatura per l'elezione consolare del 49 a.C. Governare la
Cisalpina era un favore e un beneficio per Labienus, se il novus
homo era candidato al consolato. E perché il generale non
avrebbe dovuto sperare per il consolato? Labienus era meglio di
Palicanus, non inferiore ad Afranius"
(42).
La
defezione di Labieno
Gli
autori antichi non hanno dato gran risalto ai motivi che spinsero
Labieno a passare dalla parte di Pompeo. Se Cicerone, come abbiamo
visto, considera Labieno un héros (eroe, semidio) per
l'alto esempio di senso civico che aveva dimostrato, Cassio Dione
al contrario esprime un giudizio piuttosto severo. Lo storico
greco, infatti, scrive che Labieno, dopo la guerra gallica,
"ottenuta ricchezza e gloria, aveva cominciato a condurre una
vita gonfio di potere, ma Cesare essendosi reso conto che si
paragonava a lui, non lo aveva più guardato con lo stesso
affetto. Non sopportando dunque questo cambiamento e temendo per
sé stesso, passò dall'altra parte"
(43). Sulla
defezione di Labieno, e più in generale sulla sua figura, le
maggiori opere di storia romana e le monografie dei più
importanti personaggi del I secolo hanno dato invece grande
spazio.
Se
i giudizi che riguardano la sua personalità e condotta politica
sono piuttosto scarsi, viene da tutti riconosciuta la validità
militare e tattica di Labieno; basti pensare al Mommsen che
sottolinea come "di tutti i soldati e di tutti gli ufficiali
di Cesare non vi fu che uno solo, il quale si rifiutò di
ubbidire, e questi fu appunto il migliore di tutti"
(44).
Analoghi sono i giudizi di Drumann e Groebe
(45), secondo i quali
"fra i legati di Cesare nessuno era paragonabile a Labieno" e di Hignett che considera Labieno "il più
grande dei luogotenenti di Cesare"
(46); per Adcock
"Labieno come tattico era della stessa classe di Cesare"
(47).
Scrive
il Mommsen a proposito di Labieno. "Negli affari politici
come in quelli militari Cesare decideva assolutamente in prima ed
ultima istanza. Per quanto egli tenesse in onore ogni utile
strumento, questo non era però che uno strumento; Cesare non
aveva compagni nel suo partito, gli facevano corona soltanto
aiutanti politico-militari, reclutati ordinariamente nelle file
dell'esercito ed abituati soldatescamente a non chiedere mai il
perché e lo scopo di tale o tale altra operazione, ma a prestare
cieca obbedienza. Questo fu il motivo per cui, quando cominciò la
guerra civile, di tutti i soldati e di tutti gli ufficiali di
Cesare non vi fu che uno solo, il quale si rifiutò di ubbidire, e
questi fu appunto il migliore di tutti, il che prova la verità di
quanto abbiamo detto intorno ai rapporti tra Cesare ed i suoi
partigiani. Tito Labieno aveva diviso con Cesare tutte le
tribolazioni della triste epoca catilinaria e tutto lo splendore
della vittoriosa carriera gallica, aveva ordinariamente avuto il
diretto comando delle truppe e spesso si era trovata sotto i suoi
ordini la metà dell'esercito; egli era certamente il più
anziano, il più formidabile ed il più fedele degli aiutanti di
Cesare ed anche il più considerato e il più onorato.
Ancora
nell'anno 704=50 Cesare aveva richiesto per lui il supremo comando
della Gallia cisalpina, sia per porre in mani sicure questo posto
di fiducia, sia per promuovere al tempo stesso Labieno nella sua
candidatura al consolato. Ma appunto in questa circostanza Labieno
si mise in relazione col partito avversario, si recò al principio
delle ostilità, nel 705=49, nel quartier generale di Pompeo
invece di recarsi in quello di Cesare e combatté tutta la guerra
civile con un accanimento senza esempio contro il suo antico amico
e generale. Noi non siamo abbastanza informati né del carattere
di Labieno né delle circostanze che lo decisero a cambiar
bandiera (...) Secondo tutte le apparenze Labieno era una di
quelle nature, le quali ai talenti militari associano la più
crassa ignoranza politica, e le quali quando disgraziatamente
devono o vogliano trattare di politica, si espongono a quegli
insani eccessi vertiginosi, di cui la storia dei marescialli di
Napoleone registra parecchi esempi tragi-comici. Labieno si sarà
creduto in diritto di figurare come secondo comandante della
democrazia vicino a Cesare; e non essendo stata riconosciuta
questa sua pretesa, si sarà deciso di recarsi nel campo nemico"
(48).
Saverio La Sorsa
(49)
rimarca la difficoltà nel
comprendere i veri motivi che portarono Labieno alla defezione.
"Occorre domandarsi a questo punto: quale fu la causa che
indusse il nostro capitano a mutar partito in un momento cosi
pericoloso; quali furono i motivi per cui egli, tanto ben voluto e
ricompensato da Cesare, lo abbandonasse per difendere il suo
avversario? La risposta non è molto facile per le insufficienti
notizie che, sul riguardo, ci tramandarono gli antichi scrittori.
Anzi essi sono discordi nel darne giudizio, né i moderni hanno
affrontato con serenità la questione".
La
Sorsa passa poi ad affrontare le posizioni di alcuni autori
antichi e contemporanei. Critica il giudizio di Dione "come
vago ed inesatto, giacché mai Cesare nei suoi Commentari accenna
a questo fasto smodato del suo luogotenente e alla di lui
superbia. Se qualche piccola colpa vi avesse avuto Labieno,
sarebbe apparsa dalla minuta relazione, che della guerra gallica
fa il suo duce, il quale avrebbe avuto interesse di esagerarne la
gravità per vendicarsi dell' infedeltà mostratagli (...) E come
può asserirsi che Cesare lo amasse meno di prima? Vi è forse nei
suoi scritti alcuna parola, che dia a divedere questo celato
rancore contro il suo superbo legato? Anzi, se ci atteniamo a
quanto è scritto nei Commentari dobbiamo asserire il contrario,
giacché poco prima che scoppiasse la guerra civile, egli lo aveva
creato governatore della Gallia Togata. E come se ciò non fosse
bastato, voleva preparargli il consolato (...) Se leggiamo le
epistole di Cicerone troviamo che, mentre prima disprezzava
Labieno, perché seguiva la volontà del suo duce, quando poi
passa nelle file di Pompeo, loda la sua azione, lo chiama grande
cittadino, eroe, poiché non aveva voluto essere compagno al suo
generale nelle scelleratezze (...). Degli storici moderni i più
accolgono senza discutere o l'opinione di Dione Cassio o quella di
Cicerone; altri hanno creduto presentar delle ipotesi, che,
secondo il nostro modo di vedere, soddisfano poco. Per esempio, il
Duruy [Storia Romana, III, 56] dice che Labieno, fiero
della sua gloria militare e delle ricchezze acquistate, credette
di avere più meriti del suo capo nella conquista della Gallia;
all'avvicinarsi della guerra civile calcolò le sorti delle due
parti; immaginò che Pompeo sarebbe stato il più forte, e al
principio dell'ostilità passò al suo fianco. Questa opinione non
ci sembra accettabile, giacché Labieno, che per si lungo tempo
aveva seguito il suo generale in tante spedizioni e aveva mille
volte ammirato il suo genio militare, egli che conosceva quante
forze erano pronte nella Gallia per qualsiasi impresa, certo
doveva avere più fiducia in Cesare, se avesse ben calcolato le
sorti delle due parti, che in Pompeo, le cui gesta sapeva solo di
fama".
Secondo
La Sorsa il vero motivo della defezione si deve quindi ritrovare
"studiando l'animo di Labieno, i suoi sentimenti politici, e
le sue convinzioni schiettamente repubblicane. Egli apparteneva ad
una famiglia, che quantunque la mancanza di documenti non ci
permette di conoscere bene, doveva essere fra le più
aristocratiche e fedeli alle istituzioni repubblicane" e
così "quando vide che Cesare, trasgredendo alle sacre leggi
dello Stato, andava contro la patria coll'intento d'abbattere i
nemici e farsi padrone del governo; quando la libertà e
l'indipendenza della repubblica vennero minacciate dal prepotente
emulo di Pompeo, allora egli dové sentire l'animo pieno di degno,
e per non rendersi complice di chi commetteva simile
scelleratezza, abbandonò le armi e la fortuna per combattere con
quelli che difendevano la libertà (...) In quel momento, quando
si vide Cesare con un' agguerrita truppa che minacciava di
distruggere il regime esistente, non solo Labieno seguì le sorti
di Pompeo. ma anche tutti i personaggi più schiettamente
repubblicani, come Catone, Scipione, Cicerone e gran parte del
Senato".
La
Sorsa conclude la sua difesa di Labieno sostenendo che egli
"mostrò di essere vero repubblicano, non curando né
ricchezze, né gloria, né onori; giacché non si contentò di
combattere contro Cesare, come vedremo, solo quando splendeva
ancora la stella del suo nuovo duce, ma anche dopo la morte di
costui, anche quando un ultimo avanzo del partito conservatore
faceva gli estremi sforzi in Ispagna. Se l'ambizione od altra
cupidigia lo avessero indotto a seguir Pompeo, allorché costui fu
sconfitto, ed ogni speranza di vittoria svanì, avrebbe desistito
dal combattere contro Cesare come fecero Cicerone ed altri: invece
egli volle sperare sempre, e non disdegnò di spargere il proprio
sangue, di dare la propria vita per la libertà della sua Roma,
per la difesa dei diritti dei cittadini dal minacciante
dispotismo".
Colini
Baldeschi concorda invece con l'opinione di Cassio Dione sul
movente essenzialmente personale e antagonistico: "l'opinione
dello storico greco, secondo me, rappresenta la vera ragione, o
almeno la più potente a spingere Labieno verso i Pompeiani. Un
moto d'ambizione poté essere coperto dal velame di ragioni
politiche; nel carattere di Labieno regnava alcun che di boria e
la fortuna lo aveva anche aumentata. Ei troppo sentì la parte
presa nella guerra del 52. L'ottavo libro dei Commentarii
segna una continua ascensione di Antonio e una diminuzione di
Labieno (…) Cesare nel 51 e nel 50 preferì la vicinanza e gli
onori di Marco Antonio, che come uomo politico era superiore a
Labieno (...) Il Cingolano non era uomo politico: il suo mal
d'animo verso Cesare fu presto adescato dalle parole dei
Pompeiani" (50).
Piuttosto
diversa è l'opinione espressa dall'Abbott. "Non abbiamo
prova che egli era geloso di Cesare o che si sentì umiliato o
maltrattato da lui. Egli era probabilmente di umili origini, ed è
possibile che i leaders senatoriali gli offrirono speranze
brillanti di una carriera sociale e politica. Egli può aver
pensato al non promettente futuro di Cesare (...) Si guarda come
se Labienus sapeva che Cesare si aspettava la guerra che
sarebbe seguita e che sentì che i piani del suo comandante
implicavano insuccesso, o anche che Labieno fece un astuto
pronostico sulla forma della lotta che il suo capo avrebbe
intrapreso" (51).
Secondo
Vittoria Augusti, invece, "la questione va studiata sotto un
altro punto di vista, quella cioè del lealismo di Labieno verso
la costituzione repubblicana nella ricerca di un motivo
psicologico-politico, il quale sta a suo posto nell'animo di quel
valoroso soldato, tanto valoroso in armi, quanto ottuso in
politica. Il giuramento di fede alla costituzione impegnava il
soldato romano in modo assoluto (52).
Per
il Syme non si trattò di tradimento ma una presa di
coscienza dell'antica fides e amicitia che lo
legavano a Pompeo. Scrive a proposito l'Alfieri: "Il
Cingolano avrebbe mantenuto una sostanziale coerenza. L'origine
picena autorizza a pensare alla sua appartenenza alla clientela di
Pompeo; la stessa attività iniziale come tribuno della plebe lo
mostra legato a Pompeo; il passaggio al seguito di Cesare nelle
Gallie avvenne in armonia con gli accordi fra Cesare e Pompeo nel
I triumvirato. Solo quando le relazioni tra i due leaders si
guastarono, Labieno si trovò in crisi, sicché il suo passaggio a
Pompeo non sarebbe stato, in sostanza, che il ritorno alle
origini" (53).
Anche
Michel Rambaud non definisce un tradimento il passaggio di
Labieno con Pompeo; l’opinione dello studioso viene così
sintetizzata dall'Alfieri: "Cesare viene accusato di
denigrazione sistematica, sia perché dedica poche espressioni ai
meriti del suo luogotenente nella guerra gallica, sia perché
amplifica o inventa le responsabilità o le perfidie di lui nella
guerra civile; sicché il fedele Labieno del Bellum Gallicum
resta un personaggio senza grandezza letteraria, mentre il perfuga
del Bellum Civile riceve uno sviluppo satirico e
drammatizzato" (54).
Jacques
Harmand punta, invece, su un episodio ben preciso della
guerra in Gallia che avrebbe condizionato pesantemente la carriera
e il futuro di Labieno. Lo studioso si riferisce all’agguato che
Labieno tese al re degli Atrebati Commio, nell'inverno del 53-52
a.C., mentre Cesare si trovava nella Gallia Cisalpina.
"Cesare infatti vedeva nella mediazione dei notabili gallici
un elemento fondamentale per la stabilizzazione della conquista.
Di qui l'esclusione di Labieno da gran parte del teatro delle
operazioni in Gallia e l'origine del dissenso che sfociò nella discessio"
(55).
W.B.
Tyrrell "parte dal riesame delle relazioni fra Cesare e
Labieno, quali sono documentate nel Bellum Gallicum,
chiarendo preliminarmente la concezione di Cesare sul rapporto fra
un legatus e l'imperator: non quello di un partner,
bensì di un subordinato. Tale gerarchia poteva certo provocare
risentimenti...Ma a parte ogni motivo personale, Labieno si unì al governo legittimo nella
lotta contro un proconsole rivoluzionario, per il quale la propria
dignitas stava al di sopra dello Stato. E' appunto per tale
dissociazione dallo scelus che Cicerone esaltò Labieno" (56).
Il
presente articolo costituisce una parte ed una sintesi di un
lavoro molto più ampio che l'autore sta svolgendo sul personaggio.
Il piano dell'opera prevede i
seguenti capitoli: 1-Tito Labieno, biografia ·
2-Tito Labieno nel Bellum Gallicum ·
3-Tito Labieno e la guerra civile ·
4-Le medaglie di Tito Labieno ·
5-Tito Labieno e Cingulum ·
6-I Labieni, la gens Atia e gli eruditi dei secoli XVI-XIX ·
7-Tito Labieno e il diritto ·
8-Epigrafia labiena ·
9-Curiosità labiene ·
10-Bibliografia labiena. Per qualsiasi informazione o chiarimento contattare
l'autore.
·
Testo degli autori latini:
The latin library
·
Testo
degli autori greci: Hodoi Elektronikai
·
Testo
del De rebus gallicis di Appiano: Perseus
·
Traduzione
dei brani cesariani:
R.
Ciaffi - L. Griffa (a cura di), Commentariorum belli gallici
- La guerra gallica, in Opere di Caio Giulio Cesare
(Classici latini diretta da Italo Lana-Classici Utet), Unione
Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1973, pp. 35-487
R.
Ciaffi - L. Griffa (a cura di), Commentariorum belli civilis -
Commentari della guerra civile, in Opere di Caio Giulio
Cesare (Classici latini diretta da Italo Lana-Classici Utet),
Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1973, pp. 491-767
R.
Ciaffi - L. Griffa (a cura di), Bellum Hispaniense - La
guerra spagnola, in Opere di Caio Giulio Cesare
(Classici latini diretta da Italo Lana-Classici Utet), Unione
Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1973, pp. 970-1019
·
Traduzione dei brani del Pro C. Rabirio perduellionis reo ad Quirites
oratio di
Cicerone:
G.
Bellardi (a cura di), Pro C. Rabirio perduellionis reo ad Quirites
oratio, in Le Orazioni di M. Tullio Cicerone, vol. II (Classici latini diretta da Italo Lana-Classici
Utet), Unione
Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1981, pp. 652-683
·
Ove
non specificato la traduzione dei passi degli autori antichi è
stata curata da Cristina Mori.
(1)
Altro famoso personaggio recante lo stesso nome fu lo storico ed
oratore di età augustea soprannominato, per la veemenza delle sue
invettive, Rabienus. E' conosciuto per aver scritto
un'opera dedicata alle guerre civili. Nostalgico del passato repubblicano e
apertamente ostile al nuovo ordinamento politico romano, lo stesso
Labieno era consapevole della durezza dei suoi scritti. Secondo quanto narra Seneca, infatti, durante una
recitazione tralasciò alcuni brani delle sua opera, e affermò "le parti che sto saltando potranno leggersi dopo la mia
morte" (Memini aliquando, cum recitaret historiam, magnam
partem illum libri convolvisse et dixisse: haec, quae transeo,
post mortem meam legentur: Lucio Anneo Seneca (il Vecchio), Controversiae,
X, 8).
La
censura di Augusto colpì anche Tito Labieno la cui opera venne
condannata al rogo nel 12 a.C. Labieno non volle sopravvivere a
tale ingiustizia e recatosi nel sepolcro della sua famiglia si
lasciò morire (Non tulit hanc Labienus contumeliam nec
superstes esse ingenio suo voluit sed in monumenta se maiorum
suorum ferri iussit atque ita includi: Lucio Anneo Seneca (il
Vecchio), Controversiae, X, 7).
Svetonio
ci tramanda che l'imperatore Caligola fece ricercare gli scritti
di Tito Labieno, di Cremuzio Cordo e di Cassio Severo autorizzando
poi la loro diffusione e la loro lettura, affinché i posteri
fossero informati di tutto: Titi Labieni, Cordi Cremuti, Cassi
Severi scripta senatus consultis abolita requiri et esse in
manibus lectitarique permisit, quando maxime sua interesset ut
facta quaeque posteris tradantur (Gaio Svetonio Tranquillo, De
vitis caesarum, Caligula, XVI). Dell'opera di Tito
Labieno non rimane oggi alcuna traccia.
(2)
La maggior parte degli storici e degli eruditi dell'età moderna e
della prima età contemporanea pensavano che i Labieni
appartenessero alla gens Atia, nonostante gli autori
antichi non avessero mai citato il gentilizio Atius. E' a
partire dalla tarda età rinascimentale che iniziò a diffondersi
la forma "Tito Azio Labieno" ed il primo che attribuì i
Labieni alla gens Atia fu quasi certamente Paolo Manuzio (Antiquitatum
Romanarum Liber de Legibus, Venezia 1569, pp. 29-30).
(3)
Marco Tullio Cicerone, Pro C. Rabirio perduellionis reo ad
Quirites oratio, 8, 22: "E per venire infine a te,
Labieno, cosa avresti fatto in tale situazione, in tale frangente?
Da una parte l'impulso della vigliaccheria ti spingeva a fuggire
per trovare un nascondiglio; da un'altra il criminale furore di
Saturnino ti attirava sul Campidoglio; da un'altra ancora i
consoli ti chiamavano in difesa della salvezza e della libertà
della patria: ebbene, l'autorità, l'appello, il partito di chi
avresti voluto seguire? All'ordine di chi avresti preferito
obbedire? "Mio zio - afferma - era con Saturnino". E con
questo? Tuo padre con chi era? E i vostri parenti, tutti cavalieri
romani? E ogni prefettura, ogni regione, ogni paese a voi vicino?
Tutto quanto il territorio Piceno seguì forse la follia del
tribuno o l'autorità dei consoli?".
Sull'appartenenza
al ceto equestre della famiglia Labiena si veda anche: C. Nicolet,
L'ordre équestre à l'époque republicaine (312-43 av. J-C),
II, Paris 1974, p. 921 s., n. 192
(4)
G. Paci, Per la storia di Cingoli e del Piceno settentrionale
in età romana repubblicana, in AA.VV., Cingoli dalle origini al sec. XVI.
Contributi e ricerche. Atti del XIX convegno di Studi
Maceratesi, Cingoli 15-16 ottobre 1983, "Studi
Maceratesi", 19, Macerata 1986, p. 92 e nota 46
(5)
Sull'origine cingolana dei Labieni si veda anche: L. Gasperini -
G. Paci, Ascesa al trono e rapporti con i territori d'origine.
Italia: regio V (Picenum), in Epigrafia e ordine senatorio,
Colloquio Internazionale AIEGL Roma 14-20 maggio 1981, Roma 1982,
pp. 234-235
(6)
Silio Italico, Punica, X, 31-35: "Labieno e Ocres
giacevano morti, e così Opiter, gli ultimi due nati nelle
ricche colline di Setia, Labieno mandato dalle alte mura di
Cingoli (...) Labieno muore trafitto ad un fianco".
(7)
T. Mommsen, CIL IX, 5679, Berolini 1883, p. 542
(8)
G. Paci, Per la storia di Cingoli e del Piceno settentrionale
in età romana repubblicana, cit., pp. 77-93
(9)
G. Paci, Per la storia di Cingoli e del Piceno settentrionale
in età romana repubblicana, cit., p. 92 nota 45
(10)
Giulio Cesare, Bellum Civile, I, XV: "Giungono a lui
dei legati anche da Cingoli, città che Labieno aveva colonizzata
e costruita con il proprio denaro".
(11)
G. Colucci, Delle antichità di Cingoli, in Delle Antichità
Picene dell'abate Giuseppe Colucci, Tomo III, Fermo 1788 -
Ristampa anastatica a cura del Gruppo Editoriale Maroni,
Ripatransone 1988, pp. 114-115
(12) Marco Tullio Cicerone,
Pro C. Rabirio perduellionis reo ad Quirites oratio, 5, 14:
"Si,
evidentemente la morte di tuo zio ha procurato a te più dolore
che non quella del fratello a Gaio Gracco, e la morte di quello
zio, che tu d'altra parte non hai mai visto, è stata per te più
penosa che non per Gaio quella di un fratello col quale aveva
sempre vissuto in perfetto accordo".
(13)
T. R. S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, vol.
II (99 B.C. - 31 B.C), American Philological Association, New
York 1952, pp. 167-168
Marco
Tullio Cicerone, Pro C. Rabirio perduellionis reo ad Quirites
oratio, 4, 12: Popularis vero tribunus plebis custos defensorque
iuris et libertatis! ("Un tribuno della plebe davvero
democratico, custode e difensore delle leggi e della
libertà").
Marco
Tullio Cicerone, Pro C. Rabirio perduellionis reo ad Quirites
oratio, 5, 17: Quam ob rem fateor atque etiam, [T.]
Labiene,
profiteor et prae me fero te ex illa crudeli, importuna, non
tribunicia actione sed regia, meo consilio, virtute, auctoritate
esse depulsum ("Di conseguenza dichiaro, anzi, Labieno,
lo dichiaro con voce risonante e di vanto che con la mia
intelligenza, la mia energia e la mia autorità ti ho fatto
abbandonare quell'azione giudiziaria crudele, odiosa, degna non
già di un tribuno ma di un despota").
Marco
Velleio Patercolo, Historiae Romanae ad M. Vinicium libri duo,
40, 4: Cn. Pompeio T. Ampius et T. Labienus tribuni plebis.
(14)
Giulio Cesare, Bellum Gallicum, I, XXI:
De
tertia vigilia T. Labienum, legatum pro praetore...
(15)
Marco Tullio Cicerone, Pro C. Rabirio perduellionis reo ad
Quirites oratio, 7, 21: cum L. Philippus, L. Scipio, cum
M. Lepidus, cum D. Brutus, cum hic ipse P. Servilius, quo tu
imperatore, Labiene, meruisti ("premesso che con i
consoli si trovavano pure Lucio Filippo, Lucio Scipione, Marco
Lepido, Decimo Bruto e, insieme con loro, proprio il qui presente
Publio Servilio - agli ordini del quale tu, Labieno, hai fatto il
servizio militare - ")
(16)
W. Blake Tyrrell, Labienus's Career Before 63 B.C.E. cap. I
di Biografy of Titus Labienus. Caesar's Lieutenant in Gaul,
1970 web
(17)
E. Colini Baldeschi, Tito Labieno, in "Atti e Memorie
della Regia Deputazione di storia patria per le Marche", vol.
II, 1916-1917, p. 12
(18)
E. Colini Baldeschi, Tito Labieno, cit., p. 13
(19)
F. F. Abbott, Titus Labienus, in "The Classical
Journal", XIII, 1917, pp. 4-13, in A. Morello, Titus
Labienus et Cingulum - Quintus Labienus Parthicus, Nummus et
Historia IX, 2005, p. 14
(20)
Giulio Cesare, Bellum Gallicum, I, X: "Perciò pose a
capo della linea di difesa già fatta il luogotenente Tito
Labieno".
21)
Cassio Dione, Historia Romana, XLI, 4: (Labieno)...ὥστε
καὶ πάντων
τῶν ὑπὲρ τὰς
Ἄλπεις
στρατοπέδων,
ὁπότε
ἐκεῖνος ἐν
τῇ Ἰταλίᾳ
εἴη, ἄρχειν...(ogni qual volta quello (Cesare) rientrava in Italia, gli (Labieno) affidava il comando delle truppe al di là delle Alpi).
(22)
Plutarco, Caesar, XVIII: (Cesare)
τούτων
Τιγυρίνους,
μὲν οὐκ
αὐτός, ἀλλὰ
Λαβιηνὸς πεμφθεὶς
ὑπ’ αὐτοῦ
περὶ τὸν
Ἄραρα ποταμὸν
συνέτριψεν
(Contro i Tigurini non
marciò Cesare in persona, ma Labieno, che li sconfisse presso il
fiume Arar).
(23)
Appiano di Alessandria, Historia Romana, libro IV, De
rebus gallicis I:
Tοὺς
μὲν
Τιγυρίους
ὑποστράτηγος
αὐτοῦ Λαβιηνὸς
ἐνίκησε;
τοὺς δὲ
ἄλλους ὁ
Καῖσαρ καὶ
Τρικούρους
ἀμύνοντας
σφίσιν
(Labieno, luogotenente di
Cesare, sconfisse i Tigurini; Cesare sconfisse gli altri e i
Tricori che li aiutavano).
(24)
N. Alfieri, Labieno, Cingoli e l'inizio della guerra civile nel
49 a.C., in AA.VV., Cingoli dalle origini al sec. XVI.
Contributi e ricerche. cit., p. 112
(25)
Appiano di Alessandria, Historia Romana, libro XIV, De
bellis civilibus II, 62:
εἰ
μὴ Λαβιηνὸς
αὐτὸν, θεοῦ
παράγοντος,
ἐπὶ τοὺς
φεύγοντας
ἔπειθε
τραπῆναι
(Se
Labieno, consigliato (deviato, persuaso, ingannato) da una
divinità, non avesse proposto di inseguire i fuggitivi).
(26)
Plutarco, Caesar, XXXIX:
„Σήμερον
ἂν ἡ νίκη
παρὰ τοῖς
πολεμίοις
ἦν, εἰ τὸν
νικῶντα
εἶχον"
(27)
F. Münzer, Labienus in A. Pauli - G. Wissowa, Realencyclopädie
der Classischen Alterumswissenschaft, Stuttgart-München 1924,
p. 268
(28)
Cassio Dione, Historia Romana, XLIII, 2:
κἀν
τῇ Ἀφρικῇ
ὅ τε
Πετρέιος
καὶ ὁ
Λαβιῆνος
τηρήσαντες
τὸν Καίσαρα
πρὸς
κώμας
ἐπὶ
σῖτον
ἐξεληλυθότα,
(...) καὶ
συνταραχθείσης
πρὸς
τοῦτο
τῆς ἀσπίδος
πολλοὺς
μὲν αὐτῶν
ἐν χερσὶν
ἀπέκτειναν,
πάντας
δ' ἂν
καὶ τοὺς
λοιποὺς
ἀνειληθέντας
ἐπὶ
μετέωρόν
τι ἐξέκοψαν,
εἰ μὴ
ἰσχυρῶς
ἐτρώθησαν.
Ἐπὶ
πλεῖον
δ' οὖν
καὶ ὥς,
τούτου
συμβεβηκότος,
τὸν Καίσαρα
κατέπληξαν.
Λογιζόμενος
μὲν γὰρ
ὡς ὑπὸ
ὀλίγων
ἔπταισε,
προσδεχόμενος
δὲ καὶ
τὸν Σκιπίωνα
τόν τε
Ἰόβαν
πάσαις,
ὥσπερ
ἠγγέλλοντο,
ταῖς
δυνάμεσιν
εὐθὺς
ἀφίξεσθαι,
διηπόρει
καὶ οὐκ
εἶχεν
ὅ τι
πράξῃ
(In
Africa, Petreio e Labieno, stavano aspettando che Cesare uscisse
dal villaggio in cerca di grano (...) ci fu grande confusione tra le
fila, molti soldati furono uccisi in combattimento corpo a corpo.
E avrebbero ugualmente decimato tutti gli altri, che si erano
rifugiati su un colle, se anche loro stessi non fossero stati
duramente feriti. Tuttavia, questa azione allarmò molto Cesare.
Considerando come lui stesso era stato fermato da pochi e, come
gli era stato annunciato, attendendosi l'arrivo di Scipione e
Giuba con i rinforzi, era in difficoltà e non sapeva come agire).
(29)
Appiano di Alessandria, Historia Romana, libro XIV, De
bellis civilibus II, 95:
Ἀντεπῄεσαν δ' αὐτῷ Λαβιηνός τε καὶ Πετρήιος, οἱ τοῦ Σκιπίωνος ὑποστράτηγοι, καὶ ἐκράτουν τῶν Καίσαρος παρὰ πολὺ καὶ τραπέντας ἐδίωκον σοβαρῶς μετὰ καταφρονήσεως, μέχρι Λαβιηνὸν μὲν ὁ ἵππος ἐς τὴν γαστέρα πληγεὶς ἀπεσείσατο καὶ αὐτὸν οἱ παρασπισταὶ συνήρπαζον, ὁ δὲ Πετρήιος, ὡς ἀκριβῆ τοῦ στρατοῦ λαβὼν πεῖραν καὶ νικήσων, ὅτε βούλεται, διέλυε τὸ ἔργον ἐπειπὼν τοῖς ἀμφ' αὐτόν· « Μὴ ἀφελώμεθα τὴν νίκην τὸν αὐτοκράτορα ἡμῶν Σκιπίωνα» Καὶ τὸ μὲν ἄλλο μέρος τῆς Καίσαρος τύχης ἔργον ἐφαίνετο
(Labieno e Petreio,
legati di Scipione, condussero il contrattacco, superarono di gran
lunga le truppe di Cesare e inseguirono quelle che fuggivano con
arroganza e disprezzo, fino a quando il cavallo di Labieno,
colpito al ventre, lo disarcionò e i suoi compagni lo condussero
via; Petreio, avendo messo con successo alla prova l'esercito e
ritenendo di poter vincere in qualsiasi momento, fece interrompere
l'attacco e rivolgendosi ai suoi disse: non portiamo via la
vittoria al nostro comandante Scipione. E ciò sembrò essere
un'altra fortuna per Cesare).
(30)
"Battaglia di Munda", Wikipedia
(31)
Cassio Dione, Historia Romana, XLIII, 38:
ὅ
τε Βογούας
ἔξωθέ που
τῶν
συνεστηκότων
ὢν ἐπὶ τὸ
τοῦ
Πομπηίου
στρατόπεδον
ὥρμησε, καὶ ὁ
Λαβιῆνος ὡς
τοῦτο εἶδε,
τήν τε τάξιν
ἐξέλιπε καὶ
πρὸς
ἐκεῖνον
ἐτράπετο
(Bogud, che era da
qualche parte al di fuori della battaglia, partì per
l'accampamento di Pompeo, al che Labieno, avendo visto ciò,
abbandonò la sua postazione e procedé contro di lui).
(32)
Publio Annio Floro, Epitoma di Tito Livio, II, 13: nisi
quod cohortes hostium quinque per transversam aciem actae, quas
Labienus periclitantibus castris praesidio miserat, speciem fugae
praebuissent (Sennonché le cinque coorti dei nemici condotte
fuori dalla battaglia, che Labieno aveva mandato in aiuto agli
accampamenti che erano in pericolo, diedero tutta l'apparenza di
una fuga).
(33)
Appiano di Alessandria, Historia Romana, libro XIV, De
bellis civilibus II, 105:
Οὐάρου
δὲ καὶ Λαβιηνοῦ
καὶ ἑτέρων
ἀνδρῶν
ἐπιφανῶν
ἐκομίσθησαν
αἱ κεφαλαὶ
Καίσαρι
(furono
portate a Cesare le teste di Varo, di Labieno e di altri uomini
illustri).
(34)
Marco Velleio Patercolo, Historiae Romanae ad M. Vinicium libri
duo, 55: Labienum Varumque acies abstulit.
(35)
Appiano di Alessandria, Historia Romana, libro XIV, De
bellis civilibus II, 104: ὅτι
πολλάκις
μὲν
ἀγωνίσαιτο
περὶ νίκης,
νῦν δὲ καὶ
περὶ ψυχῆς.
(36)
Giulio Cesare, Bellum Gallicum, VIII, 52: "Pose a capo
della Gallia Togata T. Labieno, affinché per suo mezzo la regione
collaborasse maggiormente alla sua candidatura al consolato".
(37)
R. Syme, The Allegiance of Labienus, in "The Journal
of Roman Studies", XXVIII (1938), pp. 113-125, in A. Morello, Titus
Labienus et Cingulum - Quintus Labienus Parthicus, cit, p. 41
(38)
F. F. Abbott, Titus Labienus, in A. Morello, Titus
Labienus et Cingulum - Quintus Labienus Parthicus, cit., p. 18
(39)
F. Münzer, Labienus, cit., p. 266
(40)
R. Syme, The Allegiance of Labienus,
in A. Morello, Titus
Labienus et Cingulum - Quintus Labienus Parthicus,
cit., p. 41 nota 63
(41) T. R. S.
Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, vol. III -
Supplement, Scholars Press, Atlanta 1986: "He very probably had been praetor by 59"
web
(42)
R. Syme, The Allegiance of Labienus,
in A. Morello, Titus
Labienus et Cingulum - Quintus Labienus Parthicus,
cit., pp. 41-42
(43)
Cassio Dione, Historia Romana, XLI, 4:
Αἴτιον
δὲ, ὅτι
αὐτός
τε καὶ
πλοῦτον
καὶ δόξαν
περιβαλόμενος,
ὀγκηρότερον
τῆς ἡγεμονίας
διάγειν
ἤρξατο·
καὶ ὁ
Καῖσαρ
παρισούμενόν
οἱ αὐτὸν
ἰδὼν,
οὐκέθ'
ὁμοίως
ἠγάπα.
Τήν τε
οὖν μεταβολὴν
μὴ φέρων,
καὶ φοβηθεὶς
ἅμα μὴ
πάθῃ
τι,
μετέστη.
(44)
T. Mommsen, Storia di Roma, 1854-1856, edizione Gherargo
Casini Editore, 1988, vol. IV, pp. 384-385
(45)
W. Drumann - P. Groebe, Geschichte Roms, III, Leipzig I908,
p. 233, in N. Alfieri, Labieno, Cingoli e l'inizio della guerra
civile nel 49 a.C., cit., p. 117 nota 25: "Unter Cäsars
Legaten war keiner T. Labienus vergleichbar".
(46)
C. Hignett, The Cambridge Ancient History, ed. italiana di
"Il Saggiatore", Milano 1973, p. 730, in N. Alfieri, Labieno,
Cingoli e l'inizio della guerra civile nel 49 a.C., cit., p.
117 nota 25
(47)
F. E. Adcock, The Cambridge Ancient History, ed. italiana
di "Il Saggiatore", Milano 1973, p. 834, in N. Alfieri, Labieno,
Cingoli e l'inizio della guerra civile nel 49 a.C., cit., p.
117 nota 25
(48)
T. Mommsen, Storia di Roma, cit., pp. 384-385
(49)
S. La Sorsa, Cenni biografici su Tito Azio Labieno, in
"Rivista di storia antica", XII, 1908, pp. 96-100
(50)
E. Colini Baldeschi, Tito Labieno, cit., pp. 54-55, 57
(51)
F. F. Abbott, Titus Labienus,
in A. Morello, Titus
Labienus et Cingulum - Quintus Labienus Parthicus, cit.,
p. 18
(52)
V. Augusti, Tito Labieno nella guerra gallica e nella guerra
civile, Napoli 1938, pp. 54-59, in N. Alfieri, Labieno,
Cingoli e l'inizio della guerra civile nel 49 a.C., cit., p.
118
(53)
R. Syme, The Allegiance of Labienus, in
N. Alfieri, Labieno, Cingoli e l'inizio della guerra civile nel
49 a.C., cit., p. 119
(54)
M. Rambaud, L'art de la Déformation historique dans les
Commentaires de César, Parigi 1953, in N. Alfieri, Labieno, Cingoli e l'inizio della guerra civile nel
49 a.C., cit., p. 119
(55)
J. Harmand, L'armée et le soldat à Rome de 107 à 50 av.
notre ère, Parigi 1967, p. 383, in N. Alfieri, Labieno, Cingoli e l'inizio della guerra civile nel
49 a.C., cit., pp. 119-120
(56)
Wm. Blake Tyrrell, Labienus' departure from Caesar in January
49 B.C., in "Historia, Zeitschrift für alte Geschichte",
XXI (1972) pp.
424-440,
in N. Alfieri, Labieno, Cingoli e l'inizio della guerra civile nel
49 a.C., cit., p. 120
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