Scavi
in
San Vittore
Rapporto del
comendatore
Severino Conte
Servanzi-Collio
allo
Instituto
Archeologico in Roma
Tipografia
Alessandro Mancini - Macerata, 1863
Domandato dall' Instituto di
corrispondenza archeologica di Roma di notizie intorno gli scavi falli,
or sono venti anni, presso San Vittore di Cingoli, de' quali niuno de'
corrispondenti gli avea dato contezza, ebbi occasione di adunare le
particolarità che si contengono in questo mio scritto, e che dò in
luce per serbare memoria di quanto allora avvenne.
Nel mese di marzo dell'anno 1843 venni
avvisato, che presso la Badia di San Vittore di Cingoli erasi scoperto
un antico monumento. Dopo che seppi di questa scoperta (di cui sulle
prime dubitai essendo rimasta ignota anche a qualche erudito di quella
città) e poiché ebbi consultato qualche antico scrittore, che ci lasciò
memoria di quel luogo, vi accedetti personalmente nel mese di aprile
dello stesso anno.
Trovai in fatto, che erasi scoperta a non molta distanza
dall' antico tempio di San Vittore (cui è annesso anche l'edificio del
monastero) in contrada la fonte, un' iscrizione in pietra cornea con
lettere di bronzo, che mi dissero essere alte circa centimetri dodici,
di forma romana, tenacemente incastrate nella lapide. Il monumento
peraltro era già del tutto scomposto, e le lettere infrante per avidità,
direi quasi sagrilega, di guadagno meschinissimo. È superfluo
raccontare quante ricerche, diligenze e promesse da me si facessero per
avere anche una reliquia di quelle lettere; ma riuscirono vane, perché
forse a quei giorni erano state già condannate allo squaglio.
Mi fu riferito, che qualcuno o consapevole
della mal concepita idea di dare il guasto al monumento, o presente al
vandalismo, pensò di trarre copia della iscrizione, la quale da me
richiesta mi fu mostrata; ma o perché le lettere non fossero collocate
al posto loro, o mal lette, od in fine perché non fosse conservata la
distanza o la punteggiatura, la trovai tale da non poterne cavare un
sentimento. La portai meco; e dopo fatti i confronti con altre copie
procurate altrove, e dopo di avere interrogato alcuno che l’ aveva
osservata prima del guasto, si può con certezza asserire, che la
iscrizione è questa che trascrivo qui sotto:
C.
VDV. T. F. L. OCV. IV. M. F.
D.
V. C
RE. D. D. DEMQ.
E questa, secondo che mi
assicurava il signor marchese Filippo Raffaelli, solerte ricercatore, ed
illustratore d'ogni cosa patria, venne interpretata a premura di lui dal
dotto archeologo signor Avvocalo Gaetano De-Minicis cosi
CAIUS
UDUS TITI FILIUS LUCIUS OCUVIUS MARCI FIIIUS
DUO
VIRI CURAVERE DECRETO DECURIONUM IDEMQUE PROBARUNT
Essendo stato però distrutto il
monumento, o non essendo ancora venuto a luce per intero, ci resta il
desiderio di conoscere a quale opera si riferisca.
Vidi in quella gita, che per ogni dove erano
scoperti avanzi di
antiche fabbriche, e vetusti ruderi sopra una vasta estensione di
terreno in piano; frammenti di
pietre scorniciate ,
in alcune delle quali apparivano tracce di lettere, e di capitelli di marmo; alcuni tratti di
condotti, o di canali aventi diverse direzioni, formati con massi di
pietra bianca, nel piano de' quali ad ogni misurata
distanza era
incavato nelle pietre un piccolo catino con
l'intendimento di
raccogliere l'impurità delle acque, acciocchè giungessero
limpide e chiare alle terme. Questi condotti avevano le pareti, e la
copertura di pietra.
Vidi pure molte tegole quali intere,
e quali in pezzi, di cui alcune erano formate con costole nel mezzo per
separare le acque forse di qualità diverse; molti tratti di pavimento a
musaico composti di pietruzze ordinarie, e d' un solo colore; vari torsi
di colonne come di marmo, così di pietra, di moduli diversi, ed un gran
numero di rottami, e di utensili in creta colta finissima.
Vidi
ancora un pozzetto non molto profondo, il cui pavimento era di
mattoncini di creta simili per grandezza ai pani di cioccolate.
Due
basamenti a guisa di piedistalli di terra cotta non interi: in uno era
scolpito a basso rilievo un piede umano ignudo con porzione del collo
esattamente conformato: nell'altro due gambe con artigli appartenenti a
grosso volatile, come ad un aquila.
Una
tina benissimo conservata di terra cotta alta un metro, e centimetri
quarantatre, che aveva la circonferenza di metri tre e centimetri
ottantasei.
Entrato
in una delle case, che sono poco lungi da San Vittore, mi vennero
mostrate due teste muliebri, ben formate, grandi poco meno del vero, ed
un semibusto a guisa di sfinge: lavori in terra cotta abbastanza
conservati.
Due
vasi di creta cotta, ciascuno con un sol manico, della somiglianza e
della tenuta di un boccale, ma di forma elegante e di pasta finissima.
Avevano essi un intonaco così tenace tanto nella parte interna, quanto
nell' esterna, che non mi fu dato di scoprire, se in origine fossero
stati o lasciati grezzi, o verniciati semplicemente, o dipinti.
Sopra
un pilastro del cancello, che introduce alle case d'uso del padrone
della Badia, era posata una testa di marmo bianco più grande del vero,
priva di qualsiasi emblema da poterla riconoscere.
In
un muro era incastrato un braccio senza mano, nudo dal gomito sino al
polso, finissimo lavoro in marmo.
Dentro
la cantina dell' antico Monastero, la quale aveva lo stipite della porta
decorato di un bel architrave, e di pilastri antichi scanalati, aventi
basi e capitelli di buon intaglio, era infissa nel muro
a destra di chi v' entrava ,
una lastra di marmo, dove forse erano scolpite figure a basso rilievo, e dove era soltanto rimasto un putto.
Trovai
pure infissa nel muro la seguente iscrizione cristiana a carattere
romano di belle forme
INNOCEN..
QVI
VIXIT
M.
X. D. XXIII
PTB
. IND . III
Questa venne illustrala dal padre
abate Don Mauro Sarti nell'epistola De antiqua picentum civitate impressa
in Pesaro nel 1748, e fu ancora riportata dal Colucci nelle
Antichità picene, Vol. III.
In un muro
interno dei magazzeni vidi una
lastra di marmo
scorniciata, nel cui mezzo era scolpita a basso rilievo una figura umana
mancante di piedi, tutta avvolta in un panno, tranne il viso. Appoggiava
il braccio destro sulla fascia, che scendeva dalla testa, e le calava
sino al petto, e sembrava che stendesse il braccio sinistro, come per
additare una qualche cosa: ed in fatti a poca distanza vedevansi una
scimitara sguainata, ed il suo fodero incrociati fra loro. Sopra
l'impugnatura della scimitara era posato un' elmo. Dall' opposta parte
era scolpita, a quel che mi parve, una corazza. Il lavoro quantunque
eseguito in marmo finissimo è mediocre.
In una delle camere ad uso dei padroni vidi
una porzione di mosaico figurato, che mi sembrò finitissimo, ed una
pietra a guisa di quadrello, dove a piccoli caratteri romani era incisa
la seguente, che credo inedita
ERCVLI
COMPOTI
L.
MASVVIVS
BAV.
SVS
D
D
Mi furono poi mostrati da varie persone che
abitavano quei dintorni, gli oggetti qui appresso descritti
Un piccolo semibusto di bronzo con l'elmo
in capo, e con la lesta di Medusa nel petto sopra la corazza. Forse avea
servito di ornamento a qualche arnese.
Un ornamento di bronzo
esattamente lavorato a guisa di rosoncino, che aveva decoralo qualche
antico oggetto mobiliare, a quel modo che noi ci serviamo degli scuini o
delle borchie di Germania, ed io mi trovo possessore di quest'oggetto,
che mi venne venduto.
Una piccola pietra dura di color violaceo a
guisa di corniola, alta centimetri due, dove era incisa una figurina
nuda, la quale si reggeva sulle punte dei piedi; aveva il braccio alzato
sin sopra il capo e il sinistro disteso.
Sembrava un uomo in atteggiamento di trarre d’arco: non si
conosceva però che cosa avesse in mano, ne si distingueva ciò che
avesse confitto in terra avanti di se.
Un cammeo alto centimetri quattro, mancante
di un terzo nella parte superiore. Eravi scolpito il semibusto di un
giovane coronato. Eccone i colori. Il fondo ossia il piano del cammeo
era violaceo. Il nudo della persona ed un cerchio che l'attorniava
celeste chiaro. La veste accollata senza maniche, e cosi la corona di
foglie di lauro erano di un colore tendente all'oro. Feci acquisto anche
di questi due oggetti, e trovansi presso di me.
Un mezzo centinajo, e più ancora di
monete. Tranne poche, erano tutte di bronzo, e spettavano alla classe
delle imperiali. Oltre che nella massima parte, non avevano alcun
pregio, erano altre mollo mal conservate, ed altre interamente corrose.
Due potevano dirsi abbastanza mantenute; una monetina di Augusto, ed una
di bronzo di Setlimio Severo, le quali, come si sa, sono comuni. Tra le
poche di argento osservai due quinari romani della classe delle incerte,
ed un denaro della famiglia Lutazia, monete ancor queste frequenti, e
del solo valore metallico. Feci acquisto di quest' ultima, che era la
meglio conservata.
Mi raccontavano poi che, oltre a quelle da
me vedute, se ne era trovata dello stesso genere una copia immensa anche
presso le ossa e gli scheltri di cadaveri, i quali parte erano stati
rinvenuti coperti da pietre, e parte da tegole.
Narravano pure, che tra le tante tine
scavate in quel suolo erane venuta a luce una senza fondo, dove era
rimasto un uovo, il quale per la candidezza e per la conservazione
sembrava freschissimo; ma che toccato appena si ridusse in minutissimi
pezzi.
Seppi in questa occasione che da non molto
un tal signore D. R. S. aveva fatto acquisto di una moneta d'oro di
molto pregio, e che dal signore Giuseppe Casavecchia di Chiaravalle si
possedeva una statuina di bronzo,
bella quanto può
dirsi.
Il maraviglioso si è, che tutte le cose
fin qui narrate, e quant' altro era venuto sopra la terra da qualche secolo indietro possono
dirsi trovate
senza bisogno
di far scavi regolari.
Questi però si cominciarono a cura dei
signori Giuseppe Casavecchia,
e Francesco Barcaroli di Chiaravalle nell’inverno dell'anno 1845 al
1846; e da quanto potei raccogliere, il risultato sarebbe stato il
seguente.
Fu scoperto un lungo aquedotto
tortuoso che porta l'acqua a diversi luoghi, quali di forma quadrato, e
quali bislunga, quali piccoli e quali grandi, quali cinti da mura erte,
quali da sottili. Il condotto imbocca nel vicino fiume Musone, il quale
lambisce per lunga linea quella vasta tenuta.
Un vano con
pavimento a musaico.
Un pozzo quadro con collo rustico di ciottoli non però sgombrato
sino al fondo.
Un
vano grande e profondo metri due col pavimento battuto a pozzolana, che
stagnava perfettamente.
Altro
vano con pavimento che può dirsi a mezzo musaico.
Due
vasche con pavimento a stagno costituite da mattoncini in costa.
Altro
vano con pavimento simile al qui sopra descritto, ma con due piccoli
aquedotti.
Altro
che ha lo stesso pavimento con un solo aquedotto.
Altro
pozzetto pur quadro a deposito delle acque, profondo due metri e mezzo.
Un
largo tratto di pavimento a mosaico rappresentante animali acquatici con
canali di comunicazione a due altri vani contigui.
Una
vasca piuttosto grande con pavimento battuto a pozzolana, profondo metri
due.
Un vano con pavimento formato da tegole.
La disposizione degli accennati luoghi, la loro ampiezza, e la
loro distanza meglio si rileverà dalla pianta, che unisco, la quale è
munita della scala metrica di rapporto da uno a duecento.
Nè
deve sorprendere, che in antico esistessero quelle terme o bagni, mentre
Orazio Avicenna, che nel 1644 pubblicava per i tipi del Serafini in Jesi
le memorie della città di Cingoli afferma essere notizia antichissima
che quivi fosse un famosissimo bagno di acque salubri a molte
infermità a quali ( sic ) facevano ricorso da lontane parti d’
Italia molti infermi, ma di quelle acque non si ritrovano più nè le
vene, nè le orme di esse.
L'oggetto più
pregevole, che sia venuto sopra terra dal sito, di cui si parla, per
quanto è a mia notizia, fu un amatista chiarissima, che rappresenta la
testa di un Fauno, la quale nell'anno 1840 venne acquistata dall'erudito
Camillo Briganti Bellini patrizio di Osimo, che la pagò cento doppie
pari a lire italiane 1707, e cenlesimi 72. Direttomi a lui (e fu nel
Maggio del 1843) per avere l'illustrazione di questa preziosa gemma, mi
rispose che era un lavoro di Epitincano sopra un' amatista, dove era
espressa la testa di un Fauno; che nell' anno precedente aveva mandato
al signor Alessandro Cades in Roma disegno, gesso e zolfo, ed una
descrizione, perché venisse annunziata nel bullettino archeologico; che
gli fu scritto dal Cades non potersi pubblicare un monumento nuovo di
quel genere, se prima non fosse stata riconosciuta l'autenticità da
un'apposita commissione; e che però l'invitava a mandare la gemma a
Roma, od a portarla; al qual partito il Briganti Bellini non credette
attenersi, sembrandogli aver fatto abbastanza con l'invio del disegno,
gesso, zolfo e della descrizione; Mi conchiudeva, che trovandosi di aver
quasi compiuto il catalogo del suo monetiere intendeva di stampare un
indice sommario, e nell'appendice notare questa gemma che fu trovata in
S. Vittore, insieme ad altre pietre incise.
Il signor Marchese Raffaeli mi aggiungeva, che la
figurina era di giovane persona, con le orecchie di Satiro, con le
cornette nel mezzo della fronte, e con le nebride dei peducci annodati
avanti il petto; che il lavoro era corretto nel disegno, e morbidamente
incavato e finito in ogni sua parte.
Seppi
dall'encomiato signor Marchese che egli possedeva
Tre
teste di marmo più grandi del vero venute sopra terra nel 1747; la
prima creduta di Giove, la seconda di un imperatore, forse Vitellio o
Domiziano; la terza di un putto: queste due ultime le diceva ben
conservate, e non cosi la prima.
Frammenti
di antiche statue di marmo.
Il
busto di un putto denudato.
La
metà di un braccio.
Una
mano che stringe un' oggetto, che non si è potuto distinguere.
La testa di Cibele in bronzo.
Un
anello signatorio, o meglio sigillo, che si usava per fare
l'impronta nella creta, con cui si chiudevano le anfore, dopo empite di
vino, o di altro liquido. Questo sigillo porta il nome del padrone Lucio
Appio Paolino. Conosco l’illustrazione che ne fece il compianto conte
Bartolomeo Borghese a richiesta del detto signor Marchese, che
cortesemente mela comunicò; ma attenderemo che egli la renda di
pubblica ragione, quando illustrerà la chiesa, il monastero, e gli
altri luoghi di San Vittore, come annunziava nell'anno 1830 il canonico
D. Giuseppe Cappelletti nel volume VII delle Chiese d'Italia parlando
della Cingolana ed Osimana, non piacendomi di abusare dell'altrui bontà,
come alcuni sfacciatamente si permettono.
È da sperare, che si determini presto il
colto Marchese a tale pubblicazione, mentre così scioglierà la
promessa fatta dall' avo paterno di lui, il dottissimo Francesco Maria,
di dare una succinta storia della Badia di S. Vittore secondo che ci ha
lasciato scritto il padre Sarti sopracitato al Cap. XXXIV dell'indicata
lettera.
Si sentirà allora definita la questione
combattuta dai trapassati eruditi, quella cioè se nel suolo, ove esiste
la pervetusta chiesa di S. Vittore sorgesse l' antica città di Veregra
o Beregra; il che viene contrastato anche dall' Abbate Colucci nelle Antichità
Picene Vol. III pag. 381, e seg.
Questo indefesso raccoglitore di notizie
Marchiane negando l'esistenza di questa città nella regione pretuziana,
come vorrebbe il Cluverio, la pone tra Montefano, e Monte Filottrano.
Sembra certo però, che, se nè questa, nè
altra città fu in quel sito vi esistette però un florido castello, e
forse quello di Arcione; deducendosi ciò da varie circostanze che qui
non giova riferire, e specialmente da quella, che nelle antiche carte
nominandosi o la Chiesa o il Monastero di San Vittore, vi si dava
l’aggiunta del castello di Arcione. Sembra pure fuori di dubbio, che
su quella estesa pianura prossima al fiume Musone visse per secoli una
ricca popolazione riunita in società, dandoci di ciò certa
testimonianza gli avanzi di vasti edifici, i ruderi di torri, le terme
di romana costruzione, i musaici semplici e figurati, i rottami di
statue, di capitelli ed altri ornamenti architettonici, le iscrizioni
lapidarie nella maggior parte frammentate, le quali cose dovevano
decorare maestosi e pubblici edifici, e forse qualche anfiteatro. Oltre
a ciò altro argomento ci porge il numero non
piccolo di monete d' oro e d' argento, le statuine di bronzo e per sino
le rare gemme, e forse molti altri articoli, che per timore dei
rispettivi padroni, e dell' autorità governative, avranno rotto ,
squagliato , e trafugato quei, ch' ebbero la buona fortuna di trovarli.
L'accennato
orazio Avicenna nelle sopraddette memorie, ricordando le magnificenze
del castello di Arcione ci assicura, che si vedeva anche a suo tempo
vestigie di superbe e ben ampie antichissime e fortissime
mura.
Mi
piace di por fine a questa mia relazione con riportare le due seguenti
iscrizioni; la prima pubblicata dal P. Abate Sarti nel citato luogo
parlando di S. Vittore
COLLEGIO DEO
SACRVM
VSIDIVS NVM
L. D. D.
La seconda riferita dal Colucci, che è questa
DIS MANIB
MOSCHIDE
PRIMIGENIVS
CONTVBERNAL
HC CVSINIVS
CY. PHERVS
Il Sarti notava che dovevasi leggere non DEO, ma DEOR
deorum, perché dopo la O trovò il marmo rotto, e che la gente Tusidia
è notissima nel Piceno. Quella riferita dal Colucci è noverata dai
Cingolani tra le iscrizioni spettanti all'antico sito di S. Vittore,
della quale il colto signor Marchese Filippo Raffaelli ci darà contezza
e schiarimento.
Gli
oggetti sopraricordati che tornarono a veder la luce dal sito, di cui si
è parlato, appartengono senza dubbio ai tempi gentileschi; onde se si
facessero investigazioni nell'interno dei muri della chiesa e del
monastero annesso, potrebbero presentarsi tracce di qualche tempio
profano. E forse più probabilmente questa ricerca potrebbe sortire il
bramato effetto scavando all'intorno delle accennate mura, ove sia vero
ciò che si legge nella iscrizione ivi infissa, che cioè nel 1488 dal
canonico Leopardi commendatario di quella pervetusta Abbadia si fosse
trovato quel Tempio uguagliato al suolo, e perciò da lui rifabbricato.
Questo è quanto io ho raccolto
rapporto agli scavi di San Vittore in Arcione, luogo distante quattro o
cinque miglia da Cingoli presso al fiume Musone tra levante e
tramontana; e la comunicazione che ne dò varrà almeno a dimostrare la
buona volontà, che ho sempre nutrita di serbare memoria d’ogni
anticaglia, anche di minore importanza, e massimamente se si riferisce a
cose patrie, o delle cotermini provincie.
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