Nonostante
il notevole progresso scientifico già fatto in precedenza dal
pensiero greco, il cristianesimo, pur essendosi diffuso fin dalle
origini in ambiente greco-orientale, continuò a rimanere fedele
alle ingenue concezioni mitiche dell'Antico Testamento, rifiutando
con orrore tutto ciò che non si poteva conciliare con esso. In
tal modo la teologia cristiana diede una mano ai barbari che
riportarono il mondo greco-romano indietro di migliaia di anni.
Ai
tempi di Gesù, l'astronomia e la cosmologia degli Ebrei erano
sostanzialmente quelle dei loro antenati aramei, vissuti come
pastori nomadi nel sud della Mesopotamia, con successive influenze
dei Cananei, dopo che verso la metà del 2° millennio a.C. si
trasferirono nel loro paese, e degli Egiziani che dominavano
culturalmente quella regione, poi di nuovo della Mesopotamia,
durante la cattività babilonese, subito dopo dei Persiani, e
infine degli Ellenici, dopo la conquista di Alessandro
Magno.
Dai
testi biblici si ricava la conformazione e il carattere religioso
del mondo celeste ebraico, frutto di tante successive
contaminazioni. Il Cielo è per gli Ebrei, e quindi per i
cristiani, la parte più eccelsa dell'universo, al di là dello
spazio, sede della divinità. Esso è puro splendore, e la parola
Luce ricorre spesso nell'Antico e nel Nuovo Testamento per
indicare Dio e la sua dimora. Il profeta Ezechiele, vissuto nella
deportazione a Babilonia, scrive di aver visto in estasi il Cielo
come un immenso fuoco ardente (perciò i cristiani lo chiameranno
Empireo, dal greco empyreos, infuocato) al cui centro era
il trono di Dio sorretto da quattro Esseri che, come gli dei
astrali babilonesi, avevano aspetto di animali, fomiti di ali e di
mani d'uomo. Di qui l'idea dei cherubini, plurale di karub,
dall'arcadico karubu, protettore, raffigurati sull'Arca
dell'alleanza, a cui la mitologia cristiana si ispirerà per
simboleggiare i quattro evangelisti. Sarà San Paolo il primo a
rendere accessibile il cielo agli uomini (i giusti, i buoni) non
solo in estasi, ma materialmente, rivestiti di corpo pneumatico,
dopo la morte. Pertanto l'espressione "il regno dei
Cieli", che per gli Ebrei significava "il regno di
Dio", il suo dominio su tutto l'universo, diverrà per i
cristiani un "regno nei cieli".
Il
cielo stellato, visibile agli uomini, nell'astronomia
ebraico-cristiana si trova molto al di sotto della sede di Dio, e
non è uno spazio infinito ma - come appare ad occhio nudo - una
volta solida (in ebraico raqià) dello spessore di pochi
pollici, che Ezechiele definisce una superficie di ghiaccio. Nella
traduzione latina il vocabolo raqià verrà reso con firmamentum,
ossia "sostegno", poiché esso sostiene la grande massa
delle "acque superiori".
Dunque,
tra il cielo di fuoco e il firmamento ghiacciato si trova "il
ricettacolo della pioggia e della grandine" Giobbe (38, 22)
che Dio ha diviso, nella creazione, dalle acque inferiori (Genesi
1,6-7), cioè dai mari, che a loro volta formano i fiumi. Ancora
San Tommaso, nel XIII secolo, crederà che i fiumi nascano dal
mare. Il firmamento è sostenuto da quattro montagne e ha delle
aperture (cateratte) per l'uscita della pioggia e della grandine,
con saracinesche manovrate dalla mano di Dio. Sotto di esso, a
livello dei monti, vi sono i serbatoi dei quattro venti (Geremia
10,13; Daniele 8,8) anch'essi regolati da Dio.
Al
firmamento sono appesi, come lampade, i corpi celesti, tutti alla
medesima distanza dalla Terra, che secondo la Mishnà
(tradizione orale codificata nel I secolo d.C.) equivale ad un
viaggio di 500 anni, e la maggior o minore luminosità degli astri
dipende solo dalla loro differente grandezza.
Già
altri popoli conoscevano bene le costellazioni, mentre gli Ebrei
avevano al proposito nozioni piuttosto vaghe. La
"milizia" dei cieli (tsebà) era per essi
misteriosa (Salmi 147,4), sebbene, almeno fino ai tempi del re
Giosia (640-609 a.C.), a quanto attestano numerosi passi della
Bibbia, gli Ebrei avessero continuato a praticare il culto degli
astri e alcuni re di Giuda, dopo la separazione da Israele,
avessero ufficialmente eretto loro altari. Un cenno alla
venerazione di Saturno è anche nell'opera cristiana Atti degli
apostoli (7,43) e il nome di quell'antico dio (in ebraico Shabbataj)
ha lasciato un ricordo nel nome e nella solennità del Sabato,
rispettata persino da Jahve, cessando il lavoro dopo i sei giorni
della creazione.
Delle
costellazioni sono nominate soltanto, nei libri di Amos e di
Giobbe, il Kimal, il Kesil, che probabilmente
corrispondono alle Pleiadi e a Orione, molto note agli antichi
poiché la loro apparizione segnava l'inizio o la fine della
stagione delle piogge. Giobbe cita anche l'ash, che la
versione greca dei Settanta traduce con Espero, la Vulgata
latina con Arcturum, e più esattamente quella italiana con
Orsa, dato che l'identica parola ash anche in arabo
significa Orsa.
Gli
Ebrei non facevano distinzione tra stelle e pianeti, ma di questi
solo tre sono citati nell'Antico Testamento: Saturno, che
gli Atti degli apostoli chiamano col nome persiano Kaivan
o Refan; più frequentemente è nominata la Luna,
e una o due volte Helel, "il dio dell'aurora" (lsaia
14,12) l'egiziana "stella del mattino" ossia Venere,
che però è tutt'altra cosa dalla Venere del tramonto, e che dai
Romani era detta Lucifero (portatore di luce), poi identificato
dai Padri della Chiesa con Satana, l'angelo (o Dio?) cacciato da
Jahve. Ma l'astro per eccellenza era naturalmente il Sole, creato
da Dio dopo la luce, unitamente alla Luna, nel quarto giorno della
creazione (Genesi 1,14) e che Dio a propria volontà poteva anche
fermare nel suo cammino, come infatti avvenne, pregato da Giosué,
onde permettergli di continuare la strage degli Amorriti
(Giosué 10,12-13). Essendo la Terra immaginata un disco
piatto, anche gli Ebrei come gli altri popoli antichi risolvevano
il problema del tramonto del Sole pensando che di notte
attraversasse gli abissi sotterranei (Salmi 19,6-7).
Solo
dopo il 538 a.C. si conobbe lo Zodiaco, costruito per la prima
volta in quell'anno dai Babilonesi. Prima di allora i Babilonesi
stessi fissavano le stazioni solari in corrispondenza di 36 stelle
o costellazioni, divise in gruppi di tre per ciascun mese. I
simboli degli asterismi del nuovo Zodiaco corrispondevano a quelli
attuali, eccetto il Capricorno, che era detto Cinghiale, e la
Vergine, chiamata Spiga (nome rimasto ancora oggi alla sua stella
α) rappresentata come una fanciulla con due spighe in mano.
La tradizione mesopotamica è ben visibile in un mosaico della
sinagoga di Bethalpha (immagine a lato): in esso le spighe della Vergine sono
sintetizzate in due elementi decorativi ai fianchi della figura,
mentre ritorneranno esplicite nelle raffigurazioni cristiane,
diventando infine attributi della Madonna. Prima
di conoscere le stazioni zodiacali del Sole, gli Ebrei ne
dividevano il corso annuale soltanto nei quattro momenti degli
equinozi e dei solstizi, e anche a questi attribuivano significati
religiosi.
Per questo, Gesù Cristo verrà fatto nascere il 25
dicembre, quando il Sole, cessando il solstizio, ha ripreso il suo
cammino ascendente. Comunque
il culto ebraico per i due solstizi è rimasto nel cattolicesimo:
il solstizio d'inverno corrisponde alla nascita di San Giovanni
evangelista, quello d'estate, in cui il Sole ricomincia a
discendere, è invece la natività di Giovanni Battista. Infatti
nel Vangelo si fa dire al Battista: "Bisogna che Egli cresca
e che io diminuisca" (Gio.3,30).
Secondo
la rivoluzione diurna del Sole, gli Ebrei derivavano i punti
cardinali: mizrach, il levante; jam, il mare, e
quindi l'occidente; tsafon, le tenebre, il nord; darom,
la zona illuminata, il sud (Genesi 13,14). Ma per la
sacralità che aveva l'Oriente nel culto del Sole, a cui sempre si
rivolgevano nella preghiera sia gli Ebrei che i primi cristiani,
l'Est era il punto cardinale di riferimento, era il qedem,
il davanti, e di conseguenza l'Ovest era l’achor, il di
dietro, il Nord era semol, a sinistra, e il Sud theman,
a destra.
Gli
astronomi babilonesi già sapevano prevedere le eclissi, quali
effetto di cause naturali, mentre gli Ebrei le accoglievano ogni
volta come una novità, e con spavento, in quanto segni dell'ira
divina, e i profeti approfittavano di questa superstizione per
annunciare terribili oscuramenti futuri del Sole e della Luna,
allorché Dio avrebbe deciso di porre fine all'umanità per i suoi
peccati. L'interpretazione apocalittica delle eclissi sarà
accolta anche dagli evangelisti, per immaginare un'eclissi totale
al momento della morte di Gesù, e di nuovo, naturalmente, alla
fine del mondo.
La
cometa, invece, era ritenuta di buon augurio. In Genesi (15, 17)
una di esse ("una fornace ardente e un cerchio di
fuoco") suggellava il patto tra Jahve ed Abramo, e in Matteo
(2,1-12) è una cometa - prevista da "magi" babilonesi o
persiani - ad annunciare la nascita di Gesù Cristo. Ma Keplero
nel dicembre 1603 osservando una congiunzione di Mercurio, Giove e
Saturno calcolerà che probabilmente la cometa del Natale era
stata in realtà una congiunzione di Giove e Saturno nella
costellazione dei Pesci, visibile nell'area mediterranea a partire
dal 4 dicembre del 7 a.C.
Per
diversi secoli i Padri della Chiesa difenderanno con accanimento
le idee astronomiche dell'Antico Testamento, condannando come
false ed eretiche tutte le altre ipotesi. Per essi, la Terra è un
disco piatto, immobile al centro dell'Universo, formato dai
quattro elementi (terra, aria, acqua e fuoco); il firmamento o
ciclo sidereo una cupa solida e fredda come ghiaccio, perciò
detta anche ciclo cristallino, dal greco krystallos,
ghiaccio; sul firmamento le acque sopracelesti; sopra di queste
l'empireo, tutto luce, fuoco e calore.
Le
spiegazioni diverse vengono confutate con argomentazioni a volte
stupefacenti per la loro ingenuità. "Come si può credere ai
filosofi greci — scrive Lattanzio (250-325) — che immaginano
il cielo rotondo e la Terra simile a una sfera, con antipodi in
cui pure si innalzano monti e si distendono pianure e mari? Come
potrebbero gli uomini camminare con la testa all'ingiù?"
Basilio (329-379) nelle sue Omelie sostiene che la acque superiori
sono state create da Dio per mantenere fresco il cielo sidereo e
anche la Terra, e impedire che siano arsi dal fuoco dell'empireo.
Severiano, vescovo di Cabala (+ 408), condivide il parere di
Basilio e aggiunge che per questo motivo le acque sono ghiacciate.
Sant'Agostino (354-430) ha qualche dubbio in proposito, ma lo
risolve disinvoltamente: "Dicono taluni che l'acqua per sua
natura non può stare sopra il cielo, ma data l'onnipotenza di Dio
è necessario credere che ciò avvenga. Se Dio volesse che l'olio
restasse sotto l'acqua, ciò avverrebbe" (De Genesi)
"Le acque, dunque, si trovano sopra il nostro cielo, così
come la pituita, che i Greci chiamano flegma, si trova sulla testa
dell'uomo" (De Civitate Dei XI,34).
Un
altro problema che preoccupa Sant'Agostino è la forma del
firmamento: "Il passo delle Scritture, 'Tu stendi i cieli
come una tenda', può concordare con l'opinione di coloro che
danno al cielo una forma di sfera? La Scrittura dice anche che il
firmamento è sospeso come una volta; ora, se si può dire che una
volta è tale non solo quando è curva ma anche quando è piana,
così anche una tenda può essere curva o piana o rotonda. Infatti
anche l'utero e la vescica sono in un certo qual modo una
tenda" (De Genesi).
Oltre
un secolo dopo, il monaco egiziano Cosma nella sua Topographia
christiana dà questo quadro dell'Universo: la forma
dell'Universo può essere capita solo esaminando il disegno del
tabernacolo che Mosé costruì nel deserto: l'interno (intra
velum) è l'immagine delle cose celesti; la cortina equivale
al firmamento; la tavola della presentazione dei pani rappresenta
la Terra, la quale è pertanto piana e rettangolare; le pareti del
firmamento sono quattro piani perpendicolari che poggiano sulla
Terra al di là dell'Oceano, e il loro tetto, cioè il firmamento
è semicilindrico; in esso il Sole, la Luna e le stelle sono
trasportate da angeli; a nord c'è un'immensa montagna conica che
sale dalla Terra al Cielo, e dietro di essa il Sole trascorre la
notte. Fino al secolo XIII l'autorità delle Sacre Scritture è
ancora così impegnativa, che anche persone di grande ingegno, pur
accettando, attraverso la mediazione degli Arabi, l'astronomia
aristotelica (sette sfere concentriche, distinte per il Sole, la
Luna e ciascuno dei cinque pianeti fin allora conosciuti; un
ottavo cielo di stelle fisse) non riescono a liberarsi dal
problema delle "acque superiori" e non possono fare a
meno di aggiungere un nono cielo, l'Empireo, sede di "Dio, o
Primo mobile, secondo la concezione tolemaica.
Abelardo
(1079-1142), ardimentoso sostenitore del razionalismo ("Ho
imparato dai maestri arabi a farmi guidare soltanto dalla
ragione") fino al punto di essere perseguitato e condannato
come eretico, si domanda come possa l'aria sostenere le acque
superiori che sono più pesanti, e conclude che senza dubbio
debbono essere molto fluide. Più perentoriamente Bartolomeo
Anglico a metà del secolo XIII dirà: l'ottavo cielo è formato
dalle acque poste da Dio sopra il firmamento, il quale è detto
cristallino, non perché sia duro come il cristallo, ma perché è
luminoso e trasparente, è detto anche acqueo, perché è fluido e
sottile.
Intanto
si fa strada tra gli autori cristiani un curioso simbolismo per
rappresentare l'Universo. L'uovo, che già nel culto di Dioniso
era un simbolo solare: il tuorlo (Sole), l'albume (l'etere in cui
esso si muove), il guscio (l'eclittica), e come tale è passato
nell'usanza cristiana delle uova pasquali, venne allora assunto
anche come modello dell'Universo. Secondo Abelardo, e poi
Guglielmo di Conches (a metà del secolo XII), la Terra è il
tuorlo, l'Oceano intorno è l'albume, l'aria è la pellicola
dell'uovo, e la sfera del fuoco è il guscio. Onorio di Autun,
contemporaneo di Guglielmo di Conches, dice invece nel suo De
imagine mundi: il cielo è il guscio, l'etere è l'albume,
l'aria è il tuorlo, la Terra e la goccia di grasso che si trova
nel tuorlo. Sono anche interessanti alcune etimologie dello stesso
Onorio: il cielo si chiama così perché assomiglia a un
recipiente celato, cioè coperto di stelle; le costellazioni
derivano il loro nome latino sidera dalla considerazione in
cui sono tenute dai naviganti e dai viaggiatori.
Scheda
autore
Marcello
Craveri. È residente a Torino, si occupa da
anni di storia delle religioni come fenomeno
antropologico-sociale. Egli è già noto sin dal
1966 per una Vita di Gesù, esame delle
esigenze vitali di una comunità religiosa che ha
creato il mito del figlio di Dio, opera edita da
Feltrinelli e più volte ristampata, del cui
successo testimoniano le numerose traduzioni per
l'estero. Ha poi curato un'edizione critica dei Vangeli
apocrifi (Einaudi 1969) e di recente ha
pubblicato uno stimolante confronto tra Sante e
streghe (Feltrinelli 1980) e un Gesù dì
Nazareth dal mito alla storia (Lionello Giordano
1982) in cui espone le cause di successivi
rimaneggiamenti di un mito religioso. Attualmente
collabora a varie riviste ed ha in preparazione una Storia
delle eresie. |
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Sommario |
Il
terrapieno di Veronella |
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