Filosofo, erudito.
Cingoli 10/11/1695 - Cingoli 22/7/1774
Giambattista Bertucci nacque a
Cingoli da
Girolamo Bertucci e dalla nobile Giulia Lupi di Ancona. Come
risulta dal libro delle Riformanze, a soli 24 anni fu nominato
Gonfaloniere di Cingoli. Da
Papa Clemente XIV fu investito del titolo comitale della
Castellania di Montefano Vecchio.
Ricevette una prima educazione a
Cingoli e poi
ad Ancona, sotto la guida di un avo materno, si dedicò allo
studio delle lettere e della poesia. Presso l'ateneo di Ancona
si laureò in filosofia e successivamente studiò teologia a Fermo
con il maestro Silotti, matematica e medicina con il
dott. Biagio Galiani.
"Tornato in Cingoli, proseguì senza requie sino all'ultima vecchiezza i suoi amati studj,
cui per meglio attendere, uso ira di passare buona parte
dell'anno nella solitudine d' una villa. Ivi egli richiamò ad
esame le teorie de' più celebri filosofi, ed ivi scrisse la
maggior parte delle sue Opere, frutto ben degno delle più serie
e profonde meditazioni"
(F. Vecchiatti – T.
Moro, Bertucci Giambattista, in Biblioteca picena o sia
notizie istoriche delle opere e degli scrittori piceni, pp.
228-229).
Fece parte di svariate accademie:
fu capo della Insegne Accademia degli Incolti di Cingoli e presidente perpetuo dell'Accademia
delle Scienze e delle Erudizioni di Cingoli. Conosciuto con lo pseudonimo di Inalbo Eumenidio
fu anche un componente dell'Accademia
dell'Arcadia.
"Era picciolo di persona, e di
temperamento assai gracile, e dilicato. Fu pieno di cortesia, e
d'ingenuità. Ebbe una sincera pietà, e un sommo rispetto ed
attaccamento per la Cattolica Religione. Fu modestissimo, e
alieno d'ogni fasto, e sentiva così bassamente di sè stesso, che
nulla più. Aveva forse poca comunicativa nel parlare, ma ne'
suoi scritti all'incontro ammiravasi una straordinaria chiarezza
e facilità di spiegar le cose eziandio pù oscure, e difficili,
congiunta ad una singolare cultura, ed eleganza di stile, lode,
che ha riscosso di chiunque ha seco carteggiato, o lette le sue
opere" (Antologia Romana,
Tomo Terzo, presso Gregoio Settari Librajo Al Corso, Roma 1777,
p. 88).
Strinse infatti rapporti epistolari e di
amicizia con
numerosi eruditi e studiosi della sua generazione come Vallisnieri, Muratori, Poleni, Manfredi, Zendrini, Fagnani,
Agnesi ed il conte Giuseppe Lavini di San Severino Marche.
L'amicizia che legava il Bertucci al Lavini è attestata anche
dalla lode che quest'ultimo espresse nei confronti del cingolano
in un passo della sua opera del Paradiso Riacquistato:
"Già varcati ho di Cingoli i frondosi Monti, e rividdi il mio
Bertucci, il grande Ornamento, e splendor del secol nostro, Che
di tutti i filosofi più degni Col sublime pensar agguaglia il
merto"
(G. Lavini, Del paradiso
riacquistato del conte Giuseppe Laviny patrizio romano, e della
città di San Severino).
Nel 1736 intraprese un viaggio che lo portò a visitare
le città di Bologna, Padova, Venezia e Milano "per esplorare ne'
frequenti congressi l' autorevole sentimento di que' valentuomini. N'ebbe però il
vantaggio di ricredersi talora, com' egli solea dire, di varie
sue opinioni, e di meglio sistemar le altre, che incontrarono
quindi l'approvazione de' suoi dotti amici"
(F. Vecchiatti – T.
Moro, Bertucci Giambattista, in Biblioteca picena o sia
notizie istoriche delle opere e degli scrittori piceni, p. 229).
Il carteggio che Bertucci ebbe con
Antonio Vallisnieri riguardava la nascita dell'uomo; Vallisnieri
aveva infatti pubblicato nel 1721 l'Istoria riguardo alla
generazione dell'uomo in cui, dopo aver confutata l'opinione di
alcuni studiosi sui "vermicelli spermatici", sosteneva l'origine
della preesistenza dell'uovo nella femmina. Bertucci volle
precisare l'idea del Vallisnieri e sostenne con nuove teorie la
dipendenza della generazione anche dai "vermicelli spermatici".
Compose anche un trattato sulla
vita della Terra e delle Stelle, il
De Telluris ac Syderum Vita, al fine di sciogliere i
dubbi e le difficoltà che non erano state toccate dal
Vallisnieri nella sua opera Origine dei Crustacei e d'altri
corpi marini. Il saggio di Bertucci affrontava lo stato della Terra prima e dopo il diluvio
universale per scoprire la natura e le proprietà dei corpi celesti.
Sull'origine, ad esempio, delle macchie solari condivideva la spiegazione di
altri eruditi del tempo; secondo lui non sarebbero altro che
nuvole di fumo e cenere prodotte dai vulcani presenti sulla
superficie solare. "Il soprannominato
Sig. Giambattista Bertucci nel suo Libro inedito ancora, e letto
da me nell'Originale suo manuscritto De Telluris, ac
Syderum Vita, dove tratta della natura de' Corpi celesti,
dice, esser cosa molto probabile, che le sovradette macchie
siano congerie di densi, e neri fumi, ed anche di ceneri, e di
somiglianti altre materie gettate in alto dalli spessi, e grandi
Monti Vulcani, che sono nello stesso Sole, e da' quali â
creduto, che possa derivare tutta la luce, ed il calore, che in
esso si scorge" (G. Lavini, Rime
filosofiche del conte Giuseppe Lavini patrizio romano, e della
citta' di S. Severino, colle sue annotazioni alle medesime, p. 74).
Come altri eruditi del suo tempo,
anche Bertucci credeva all'esistenza di un'atmosfera che
circondava il Sole e le stelle e ipotizzava che tale atmosfera fosse
all'origine della luce solare: "Benchè paja, che il Sole, e le
Stelle fisse, essendo corpi celesti, che per se stessi
risplendono, siano molto diversi dai Pianeti, e dalla Terra,
contuttociò, poichè questa diversità non è tanto grande, quanto
comunemente si crede, come dimostreremo in appresso, a me pare,
che ciò non debba togliere, che secondo la legge della
uniformità della Natura abbiano anch'essi, oltre i vapori, e le
esalazioni, la loro aria propria. E tanto è lungi, che
quell'Aria debba impedire la propagazione della luce, che anzi
stimerei probabil cose, che appunto la detta Aria fosse il
soggetto medesimo della luce, e che questa non consistette, che
in un tremore sottilissimo propagato per le particelle dell'Aria
del Sole, e delle Stelle fisse, nella guisa, che il suono è un
tremore propagato per le particelle dell'Aria della Terra..." (G. Lavini, Rime
filosofiche del conte Giuseppe Lavini patrizio romano, e della
citta' di S. Severino, colle sue annotazioni alle medesime,
p. 86 e segg).
Tra le numerose opere che scrisse
si ricordano anche i due trattati Elementa geometriae naturalis
e De philosophiae elementis in geometriam redigendis et de
elementis in geometriae in philosophiam redigendis sul
rapporto tra geometria e filosofia.
Oltre ad opere di carattere
scientifico e filosofico scrisse anche sonetti, rime e prose,
alcune pubblicate nel 1717 nel settimo tomo delle Rime degli
Arcadi.
Morì a Cingoli il 22 luglio del 1774; molti suoi
manoscritti passarono nelle mani del suo amico Pietro Paolo
Compagnoni Floriani per essere pubblicati; ma successivamente, a
causa della morte del Compagnoni, tornarono agli
eredi del Bertucci.
"Fu uno di quei felici geni che
sanno tutto apprendere da loro (studi), ma gli sarebbe
abbisognato un ambiente più vasto o meglio un ambiente
universitario per valorizzare il suo talento. Infatti non potè
mai indursi, finchè visse, a pubblicare alcune delle sue opere
ad onta delle insistenze che ebbe da molti scienziati, colpa di
quella soverchia moderazione d'animo che non seppe mai vincere e
che, per naturale disposizione, non lo lasciava mai soddisfatto"
(G. Testi, Un
ignorato scienziato corrispondente del Vallisnieri: il conte G.
B. Bertucci di Cingoli, p. 414).
|
Stemma della famiglia Bertucci, da Stemmi delle
famiglie nobili cingolane già costituenti il
primario ordine dei gonfalonieri (1533-1861), di
Cesare E. Bernardi |
Opere elencate in
Antologia Romana
(pp. 93-94)
Versi
I. Davidias, poema eroico
sulla vittoria di Davide contro il Gigante Golia, di cui compose
i tre primi libri in età di anni 15 in circa.
II. Filatelia, o sia Poema
Filosofico in verso sciolto sul metodo di cercare, e rinvenire
la verità.
III. Rime divise in sacre, morali,
e varie.
Prose
I. Sopra la natura della Poesia, e
Rettorica spiegate con principi diversi da Aristotele.
II. Varie Orazioni Accademiche:
dell'amor divino, e suoi effetti in riguardo alle Creature
ne'tre ordini di natura, di grazia, e di gloria; sulla Natività
G.C.
III. Sopra le piante marine, e la
fecondità, e simiglianza della Terra coperta dall'acqua con
quella esposta all'aria, aggiunto un curioso pensiero, come si
potrebbero allevar gli uomini, acciocchè fossero capaci di
potere vivere, e stare per se medesimi sott'acqua, e in tal
guisa ricercare, coltivare, e abitare l'altra metà di mondo
nascosta dalle acque.
IV. Nuovi sperimenti per
illustrare la Filosofia naturale, e specialmente per vedere con
distinzioni i fumi, i vapori, e l'esalazioni, al che non
vagliano le lenti. Altri sull'accensione, e putrefazione de'
metalli per se soli e specialmente del Ferro col modo di
scioglierli con acqua pura.
V. Carteggio col Signore Antonio
Vallisnieri intorno al nuovo sistema sopra la dipendenza della
generazione da' vermicelli spermatici.
VI. Della Vita della Terra, e
delle Stelle, o sia nuovo sistema per poter naturalmente
risolvere le difficoltà lasciate indecise dal Vallisnieri circa
lo stato del Mondo avanti il diluvio, nel diluvio, e dopo il
diluvio.
VII. Volume di lettere concernenti
le proposte dell'Autore a vari Letterati d'Italia colle loro
risposte sul precedente sistema.
VIII. Dissertazioni sull'atmosfera
della Terra etc., della luce solare etc., de' Giganti etc. sopra
la vita degli uomini de' primi tempi, confutando la forte
opinione, che gli anni, i mesi, ed i giorni d'allora potessero
essere proporzionatamente inferiori.
IX. Prelezioni alla dissertazione
del Signor Simonelli sulla solidità, e durezza de' Corpi.
X. Del corpo umano, che si prova
essere una picciola Terra con moltissimi corpi organici a lui
propri di tutti i tre generi animale, vegetale, e minerale, dal
che spiegasi l'origine, e la natura di una gran parte de' morbi.
XI. Della natura e formazione
dell'orina, bile, sudore non volendosi, che siano per se stessi
confusi, e presistenti nel sangue.
XII. Della prima struttura delle
Fibre, e dell'origine de' moti del corpo umano, rigettati gli
spiriti animali.
XIII. Della medicina Statica del
Celebre Santorio, trattato ove si prova, che anche senza giunta,
e perdita di materia ha il corpo umano una continua, e periodica
mutazione di peso specifico in tempi determinati.
XIV. Sopra il calcolo integrale
per via delle seconde, terze differenze le serie infinite di
proporzione non costante fra loro, e la natura delle linee
curve: la quadratura del circolo e delle Iperbole opera
intrapresa da giovane col motto apposto in magnis tentasse
sat est la qual'opera lasciò sigillata al Segretario della
Colonia Cingolana.
XV. Adnotationes ad
perficiendam Quadraturam geometricam Circuli & Hyperboles.
XVI. Adnotationes aliquot circa
motum corporum caelestium.
XVII. Elementa Geometriae
Naturalis, ove si procura di ridurre la Filosofia a pura
Geometria; Così nell'altro trattato De Philosophiae elementis
in Geometriam redigendis Comentarium Così pure in una
epistola latina al chiarissimo Vallisnieri, e in altra italiana
indirizzata al suo Fratello Monaco Olivetano.
Excerpta Hermetica & c.
Miscellanea & c. e molti altri scritti di Filologia, di
Critica, di medicina, di matematica, e di Teologia, che sarebbe
lungo di annoverare.
Rime di Inalbo Eumenidio (G. Bertucci), in
Rime
degli Arcadi
(pp. 239-248)
Come vago Augellino,
allorche rende
L’Aurora al Cielo il bel porpureo ammanto,
In dolce suon l’aura raccoglie; e intanto
Si desta all’opre, e’l volo in alto estende;
Così quando alla mente un vivo splende
Raggio divin; come ei m’ispira, io canto,
E l’alma a i primi ufficj, e al dolce canto
Libera riede, e sovra il frale ascende.
Perocch’avvezza all’armonia del Polo
Si rammenta per lei l’antico stato
E sforza i lacci, e scioglie in alto il volo:
Ma privo di quel lume; abbandonato
Senza cura, e senz’arte io resto, e solo
Mando poi nel cantar sì roco il fiato. |
Vide sue forze, e ben
conobbe il core,
Che per congiura sol vinto cedea,
E mentre d’ira, e di vergogna ardea,
Cercò per tutta l’alma il traditore;
Il Pensier fu accusato: ei dell’errore
Nò disse, non son’io, la vista è rea;
Che senza lei commercio io non avea
Co’ vani oggetti, onde destossi Amore.
Quella rispose: io sol di fuori a sorte
Con essi sto; tu, che a tua voglia pensi,
Perchè mi segui, ed apri lor le porte?
E’ ver, gridò la mente, a lui conviensi,
Non a te il freno, onde farò, ch’ei forte
Segua sol la ragion, nè curi i sensi.
|
Pria, che il fatale
ultimo dì la spoglie
Della sua natural corporea veste,
A poco a poco l’alma mia si veste
D’altra, cui tempo, o morte ria non toglie;
E l’opre sue son l’immortali spoglie
O buone, o ree, che dal costume inteste
Le son tutor, siccome o a quelle, o a queste
La trae la libertà delle sue voglie.
Deh fa, Signor, ch’ella si miri intorno,
E, stracciato da se l’iniquo manto,
Serbi il migliore, e’l renda ognor più adorno:
Sicchè per lui sia degna poi fra’l santo
Stuolo seder nell’alte nozze un giorno
Là, vè l’inviti, al tuo gran Figlio accanto |
Caro Fileno, addio:
breve, ma rea
Lontananza crudel da te mi svelle,
E dalle patrie selve amate, e belle,
In cui vita conforme al cor godea.
Tu prendi il gregge, che in mia cura avea,
E quando il pasci in queste parti, e in quelle,
L’erbe additando a lui fresche, e novelle,
Dì: così appunto il tuo Pastor facea.
E se, mentre ritorni, o il guidi al prato,
Pianta incontri, ov’il mio nome incidesti,
Che gran tempo con lei crebbe segnato;
Leggilo ad alta voce, e fa, che desti,
Se non pietà, memoria; onde chiamato
Per l’altrui labbra in questi boschi io resti.
|
Almo Bambin, che la
perduta pace
Arrechi all’Uomo, e a Dio lo rendi amico:
Nato per lui purgar dal fallo antico,
Ove per altrui frode oppresso ei giace,
Togli dall’alma mia quel, che a te spiace,
E’l comun v’ispirò crudo nemico,
Sicchè alla mente pura, al cor pudico
Chiara del lume tuo splenda la face;
Per cui dolce nel seno il santo Amore
S’accenda, e volto in te dall’empie, e torte
Strade mi tragga del passato errore;
E nel punto fatal della mia morte
Non perda, indegno allor di tanto onore,
Quella, ch’or doni a me, beata sorte.
|
Nella parte miglior,
che chiudo in seno,
Scorgo, non so, se di pensiero un’ombra,
Che pur col suo splendore il fosco sgombra
De i vani errori, onde il mio core è pieno.
Ma quel, che cuopre, ahi lasso! il rio veleno,
Empio inganno è sì dolce; e sì m’ingombra;
Che appena apparso entro il mio cor s’adombra,
E mio mal grado il bel lume vien meno.
Quindi, se l’Alma mai seguir desia
La debile Ragione, il suo potere
Tutto vi oppone il senso, e la desvia;
E solo in lei s’accrescon le primiere
Pene sì, che non vuole ella, e vorria,
E le spiace il volere, e il non volere. |
Come Augellin; che
infra canoro stuolo,
Mentre di ramo in ramo applaude al giorno,
Vede da laccio insidioso intorno
Trarsi cattivi i suoi compagni al suolo,
Fugge dal bosco sbigottito, e solo;
Ma non sapendo, ove trovar soggiorno,
Da lunge il mira, e teme far ritorno,
Pur volge alfin ver lui dubbioso il volo.
Tale in veder, come tormenta altrui,
Io temo Filli, e fuggirei; ma il core
Viver non fa , se non de’ guardi fui,
Misero core, ahime, quale è il tenore
Di forte invidiosa a i beni tui,
Che ti si toglie, o libertade, o amore!
|
O vero, e buon Pastor,
c’ai data ancora
Per le tue Pecorelle anima, e vita,
Questa, ch’errando va sola, e smarrita,
Rendi là, onde per sua colpa è fuora.
Ella ti cerca invano, e s’addolora,
Che non sa donde ha la tua voce udita;
Deh a lei ti scuopri, e chiaro sì l’invita,
Ch’ella ti riconosca, e segua ognora.
Nè indegna sia, che colle elette insieme
Mandre la guidi al pasco tuo beato,
Di cui nutrita il Lupo rio non teme.
Corri, non più tardare; ha il can latrato,
E l’ingordo già già la incalza, e preme:
Essa è pur’una, a cui salvar se’ nato. |
Qual pecorella
abbandonata, e sola,
Che intorno errando, il suo Pastore appella,
Dio vo chiamando in questa parte, e in quella,
E nulla mi risponde, o mi consola.
Ove s’asconde ahime? Chi me l’invola,
O chi m’invola a lui! Non è sua bella
Immago il Cielo, il Sole, ed ogni stella
E suo spirto, e sua voce ogni parola?
Perchè nol veggio almen dunque in altrui?
Anzi, fe tanto io l’amo, entro il mio core,
Perchè no’l trovo, o non ho’l core in lui?
Ma, fe ne sento desiderio, e ardore,
Che ne rirerco più? Folle, ch’io fui:
Sapea pur ben, ch’altro ei non è, che Amore. |
Pria che fuori di se
si fosse espresso,
Era Fuoco immortal, che in se vivea,
E a se spargendo i raggi suoi prendea
Di se l’immago, e in se pingea se stesso;
E, rivolgendo in se quel lume impresso,
Tutto in se stesso di se stesso ardea;
E l’immago, e l’ardor, che in lui nascea,
Era con lui sola una luce in esso.
O santa, saggia, onnipotente luce
Qual se’ mai? quale è mai chi la comprende,
Quai sensi in noi la tua beltà produce.
Se quando l’Uomo ancor non ben t’intende
Per quel poco, che in noi di te riluce,
Tanto d’amore, e di desio s’accende? |
Da una medesma idea
formate, e tolte
Splendean nel terzo giro insieme accese
L’anime nostre, infin che lor non prese
Cura del suolo, al van desio rivolte.
Forse credean, che in un sol corpo accolte
Le avria la Terra al par del Ciel cortese;
Ma quì vario è’l destino, e appena scese,
Fur separate, ed in due spoglie involte;
Nè ponno in quelle pur l’acerba sorte
Colla vista temprar, se non per quanto
Apre del carcer rio l’occhio le porte.
V’accorron liete è ver, ma cresce intanto
Coll’amor, nel mirarsi, il duol più forte,
E i guardi lor tosto impedisce il pianto. |
Benchè spirto creato
in questo immondo
Suo carcere mortale involto, e preso
Non giunga a tanto, e invan si sforzi, e tenti;
Or ch’il suo lume il Creator del Mondo
Dentro la mente m’apre, e d’indi acceso
Mi sforza alto desio, che in rozzi accenti
Quanto quì può la sua bellezza io cante;
Ciò, che col labbro, al grande uopo minore,
A dir non son bastante,
Dirò col core, e ciò, ch’ancor col core
Dir non potrò, per me dirallo Amore.
Quell’Amor, che per se coll’Alma nato
Dentro mi parla, e mi richiama ognora,
E vuol, ch’al sommo Bene erga il desio;
Nè perchè non inteso, o non curato
Si vegga, egli mai cessa, e quando ancora
Folle quaggiù cerco il contento mio,
In mezzo del piacer noia m’arreca,
Per cui non pago alla ragione appresso
Mi sgrida: oh chi ti accieca
Traditor di tue brame? Ah non è desso
Ciò, che tu cerchi, e mal tu sai te stesso.
Dalle cui voci alfin mosso, e convinto
Guari non ha, ch’ogni più dolce cosa
Del Mondo io schivo, e tolgo a lui l’affetto,
E a me la cura sua, se non che avvinto
Al corpo, ch’è sua parte, invidiosa
Dura necessità, cui sono astretto,
Là mi ritragge, e agli usi suoi mi sforza;
Com’Uom, che suo mal grado opra, e sen duole:
Pur l’alma a tutta forza. |
Spesso raccolgo, e
osservo ciò, che vuole,
E cosa esser può mai, che la console.
Ma pur qual’arte io pongo in opra, e quale
Studio a trovar ciò, che mi renda appieno,
E quanto so bramar, sazio, e contento?
La mente è fosca, e ingombra dal suo frale,
Sicchè il cor non intende: e sa, ch’è meno;
Quel, c’ha la Terra al gran desio, che sento;
Ma invan si volge altrove, e cerca invano.
La sola fe rinforza il mio pensiero,
Ed oltre a ciò, che umano
Ingegno arriva, in Dio mi mostra il vero
Ben, che appaga, infinito, eterno, e intiero.
Ella mel mostra, è ver; ma sotto un velo
Tanto denso, ed oscuro all’egra, e breve
Facoltà, ch’i suoi detti ode, e comprende;
Che l’amor solo accresce, e muove il telo,
Onde maggior ferita ne riceve,
Non lume il cor per quante più s’accende;
Sicchè al soverchio duolo a poco a poco
Ei langue, e mancheria, se a Dio rivolto,
Ardito pel suo foco,
Quando si vede in se libero, e sciolto,
Nol pregasse a svelargli il suo bel volto.
Perocchè tosto allor (cotanto è grande
La divina Bontade) in me si desta
Nuovo vigor, che mie potenze affida,
E non so donde almo splendor si spande
In tutta l’Alma mia, ch’agile, e presta
A se la tragga, e dentro a Dio la guida;
In cui correndo ella si perde, e assorta.
|
Quasi in lui si
trasforma, e in se lo vede:
Vista, che tanto apporta,
E tal piacer, che la memoria eccede,
Ed ella stessa poi non ben lo crede.
Crede ben’ella nel felice punto
D’esser beata, e in quel diletto immenso
Affatto si abbandona; ond’è, che privo
Di spirto il corpo, che pur’ha cogiunto,
Più non resiste, e la ritira al senso;
E prima, ch’ella se n’avegga, il divo
Aspetto più non trova, e invan riguarda.
Oh compagnia crudele, oh dura sorte!
Deh, perchè più si tarda
E, se giusto è il desio, ch’è in lei sì forte,
Non rompe ancora i lacci suoi la Morte?
Pur, se questo, o Signore, è il tuo divino
Voler, che quì per gloria tua mi tiene,
Acciocchè le tue lodi altrui sien conte,
Io riverente il tuo decreto inchino,
E come a fido servo si conviene,
Ecco, che al suol prostato, umili, e pronte
Mie voglie io ti consacro, e colla mente,
E colla voce il tuo gran Nome adoro;
Oh se di gente in gente
Passassero i miei detti all’Indo, e al Moro,
E s’unisse alla mia la lingua loro!
O Dio tre volte santo, eterno lume
D’eterna luce, e per ardore eterno
Eternamente amante, onde infinita
Vena è del bene, e di bellezza il fiume;
Per cui fuor diffondendo il tuo su perno. |
Splendore, al nulla
desti essere, e vita,
E della cui virtude, il Cielo, e il suolo
Pieni, si posa l’un, l’altro si volta
Per te’, da te, in te solo;
Se parte del tuo spirto in seno accolta
Abbiam coll’alma, i nostri voti ascolta.
Canzon, non più: troppo il pensier confonde
L’alto suggetto, se t’inoltri, e quanto
Più splende, ei più s’asconde,
Sicchè a ben dir ciò, che direi col canto,
Solo il silenzio, e lo stupore ha il vanto. |
Fonte:
Rime degli
Arcadi, tomo settimo, per Antonio de Rossi alla Piazza di
Ceri, Roma 1717, pp. 239-248
Rime alla nobil
donzella Caterina Giordani patrizia pesarese in occasione che
veste l'abito religioso di San Domenico, per Nicolo' Degni,
Pesaro 1728, p. 8
G. M. Crescimbeni,
Dell'Istoria della volgar poesia scritta da Giovan Mario
Crescimbeni, volume sesto, presso Lorenzo Basegio, Venezia
1730, p. 392
G. Lavini, Rime
filosofiche del conte Giuseppe Lavini patrizio romano, e della
citta' di S. Severino, colle sue annotazioni alle medesime,
nel Regio Ducal Palazzo, Milano 1750, pp. XII-XIII, pp. 73-95
G. Lavini, Del
paradiso riacquistato del conte Giuseppe Laviny patrizio romano,
e della città di San Severino, Tomo terzo, nella stamperia
de' Salvioni, Roma 1756, p. 184
G. Mazzuchelli,
Gli scrittori d'Italia cioè notizie storiche, e critiche intorno
alle vite, e agli scritti dei letterali italiani, volume II,
parte II, presso Giambatista Bossini, Brescia 1760, p. 1073
Antologia
Romana, Tomo Terzo, presso Gregoio Settari Librajo Al Corso,
Roma 1777, pp. 85-88, 93-94
F. Vecchiatti – T.
Moro, Bertucci Giambattista, in Biblioteca picena o sia
notizie istoriche delle opere e degli scrittori piceni, Tomo
secondo, Osimo 1791, pp. 228-233
G. Testi, Un
ignorato scienziato corrispondente del Vallisnieri: il conte G.
B. Bertucci di Cingoli, in "Archeion", archivio di storia
della scienza, Vol. XV - anno 1933, casa Editrice Leonardo da
Vinci, Roma 1933, pp. 413-417
G. M. Claudi – L. Catri (a cura di), Bertucci Giambattista, in Dizionario storico-biografico dei marchigiani,
Tomo I, Il Lavoro Editoriale, Ancona 1992, p. 93
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