Filosofo, erudito. Cingoli 10/11/1695 - Cingoli 22/7/1774

Giambattista Bertucci nacque a Cingoli da Girolamo Bertucci e dalla nobile Giulia Lupi di Ancona. Come risulta dal libro delle Riformanze, a soli 24 anni fu nominato Gonfaloniere di Cingoli. Da Papa Clemente XIV fu investito del titolo comitale della Castellania di Montefano Vecchio.

Ricevette una prima educazione a Cingoli e poi ad Ancona, sotto la guida di un avo materno, si dedicò allo studio delle lettere e della poesia. Presso l'ateneo di Ancona si laureò in filosofia e successivamente studiò teologia a Fermo con il maestro Silotti, matematica e medicina con il dott. Biagio Galiani.

"Tornato in Cingoli, proseguì senza requie sino all'ultima vecchiezza i suoi amati studj, cui per meglio attendere, uso ira di passare buona parte dell'anno nella solitudine d' una villa. Ivi egli richiamò ad esame le teorie de' più celebri filosofi, ed ivi scrisse la maggior parte delle sue Opere, frutto ben degno delle più serie e profonde meditazioni" (F. Vecchiatti – T. Moro, Bertucci Giambattista, in Biblioteca picena o sia notizie istoriche delle opere e degli scrittori piceni, pp. 228-229).

Fece parte di svariate accademie: fu capo della Insegne Accademia degli Incolti di Cingoli e presidente perpetuo dell'Accademia delle Scienze e delle Erudizioni di Cingoli. Conosciuto con lo pseudonimo di Inalbo Eumenidio fu anche un componente dell'Accademia dell'Arcadia.

"Era picciolo di persona, e di temperamento assai gracile, e dilicato. Fu pieno di cortesia, e d'ingenuità. Ebbe una sincera pietà, e un sommo rispetto ed attaccamento per la Cattolica Religione. Fu modestissimo, e alieno d'ogni fasto, e sentiva così bassamente di sè stesso, che nulla più. Aveva forse poca comunicativa nel parlare, ma ne' suoi scritti all'incontro ammiravasi una straordinaria chiarezza e facilità di spiegar le cose eziandio pù oscure, e difficili, congiunta ad una singolare cultura, ed eleganza di stile, lode, che ha riscosso di chiunque ha seco carteggiato, o lette le sue opere" (Antologia Romana, Tomo Terzo, presso Gregoio Settari Librajo Al Corso, Roma 1777, p. 88).

Strinse infatti rapporti epistolari e di amicizia con numerosi eruditi e studiosi della sua generazione come Vallisnieri, Muratori, Poleni, Manfredi, Zendrini, Fagnani, Agnesi ed il conte Giuseppe Lavini di San Severino Marche. L'amicizia che legava il Bertucci al Lavini è attestata anche dalla lode che quest'ultimo espresse nei confronti del cingolano in un passo della sua opera del Paradiso Riacquistato: "Già varcati ho di Cingoli i frondosi Monti, e rividdi il mio Bertucci, il grande Ornamento, e splendor del secol nostro, Che di tutti i filosofi più degni Col sublime pensar agguaglia il merto" (G. Lavini, Del paradiso riacquistato del conte Giuseppe Laviny patrizio romano, e della città di San Severino)

Nel 1736 intraprese un viaggio che lo portò a visitare le città di Bologna, Padova, Venezia e Milano "per esplorare ne' frequenti congressi l' autorevole sentimento di que' valentuomini. N'ebbe però il vantaggio di ricredersi talora, com' egli solea dire, di varie sue opinioni, e di meglio sistemar le altre, che incontrarono quindi l'approvazione de' suoi dotti amici" (F. Vecchiatti – T. Moro, Bertucci Giambattista, in Biblioteca picena o sia notizie istoriche delle opere e degli scrittori piceni, p. 229).

Il carteggio che Bertucci ebbe con Antonio Vallisnieri riguardava la nascita dell'uomo; Vallisnieri aveva infatti pubblicato nel 1721 l'Istoria riguardo alla generazione dell'uomo in cui, dopo aver confutata l'opinione di alcuni studiosi sui "vermicelli spermatici", sosteneva l'origine della preesistenza dell'uovo nella femmina. Bertucci volle precisare l'idea del Vallisnieri e sostenne con nuove teorie la dipendenza della generazione anche dai "vermicelli spermatici".

Compose anche un trattato sulla vita della Terra e delle Stelle, il De Telluris ac Syderum Vita, al fine di sciogliere i dubbi e le difficoltà che non erano state toccate dal Vallisnieri nella sua opera Origine dei Crustacei e d'altri corpi marini. Il saggio di Bertucci affrontava lo stato della Terra prima e dopo il diluvio universale per scoprire la natura e le proprietà dei corpi celesti. Sull'origine, ad esempio, delle macchie solari condivideva la spiegazione di altri eruditi del tempo; secondo lui non sarebbero altro che nuvole di fumo e cenere prodotte dai vulcani presenti sulla superficie solare. "Il soprannominato Sig. Giambattista Bertucci nel suo Libro inedito ancora, e letto da me nell'Originale suo manuscritto De Telluris, ac Syderum Vita, dove tratta della natura de' Corpi celesti, dice, esser cosa molto probabile, che le sovradette macchie siano congerie di densi, e neri fumi, ed anche di ceneri, e di somiglianti altre materie gettate in alto dalli spessi, e grandi Monti Vulcani, che sono nello stesso Sole, e da' quali â creduto, che possa derivare tutta la luce, ed il calore, che in esso si scorge" (G. Lavini, Rime filosofiche del conte Giuseppe Lavini patrizio romano, e della citta' di S. Severino, colle sue annotazioni alle medesime, p. 74).

Come altri eruditi del suo tempo, anche Bertucci credeva all'esistenza di un'atmosfera che circondava il Sole e le stelle e ipotizzava che tale atmosfera fosse all'origine della luce solare: "Benchè paja, che il Sole, e le Stelle fisse, essendo corpi celesti, che per se stessi risplendono, siano molto diversi dai Pianeti, e dalla Terra, contuttociò, poichè questa diversità non è tanto grande, quanto comunemente si crede, come dimostreremo in appresso, a me pare, che ciò non debba togliere, che secondo la legge della uniformità della Natura abbiano anch'essi, oltre i vapori, e le esalazioni, la loro aria propria. E tanto è lungi, che quell'Aria debba impedire la propagazione della luce, che anzi stimerei probabil cose, che appunto la detta Aria fosse il soggetto medesimo della luce, e che questa non consistette, che in un tremore sottilissimo propagato per le particelle dell'Aria del Sole, e delle Stelle fisse, nella guisa, che il suono è un tremore propagato per le particelle dell'Aria della Terra..." (G. Lavini, Rime filosofiche del conte Giuseppe Lavini patrizio romano, e della citta' di S. Severino, colle sue annotazioni alle medesime, p. 86 e segg).

Tra le numerose opere che scrisse si ricordano anche i due trattati Elementa geometriae naturalis e De philosophiae elementis in geometriam redigendis et de elementis in geometriae in philosophiam redigendis sul rapporto tra geometria e filosofia.

Oltre ad opere di carattere scientifico e filosofico scrisse anche sonetti, rime e prose, alcune pubblicate nel 1717 nel settimo tomo delle Rime degli Arcadi.

Morì a Cingoli il 22 luglio del 1774; molti suoi manoscritti passarono nelle mani del suo amico Pietro Paolo Compagnoni Floriani per essere pubblicati; ma successivamente, a causa della morte del Compagnoni, tornarono agli eredi del Bertucci.

"Fu uno di quei felici geni che sanno tutto apprendere da loro (studi), ma gli sarebbe abbisognato un ambiente più vasto o meglio un ambiente universitario per valorizzare il suo talento. Infatti non potè mai indursi, finchè visse, a pubblicare alcune delle sue opere ad onta delle insistenze che ebbe da molti scienziati, colpa di quella soverchia moderazione d'animo che non seppe mai vincere e che, per naturale disposizione, non lo lasciava mai soddisfatto" (G. Testi, Un ignorato scienziato corrispondente del Vallisnieri: il conte G. B. Bertucci di Cingoli, p. 414).

 

Stemma della famiglia Bertucci, da Stemmi delle famiglie nobili cingolane già costituenti il primario ordine dei gonfalonieri (1533-1861), di Cesare E. Bernardi

 

 

Opere elencate in Antologia Romana (pp. 93-94)

Versi

I. Davidias, poema eroico sulla vittoria di Davide contro il Gigante Golia, di cui compose i tre primi libri in età di anni 15 in circa.

II. Filatelia, o sia Poema Filosofico in verso sciolto sul metodo di cercare, e rinvenire la verità.

III. Rime divise in sacre, morali, e varie.

Prose

I. Sopra la natura della Poesia, e Rettorica spiegate con principi diversi da Aristotele.

II. Varie Orazioni Accademiche: dell'amor divino, e suoi effetti in riguardo alle Creature ne'tre ordini di natura, di grazia, e di gloria; sulla Natività G.C.

III. Sopra le piante marine, e la fecondità, e simiglianza della Terra coperta dall'acqua con quella esposta all'aria, aggiunto un curioso pensiero, come si potrebbero allevar gli uomini, acciocchè fossero capaci di potere vivere, e stare per se medesimi sott'acqua, e in tal guisa ricercare, coltivare, e abitare l'altra metà di mondo nascosta dalle acque.

IV. Nuovi sperimenti per illustrare la Filosofia naturale, e specialmente per vedere con distinzioni i fumi, i vapori, e l'esalazioni, al che non vagliano le lenti. Altri sull'accensione, e putrefazione de' metalli per se soli e specialmente del Ferro col modo di scioglierli con acqua pura.

V. Carteggio col Signore Antonio Vallisnieri intorno al nuovo sistema sopra la dipendenza della generazione da' vermicelli spermatici.

VI. Della Vita della Terra, e delle Stelle, o sia nuovo sistema per poter naturalmente risolvere le difficoltà lasciate indecise dal Vallisnieri circa lo stato del Mondo avanti il diluvio, nel diluvio, e dopo il diluvio.

VII. Volume di lettere concernenti le proposte dell'Autore a vari Letterati d'Italia colle loro risposte sul precedente sistema.

VIII. Dissertazioni sull'atmosfera della Terra etc., della luce solare etc., de' Giganti etc. sopra la vita degli uomini de' primi tempi, confutando la forte opinione, che gli anni, i mesi, ed i giorni d'allora potessero essere proporzionatamente inferiori.

IX. Prelezioni alla dissertazione del Signor Simonelli sulla solidità, e durezza de' Corpi.

X. Del corpo umano, che si prova essere una picciola Terra con moltissimi corpi organici a lui propri di tutti i tre generi animale, vegetale, e minerale, dal che spiegasi l'origine, e la natura di una gran parte de' morbi.

XI. Della natura e formazione dell'orina, bile, sudore non volendosi, che siano per se stessi confusi, e presistenti nel sangue.

XII. Della prima struttura delle Fibre, e dell'origine de' moti del corpo umano, rigettati gli spiriti animali.

XIII. Della medicina Statica del Celebre Santorio, trattato ove si prova, che anche senza giunta, e perdita di materia ha il corpo umano una continua, e periodica mutazione di peso specifico in tempi determinati.

XIV. Sopra il calcolo integrale per via delle seconde, terze differenze le serie infinite di proporzione non costante fra loro, e la natura delle linee curve: la quadratura del circolo e delle Iperbole opera intrapresa da giovane col motto apposto in magnis tentasse sat est la qual'opera lasciò sigillata al Segretario della Colonia Cingolana.

XV. Adnotationes ad perficiendam Quadraturam geometricam Circuli & Hyperboles.

XVI. Adnotationes aliquot circa motum corporum caelestium.

XVII. Elementa Geometriae Naturalis, ove si procura di ridurre la Filosofia a pura Geometria; Così nell'altro trattato De Philosophiae elementis in Geometriam redigendis Comentarium Così pure in una epistola latina al chiarissimo Vallisnieri, e in altra italiana indirizzata al suo Fratello Monaco Olivetano.

Excerpta Hermetica & c. Miscellanea & c. e molti altri scritti di Filologia, di Critica, di medicina, di matematica, e di Teologia, che sarebbe lungo di annoverare.

 

Rime di Inalbo Eumenidio (G. Bertucci), in Rime degli Arcadi (pp. 239-248)

 

Come vago Augellino, allorche rende
L’Aurora al Cielo il bel porpureo ammanto,
In dolce suon l’aura raccoglie; e intanto
Si desta all’opre, e’l volo in alto estende;
Così quando alla mente un vivo splende
Raggio divin; come ei m’ispira, io canto,
E l’alma a i primi ufficj, e al dolce canto
Libera riede, e sovra il frale ascende.
Perocch’avvezza all’armonia del Polo
Si rammenta per lei l’antico stato
E sforza i lacci, e scioglie in alto il volo:
Ma privo di quel lume; abbandonato
Senza cura, e senz’arte io resto, e solo
Mando poi nel cantar sì roco il fiato.

Vide sue forze, e ben conobbe il core,
Che per congiura sol vinto cedea,
E mentre d’ira, e di vergogna ardea,
Cercò per tutta l’alma il traditore;
Il Pensier fu accusato: ei dell’errore
Nò disse, non son’io, la vista è rea;
Che senza lei commercio io non avea
Co’ vani oggetti, onde destossi Amore.
Quella rispose: io sol di fuori a sorte
Con essi sto; tu, che a tua voglia pensi,
Perchè mi segui, ed apri lor le porte?
E’ ver, gridò la mente, a lui conviensi,
Non a te il freno, onde farò, ch’ei forte
Segua sol la ragion, nè curi i sensi.
 

Pria, che il fatale ultimo dì la spoglie
Della sua natural corporea veste,
A poco a poco l’alma mia si veste
D’altra, cui tempo, o morte ria non toglie;
E l’opre sue son l’immortali spoglie
O buone, o ree, che dal costume inteste
Le son tutor, siccome o a quelle, o a queste
La trae la libertà delle sue voglie.
Deh fa, Signor, ch’ella si miri intorno,
E, stracciato da se l’iniquo manto,
Serbi il migliore, e’l renda ognor più adorno:
Sicchè per lui sia degna poi fra’l santo
Stuolo seder nell’alte nozze un giorno
Là, vè l’inviti, al tuo gran Figlio accanto

Caro Fileno, addio: breve, ma rea
Lontananza crudel da te mi svelle,
E dalle patrie selve amate, e belle,
In cui vita conforme al cor godea.
Tu prendi il gregge, che in mia cura avea,
E quando il pasci in queste parti, e in quelle,
L’erbe additando a lui fresche, e novelle,
Dì: così appunto il tuo Pastor facea.
E se, mentre ritorni, o il guidi al prato,
Pianta incontri, ov’il mio nome incidesti,
Che gran tempo con lei crebbe segnato;
Leggilo ad alta voce, e fa, che desti,
Se non pietà, memoria; onde chiamato
Per l’altrui labbra in questi boschi io resti.
 

Almo Bambin, che la perduta pace
Arrechi all’Uomo, e a Dio lo rendi amico:
Nato per lui purgar dal fallo antico,
Ove per altrui frode oppresso ei giace,
Togli dall’alma mia quel, che a te spiace,
E’l comun v’ispirò crudo nemico,
Sicchè alla mente pura, al cor pudico
Chiara del lume tuo splenda la face;
Per cui dolce nel seno il santo Amore
S’accenda, e volto in te dall’empie, e torte
Strade mi tragga del passato errore;
E nel punto fatal della mia morte
Non perda, indegno allor di tanto onore,
Quella, ch’or doni a me, beata sorte.
 

Nella parte miglior, che chiudo in seno,
Scorgo, non so, se di pensiero un’ombra,
Che pur col suo splendore il fosco sgombra
De i vani errori, onde il mio core è pieno.
Ma quel, che cuopre, ahi lasso! il rio veleno,
Empio inganno è sì dolce; e sì m’ingombra;
Che appena apparso entro il mio cor s’adombra,
E mio mal grado il bel lume vien meno.
Quindi, se l’Alma mai seguir desia
La debile Ragione, il suo potere
Tutto vi oppone il senso, e la desvia;
E solo in lei s’accrescon le primiere
Pene sì, che non vuole ella, e vorria,
E le spiace il volere, e il non volere.

Come Augellin; che infra canoro stuolo,
Mentre di ramo in ramo applaude al giorno,
Vede da laccio insidioso intorno
Trarsi cattivi i suoi compagni al suolo,
Fugge dal bosco sbigottito, e solo;
Ma non sapendo, ove trovar soggiorno,
Da lunge il mira, e teme far ritorno,
Pur volge alfin ver lui dubbioso il volo.
Tale in veder, come tormenta altrui,
Io temo Filli, e fuggirei; ma il core
Viver non fa , se non de’ guardi fui,
Misero core, ahime, quale è il tenore
Di forte invidiosa a i beni tui,
Che ti si toglie, o libertade, o amore!
 

O vero, e buon Pastor, c’ai data ancora
Per le tue Pecorelle anima, e vita,
Questa, ch’errando va sola, e smarrita,
Rendi là, onde per sua colpa è fuora.
Ella ti cerca invano, e s’addolora,
Che non sa donde ha la tua voce udita;
Deh a lei ti scuopri, e chiaro sì l’invita,
Ch’ella ti riconosca, e segua ognora.
Nè indegna sia, che colle elette insieme
Mandre la guidi al pasco tuo beato,
Di cui nutrita il Lupo rio non teme.
Corri, non più tardare; ha il can latrato,
E l’ingordo già già la incalza, e preme:
Essa è pur’una, a cui salvar se’ nato.

Qual pecorella abbandonata, e sola,
Che intorno errando, il suo Pastore appella,
Dio vo chiamando in questa parte, e in quella,
E nulla mi risponde, o mi consola.
Ove s’asconde ahime? Chi me l’invola,
O chi m’invola a lui! Non è sua bella
Immago il Cielo, il Sole, ed ogni stella
E suo spirto, e sua voce ogni parola?
Perchè nol veggio almen dunque in altrui?
Anzi, fe tanto io l’amo, entro il mio core,
Perchè no’l trovo, o non ho’l core in lui?
Ma, fe ne sento desiderio, e ardore,
Che ne rirerco più? Folle, ch’io fui:
Sapea pur ben, ch’altro ei non è, che Amore.

Pria che fuori di se si fosse espresso,
Era Fuoco immortal, che in se vivea,
E a se spargendo i raggi suoi prendea
Di se l’immago, e in se pingea se stesso;
E, rivolgendo in se quel lume impresso,
Tutto in se stesso di se stesso ardea;
E l’immago, e l’ardor, che in lui nascea,
Era con lui sola una luce in esso.
O santa, saggia, onnipotente luce
Qual se’ mai? quale è mai chi la comprende,
Quai sensi in noi la tua beltà produce.
Se quando l’Uomo ancor non ben t’intende
Per quel poco, che in noi di te riluce,
Tanto d’amore, e di desio s’accende?

Da una medesma idea formate, e tolte
Splendean nel terzo giro insieme accese
L’anime nostre, infin che lor non prese
Cura del suolo, al van desio rivolte.
Forse credean, che in un sol corpo accolte
Le avria la Terra al par del Ciel cortese;
Ma quì vario è’l destino, e appena scese,
Fur separate, ed in due spoglie involte;
Nè ponno in quelle pur l’acerba sorte
Colla vista temprar, se non per quanto
Apre del carcer rio l’occhio le porte.
V’accorron liete è ver, ma cresce intanto
Coll’amor, nel mirarsi, il duol più forte,
E i guardi lor tosto impedisce il pianto.

Benchè spirto creato in questo immondo
Suo carcere mortale involto, e preso
Non giunga a tanto, e invan si sforzi, e tenti;
Or ch’il suo lume il Creator del Mondo
Dentro la mente m’apre, e d’indi acceso
Mi sforza alto desio, che in rozzi accenti
Quanto quì può la sua bellezza io cante;
Ciò, che col labbro, al grande uopo minore,
A dir non son bastante,
Dirò col core, e ciò, ch’ancor col core
Dir non potrò, per me dirallo Amore.
Quell’Amor, che per se coll’Alma nato
Dentro mi parla, e mi richiama ognora,
E vuol, ch’al sommo Bene erga il desio;
Nè perchè non inteso, o non curato
Si vegga, egli mai cessa, e quando ancora
Folle quaggiù cerco il contento mio,
In mezzo del piacer noia m’arreca,
Per cui non pago alla ragione appresso
Mi sgrida: oh chi ti accieca
Traditor di tue brame? Ah non è desso
Ciò, che tu cerchi, e mal tu sai te stesso.
Dalle cui voci alfin mosso, e convinto
Guari non ha, ch’ogni più dolce cosa
Del Mondo io schivo, e tolgo a lui l’affetto,
E a me la cura sua, se non che avvinto
Al corpo, ch’è sua parte, invidiosa
Dura necessità, cui sono astretto,
Là mi ritragge, e agli usi suoi mi sforza;
Com’Uom, che suo mal grado opra, e sen duole:
Pur l’alma a tutta forza.

Spesso raccolgo, e osservo ciò, che vuole,
E cosa esser può mai, che la console.
Ma pur qual’arte io pongo in opra, e quale
Studio a trovar ciò, che mi renda appieno,
E quanto so bramar, sazio, e contento?
La mente è fosca, e ingombra dal suo frale,
Sicchè il cor non intende: e sa, ch’è meno;
Quel, c’ha la Terra al gran desio, che sento;
Ma invan si volge altrove, e cerca invano.
La sola fe rinforza il mio pensiero,
Ed oltre a ciò, che umano
Ingegno arriva, in Dio mi mostra il vero
Ben, che appaga, infinito, eterno, e intiero.
Ella mel mostra, è ver; ma sotto un velo
Tanto denso, ed oscuro all’egra, e breve
Facoltà, ch’i suoi detti ode, e comprende;
Che l’amor solo accresce, e muove il telo,
Onde maggior ferita ne riceve,
Non lume il cor per quante più s’accende;
Sicchè al soverchio duolo a poco a poco
Ei langue, e mancheria, se a Dio rivolto,
Ardito pel suo foco,
Quando si vede in se libero, e sciolto,
Nol pregasse a svelargli il suo bel volto.
Perocchè tosto allor (cotanto è grande
La divina Bontade) in me si desta
Nuovo vigor, che mie potenze affida,
E non so donde almo splendor si spande
In tutta l’Alma mia, ch’agile, e presta
A se la tragga, e dentro a Dio la guida;
In cui correndo ella si perde, e assorta.
 

Quasi in lui si trasforma, e in se lo vede:
Vista, che tanto apporta,
E tal piacer, che la memoria eccede,
Ed ella stessa poi non ben lo crede.
Crede ben’ella nel felice punto
D’esser beata, e in quel diletto immenso
Affatto si abbandona; ond’è, che privo
Di spirto il corpo, che pur’ha cogiunto,
Più non resiste, e la ritira al senso;
E prima, ch’ella se n’avegga, il divo
Aspetto più non trova, e invan riguarda.
Oh compagnia crudele, oh dura sorte!
Deh, perchè più si tarda
E, se giusto è il desio, ch’è in lei sì forte,
Non rompe ancora i lacci suoi la Morte?
Pur, se questo, o Signore, è il tuo divino
Voler, che quì per gloria tua mi tiene,
Acciocchè le tue lodi altrui sien conte,
Io riverente il tuo decreto inchino,
E come a fido servo si conviene,
Ecco, che al suol prostato, umili, e pronte
Mie voglie io ti consacro, e colla mente,
E colla voce il tuo gran Nome adoro;
Oh se di gente in gente
Passassero i miei detti all’Indo, e al Moro,
E s’unisse alla mia la lingua loro!
O Dio tre volte santo, eterno lume
D’eterna luce, e per ardore eterno
Eternamente amante, onde infinita
Vena è del bene, e di bellezza il fiume;
Per cui fuor diffondendo il tuo su perno.

Splendore, al nulla desti essere, e vita,
E della cui virtude, il Cielo, e il suolo
Pieni, si posa l’un, l’altro si volta
Per te’, da te, in te solo;
Se parte del tuo spirto in seno accolta
Abbiam coll’alma, i nostri voti ascolta.
Canzon, non più: troppo il pensier confonde
L’alto suggetto, se t’inoltri, e quanto
Più splende, ei più s’asconde,
Sicchè a ben dir ciò, che direi col canto,
Solo il silenzio, e lo stupore ha il vanto.

 


Fonte:

Rime degli Arcadi, tomo settimo, per Antonio de Rossi alla Piazza di Ceri, Roma 1717, pp. 239-248

Rime alla nobil donzella Caterina Giordani patrizia pesarese in occasione che veste l'abito religioso di San Domenico, per Nicolo' Degni, Pesaro 1728, p. 8

G. M. Crescimbeni, Dell'Istoria della volgar poesia scritta da Giovan Mario Crescimbeni, volume sesto, presso Lorenzo Basegio, Venezia 1730, p. 392

G. Lavini, Rime filosofiche del conte Giuseppe Lavini patrizio romano, e della citta' di S. Severino, colle sue annotazioni alle medesime, nel Regio Ducal Palazzo, Milano 1750, pp. XII-XIII, pp. 73-95

G. Lavini, Del paradiso riacquistato del conte Giuseppe Laviny patrizio romano, e della città di San Severino, Tomo terzo, nella stamperia de' Salvioni, Roma 1756, p. 184

G. Mazzuchelli, Gli scrittori d'Italia cioè notizie storiche, e critiche intorno alle vite, e agli scritti dei letterali italiani, volume II, parte II, presso Giambatista Bossini, Brescia 1760, p. 1073

Antologia Romana, Tomo Terzo, presso Gregoio Settari Librajo Al Corso, Roma 1777, pp. 85-88, 93-94

F. Vecchiatti – T. Moro, Bertucci Giambattista, in Biblioteca picena o sia notizie istoriche delle opere e degli scrittori piceni, Tomo secondo, Osimo 1791, pp. 228-233

G. Testi, Un ignorato scienziato corrispondente del Vallisnieri: il conte G. B. Bertucci di Cingoli, in "Archeion", archivio di storia della scienza, Vol. XV - anno 1933, casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 1933, pp. 413-417

G. M. Claudi – L. Catri (a cura di), Bertucci Giambattista, in Dizionario storico-biografico dei marchigiani, Tomo I, Il Lavoro Editoriale, Ancona 1992, p. 93

 

 


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