Si trattava dunque di una realtà significativa ed
è certamente
con questa consapevolezza che, dopo la morte di Francesco Maria,
i suoi figli chiamarono a riordinarla e a farne il catalogo una delle
figure di maggiore rilievo nel panorama locale: Joseph Anton Vogel. Sapendo che «le biblioteche per essere veramente utili, e
corrispondenti al loro scopo, vogliono essere stabilite in edifici vasti, e
bene illuminati affinché possano accogliere la massa sempre crescente
delle dovizie [...] ed offrano un commodo sito agli studiosi», egli volle
organizzare il materiale in quattro sale «per collocarvi nella prima in
bene adattati armadi ciò, che spetta alle belle lettere, alle arti, alla
scienza filosofica, la seconda volle destinata alla storia, ed agli studi,
che a questa si riferiscono, la terza alle scienze sacre, la quarta alla
giurisprudenza».
Quindi, classificati i volumi per materie procedette
alla redazione del catalogo che si componeva di cinque volumi in quarto; essi contenevano,
i primi quattro le opere a stampa, evidentemente organizzate secondo
la logica con cui erano state disposte nelle stanze della Biblioteca, il
quinto l’indice dei manoscritti e dei codici, che in tutto ammontavano
a 832; a premessa dell’intero catalogo erano alcuni cenni biografici su
Francesco Maria Raffaelli.
Del catalogo ed in genere dei lavori di riordino e riorganizzazione dei
volumi della biblioteca restano nelle carte Vogel solo alcuni frammenti,
tra i quali in particolare spiccano l’Indice dei manoscritti di Francesco
Maria, un catalogo dei duplicati della libreria, organizzato secondo la logica
seguita per la sistemazione della biblioteca ed un elenco di
volumi ‘scelti’ della Biblioteca, relativo alle sole classi di Belle lettere e
Filosofia, quelle cioè collocate nella prima sala della casa.
La Biblioteca fu ulteriormente arricchita da
Filippo Raffaelli che si dedicò a coltivare i propri interessi eruditi,
iniziando una lunga serie di pubblicazioni sostenute sia dalle ricerche in
ambito documentario che dall’acquisizione di autografi ed inediti cui lo
spingeva la passione per il collezionismo. Tale passione, più dispendiosa di
quanto gli consentissero le sue possibilità finanziarie, lo portò ad allestire
una ricca autografoteca sulla quale, a partire dal 1855, concentrò in maniera
sempre più consistente le proprie attenzioni, pubblicandone il catalogo nel
1871.
Proprio le necessità economiche connesse con il progetto della autografoteca, ma
anche con la difficoltà di trovare un’adeguata soluzione lavorativa e, d’altra
parte, le stesse condizioni della famiglia il cui prestigio non era più quello
di un tempo, lo portarono, d’accordo con i fratelli, a cercare di vendere quello
che pure era uno dei vanti della casata, la libraria domestica sistemata nelle
quattro sale della dimora di Cingoli.
Di tali tentativi sono testimonianza una serie di lettere datate al periodo
marzo 1863-gennaio 1864dalle quali si ricavano notizie circa i rapporti
intercorsi, con la mediazione dello zio materno, il conte Antonio Gessi di
Faenza, tra Filippo e due librai bolognesi, Carlo Ramazzotti e Gaetano
Romagnoli. Né con l’uno né con l’altro la trattativa andò però in porto. I
librai, che offrivano per l’insieme dei volumi circa 8000 o 9000 lire,
accusavano infatti lo scarso interesse dei volumi, molti dei quali peraltro
mancanti, e suggerivano caso mai, come possibile alternativa, l’acquisto al
dettaglio di alcuni pezzi soltanto, dopo una cernita che ne individuasse i più
interessanti.
La
famiglia, da parte sua, si aspettava una cifra ben più alta, fondandosi,
probabilmente, su una perizia di cui qualche anno prima, aveva
incaricato l’antiquario e bibliofilo Costantino Corvisieri. Questi, il 7
giugno 1859, aveva valutato la raccolta domestica in 4221.46 scudi,
pari a 22.600 lire circa, ovvero a quasi il doppio dell’offerta dei librai.
Al di là della questione economica, tale perizia è assai interessante
per le informazioni che porta sulla consistenza della biblioteca. Le
carte relative alla trattativa conservano infatti il documento di sintesi
elaborato dal Corvisieri nel quale è indicato il numero totale dei volumi
che furono esaminati, secondo quanto si dice, «seguendo il catalogo
domestico», probabilmente proprio quello realizzato da Vogel. Il
numero, che risulta pari a 12868 unità, dovrebbe quindi rappresentare
la consistenza della biblioteca, ben lontana dalla cifra di 24.000 che
Filippo aveva vantato in una delle sue prime pubblicazioni. Si tratta
però di un numero attendibile.
Dei 12800 volumi circa conteggiati per l’intera biblioteca dal Corvisieri, 2700 circa appartenevano alle classi
di belle lettere e filosofia, 4300 alla classe di storia, tra 2600 e 3600
erano quelli collocati nella sala dedicata alla teologia e, infine, tra 3200
e 2200 erano quelli di diritto.
Il dato è sostanzialmente congruente con le informazioni che
derivano da due lettere, indirizzate da Girolamo Raffaelli al fratello
Filippo circa 20 anni dopo le vicende legate alla trattativa con i
librai bolognesi, probabilmente in relazione ad un nuovo progetto
di vendita.
Nella prima lettera, del 9 ottobre 1888, Girolamo su
richiesta di Filippo indica le misure della biblioteca in termini di
lunghezza lineare degli scaffali, numero di riparti e numero di ripiani
(risultano 90 metri lineari di scaffalatura per la prima sala,
112 per la seconda sala, 141 metri per la terza sala e 86 ca. per la quarta).
Un elemento che si ricava dalle lettere di Girolamo è che
comunque, rispetto al catalogo, molti volumi all’epoca mancavano
dagli scaffali delle quattro sale. Girolamo afferma che diversi si
trovavano presso Filippo, ma non è improbabile che la biblioteca
avesse subito anche qualche menomazione e che, per esempio, una
parte fosse stata effettivamente venduta a metà degli anni ‘60.
L’ultimo atto di questa vicenda si è compiuto nel 1913,
quando finalmente la raccolta è stata acquistata dall’antiquario
romano Ildebrando Rossi (1846-1919), interessato, oltre che ai volumi di famiglia anche a
quello che rimaneva l’autografoteca di Filippo.
Originario di Genova, questi, dopo avere lavorato come tipografo editore
nella sua città natale, era arrivato a Roma intorno al 1877 e
nella capitale si era dedicato con successo al commercio antiquario.
Negli ultimi
anni della sua vita fu vicino anche agli Olschki ed in particolare a
Cesare. Questi stava aprendo una succursale della libreria antiquaria
fiorentina a Roma, per dirigere la quale poté contare sull’esperienza e
sull’aiuto di Ildebrando.
L’acquisto della biblioteca Raffaelli da parte di Ildebrando nel
1913 si colloca in un periodo in cui i rapporti con gli Olschki erano
molto stretti.
In questo contesto di cordialità ed amicizia è nata
l’idea della collaborazione alla filiale romana, progetto cui il Rossi,
che morì nel 1919, dedicò gli ultimi anni della sua vita ed in cui ebbe
probabilmente un ruolo anche la biblioteca Raffaelli.
Non è chiaro come la Biblioteca Raffaelli
sia stata di fatto gestita nella fase di transizione che preludeva alla
chiusura dell’attività di Ildebrando Rossi e all’apertura di quella di
Cesare Olschki.
Il catalogo del Rossi
non descriveva la totalità della raccolta. Esso si presenta anche nel
titolo come relativo alla sola sezione di teologia, definita come Parte I,
e contiene circa 900 edizioni, prevalentemente di ambito teologico, ma
non solo. Nella lista sono incluse, infatti, anche diverse opere di diritto
canonico e una settantina di edizioni giuridiche di ambito civilistico.
Vi si trova dunque una selezione del materiale contenuto nella terza e
nella quarta sala della biblioteca.
Alla pubblicazione di questo catalogo non seguì tuttavia
quella relativa al resto della biblioteca della quale, dopo il 1915, si
perdono di fatto le tracce. Nel 1915, infatti, venne
messa in vendita all’asta dal libraio Dario Giuseppe Rossi di Roma,
finendo quindi dispersa. Per l’occasione ne fu pubblicato un catalogo
parziale, limitato alla descrizione della sola sezione di teologia, che
ha costituito fino ad ora l’unica sopravvivenza documentaria della sua
fisionomia. Di questo catalogo sono attestate
una copia nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze,
una nella Biblioteca della Pontificia Università Gregoriana ed una
tra
i volumi del fondo Eugenio Garin nella Biblioteca della Scuola Normale
Superiore.
Alcuni volumi, oggi conservati nella Biblioteca
della facoltà di Giurisprudenza di Cagliari, furono acquisiti nel 1916 da
Filippo Vassalli, allora docente di Diritto romano presso l’ateneo, tramite
Attilio Nardecchia, un libraio romano molto attivo in quegli anni nel commercio
delle edizioni giuridiche" (G. Granata, Tracce di una 'antica
ed importante' Biblioteca: la Biblioteca dei Marchesi Raffaelli
di Cingoli).
Parte del materiale dʹinteresse locale fu
riacquistato da padre Clemente Benedettucci
ed ora è conservato nella omonima biblioteca recanatese
(R. M. Borraccini, «Nellʹabbondanza e sceltezza
sono alcuni pezzi unici» La Biblioteca De Minicis nella stima di Filippo
Raffaelli (Fermo 1872), p. 864, nota 28).
A proposito della autografoteca, è interessante
ricordare la testimonianza di Antonio Galeazzo Galezzi pubblicata circa venti
anni dopo la sua vendita. L'autore ricorda una sua visita alle sale della
Biblioteca Raffaelli avvenuta poco prima "dell’atto in forza del quale la
famiglia dei marchesi Raffaelli di Cingoli veniva, col rispetto di ogni forma
legale, a perdere dopo quattro secoli di intelligente ed appassionato dominio,
la proprietà della preziosa Biblioteca (...). La Raccolta di autografi che io vidi in quel tempo
e che la
prima parte del Catalogo del marchese Filippo ci assicura essere ricca di ben 4624 autografi. Ed essa comprende soltanto autografi di Pontefici,
di Cardinali, di Patriarchi, di Santi, di Sovrani e principi italianie stranieri, di diplomatici, di nobili, di guerrieri.
La seconda parte del Catalogo che io non posseggo e che non so nemmeno se fu mai pubblicata, ci avrebbe documentato oggi il ricordo degli autografi di letterati, di scienziati, di artisti che io in parte vidi
nella lontana visita ed in parte udii decantare a mio, padre, che io
seguivo
in quell'avventurato giorno, dal nostro ospite monsignor Gerolamo Raffaelli" (A. Galeazzo Galeazzi, Di una biblioteca
patrizia marchigiana e della sua dispersione, pp. 48, 52).
"(...) Sarei tentato di crederlo dal modo come si
comportò l'antiquario
romano che venne a Cingoli se non ricordo male, nel 1913, ad acquistare
la Biblioteca dei Marchesi Raffaelli. La famiglia estenuata
finanziariamente
e ridotta, in Cingoli, a due tremanti vecchie abitatrici dell'immenso
palazzo, non aveva, come i nuovi ordinamenti di leggi e
d'uffici consentono oggi, autorità cui rivolgersi e dalla quale invocare
il soccorso. Si ripeteva in Cingoli uno dei mille casi di esaurimento della
forza privata creatrice di ricchezza cui non soccorre forza di enti di
istituti e di leggi atti a conservarla. E la biblioteca Raffaelli,
saggiata
qua e là fulmineamente dall'esperto cittadino della capitale, fu acquistata e pagata senza contrattare sulla richiesta.
L'albergatore dell'albergo Centrale di Cingoli e
la sua famiglia - l'antiquario aveva colà preso stanza - giudicarono che il
signore avesse addirittura vinto una quaterna tali e tante erano le mance onde
egli compensava perfino gli elementi e i tempi in cui si scompone ciascun
servizio. Ma qui non vuol farsi del comico e si tacerà sul modo di tale
generosissimo comportamento. Sembra necessario dire tuttavia che avendo
l'antiquario richiesto l'albergatore di un piccolo baulle solido ed avendone
ricevuto - a perfezionamento della sua fortuna e della sua allegria - uno in
lamiera, somigliante in tutto ad un cofano, riempitolo in fretta e furia nelle
sale della biblioteca (lo assistette nella bisogna un genero dell'albergatore)
se ne partì come uno sposo con la sua sposa.
E ci vollero mesi di insistenze da parte delle
venditrici signore Raffaelli, le quali volevano o forse dovevano disfarsi anche
degli scaffali, perchè egli si decidesse a scrivere ordinando che la massa della
suppellettile libraria fosse messa in una dozzina di grandi casse e gli fosse
spedita. E sebbene nel cofano oltre al codice bambagino avessero preso posto gli
autografi superstiti dei novemila che il marchese Filippo possedeva, e forse gli
incunaboli di medicina e di scienze naturali che io e mio padre ammirammo pure,
per le loro alluminature, in quella visita, non v'è dubbio che a Cingoli fossero
rimaste altre opere rare. Franccesco Maria Raffaelli e il suo discendente
Filippo, non erano uomini da far collezioni di carta da macero.
Non mi resta da dire che ogni ricerca fatta da me
in Italia sulla nuova collocazione bibliografica degli autografi e dei codici
della Biblioteca Raffaelli, è rimasta vana.. Il che mi fa quasi certo e col
dolore e con l' ira di chi giudica defraudata la Patria, che il più prezioso
della Biblioteca Raffaelli abbia varcato l'oceano; tanto più se, come mi si
dice, l'antiquario romano aveva iniziato le sue imprese commerciali sul mare.
La nuova Italia ha oggi, per fortuna, leggi,
istituti, uffici, uomini atti ad impedire il ripetersi di casi «Biblioteca Raffaelli»
((A. Galeazzo Galeazzi, Di una
biblioteca patrizia marchigiana e della sua dispersione, pp. 54-55).
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Palazzo Raffaelli, ingresso monumentale di via Cavour (foto del 28/12/2003)
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Particolare,
stemma familiare (foto del 5/10/2008)
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Palazzo
Raffaelli, ingresso corso Garibaldi (foto del 5/10/2008)
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CIL
IX, 5692 (foto
del 28/12/2003) |
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CIL
IX, 5695 (foto del 28/12/2003) |
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Fonte:
A.
Galeazzo Galeazzi, Di una biblioteca patrizia marchigiana e della sua
dispersione, "Accademie e Biblioteche d’Italia", 11 (1937), pp. 48-55
P.
Appignanesi, Guida della città e del territorio, in Cingoli. Natura
Arte Storia Costume, Cingoli 1994, p. 90
R. M. Borraccini,
«Nellʹabbondanza e sceltezza sono alcuni pezzi unici» La
Biblioteca De Minicis nella stima di Filippo Raffaelli (Fermo
1872), in P. Innocenti - C. Cavallaro (a cura di), Una
mente colorata. Studi in onore di Attilio Mauro Caproni per i
suoi 65 anni, Vecchiarelli, Manziana 2007, pp. 857-875 -
articolo on-line -
G. Granata, Tracce di una 'antica
ed importante' Biblioteca: la Biblioteca dei Marchesi Raffaelli
di Cingoli, Bibliothecae.it, Vol 7, No 1 (2018), pp. 3-57 -
articolo on-line -