Chiesa di San
Bonfilio
Località:
Monte Nero
Distanza da Cingoli:
Km 2
Coordinate
(google maps):
43°22'25.22"N 13°11'24.80"E
In un imprecisato periodo tra
la seconda metà del VI e l’inizio del IX secolo nella boscosa e impervia valle,
oggi chiamata di S. Bonfilio e dominata ad ovest dal Monte Nero, fu edificato da
un gruppo di stirpe longobarda un piccolo edificio sacro dedicato alla Vergine:
la chiesa di S. Maria di Fara.
Sullo scorcio del secolo XI Santa
Maria di Fara, che nel frattempo era passata alle dipendenze del monastero
benedettino di Santa Maria di Storaco di Filottrano, risorse a nuova vita
in conseguenza prima della presenza e poi della tumulazione di
S. Bonfilio. Quando infatti S. Bonfilio decise di ritirarsi a vita eremitica scelse la «remota convalle excelsis montibus circumdata» su cui
sorgeva l’antico oratorio di Santa Maria di Fara e
in tale luogo rimase fino
alla sua morte, avvenuta il 27 settembre del 1115. Con il passare degli anni però sia la chiesa, sia la tomba
del santo caddero gradualmente in abbandono.
Il culto di S. Bonfilio conobbe un periodo di rinnovata
fortuna tra la metà e la fine del secolo XII quando, almeno stando alla
tradizione agiografica, in conseguenza di un avvenimento miracoloso, avente per
protagonista un giovane infermo figlio di un «rusticus» della
vicina Isola degli Orzali, ne fu rinvenuta la tomba. Il numeroso e crescente
afflusso di fedeli spinse probabilmente le autorità ecclesiastiche a rinnovare e
forse a ingrandire l’antico edificio sacro in modo da soddisfare le esigenze di
culto.
In un imprecisato periodo compreso tra il 1241 e il 1248, il Comune di
Cingoli molto probabilmente sollecitò l’autorità diocesana a individuare
nell’Ordine di S. Benedetto di Montefano, oggi Congregazione Silvestrina,
fondato da S. Silvestro Guzzolini,
l’ordine religioso a cui cedere la
chiesa «Sancti Bonfilii vel Sancte Marie de Fara» e l’annesso beneficio.
Fra il
1241 e il 1248 Silvestro Guzzolini quindi fondò in montaneis Cinguli uno dei
suoi dodici monasteri sotto il titolo di Sancti Bonfilii vel Sancte Marie de
Fara.
I lavori di costruzione della chiesa e
dell’annesso monastero furono avviati molto probabilmente nel 1251 e furono
portati a termine circa due anni dopo. A
termine e quasi a suggello dei lavori di edificazione della nuova struttura
sacra, vuole la tradizione, vi furono traslate all’interno le spoglie di S.
Bonfilio.
Nella seconda metà del XVI secolo Stefano Moronti
lamentava che nonostante S. Bonfilio fosse stato almeno in parte restaurato e vi
si conducesse "bona vita" tuttavia "pochi vi vanno, credo perchè bisogna andare
dal priore et camerlengo di San Benedetto di Cingoli per ogni minima cosa...".
Il monastero fu abitato fino alla soppressione innocenziana del 15 ottobre 1652
e successivamente divenne abbazia titolare. Il primo giugno del 1681 le spoglie
di S. Bonfilio furono traslate nella chiesa di S. Benedetto di Cingoli. In
seguito alla soppressione napoleonica il monastero passò in mano dei privati e
fu adibito a casa colonica. Nel 1940
cadde il tetto del monastero e nella notte del 29 gennaio 1961 crollarono anche le volte della chiesa
travolgendo anche una parete laterale.
Fonte:
L. Pernici, L’insediamento della congregazione
silvestrina in Cingoli, Cingoli 2007
F. Radicioni, Monastero di S. Bonfilio presso
Cingoli (Macerata), "Inter Fratres", XXI, 1971, pp. 67-89
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Chiesa di S. Bonfilio - lato sud
(foto del 7/5/2017) |
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Chiesa di S. Bonfilio - lato est
(foto del 7/5/2017) |
Descrizione degli stabili
del convento e della chiesa di S. Bonfilio come apparivano nel 19301
<Il convento, congiunto alla chiesa, si estendeva verso il
lato nord ad aveva lo scantinato, il piano terra ed un primo piano, che nel 1930
era già scomparso, per il cedimento dei pavimenti. Non sembra che fosse a pianta
quadrata con il cortile ed il chiostro poiché non c'era nessuna traccia. Nel
lato ovest, si apriva la porta principale, molto semplice, con l'arco a
tutto sesto in pietra levigata. Sulla facciata al primo piano si allineavano le
finestrine irregolari delle celle dei frati (anch'esse di fattura semplice e
senza fastigio) e delle quali alcune erano cementate. A destra, addossato alla
chiesa, vi era un male andato forno, usato dalla povera gente che vi abitava per
carità. A sinistra, un'appendice orizzontale; posta all'angolo estremo del
convento, verso nord in parallelo con il corpo della chiesa, era adibita ad
ovile nel piano terra e a magazzeno nel piano superiore. Nel lato est si
scorgevano le finestrine antiche romaniche e originali del secolo XIII, delle
quali alcune erano chiuse. Sotto, in questo stesso lato si apriva la porta dello
scantinato a pietra levigata, che dava accesso ad un antro grande quanto tutto
il convento, fatto a volta reale con archi romanici sostenuti da pilastri
addossati alle pareti; questo locale ai frati serviva da cantina e legnaia, ma
nel 1930 invece era adibito ad ovile e ripostiglio di attrezzi agricoli.
Entrando per la porta principale, che si apriva nel lato ovest, ci si trovava in
un'ampia sala con' un grande camino ed ampio focolare, in ultimo diventata
cucina. Nell'interno, sul primo piano dovevano essere le celle dei frati, mentre
nel piano terra dovevano essere sistemate le stanze a giorno, la cucina, il
refettorio, la dispensa, ma nel 1930 tutto era ridotto al solo piano terra per
il cedimento dei pavimenti del primo piano.
La chiesa in stile romanico ogivale in pietra squadrata
ricavata nel territorio del cingolano, era stata costruita con gli schemi
dell'arte dell'epoca a tetto spiovente e ricoperto di coppi. La facciata, ancora
esistente, è semplice, il portale, a pietra levigata ad arco a tutto sesto, e
piccolo e non ha ornamenti; al di sopra di esso vi è una cornice aggettata sulla
quale si apre nel centro una monofora romanico-gotica a strombatura
nell'interno, che permetteva l'illuminazione con i raggi del sole quando volgeva
al tramonto. Nel lato sud, ancora in piedi, è ricavata un'altra monofora, dello
stesso stile della chiesa, mentre nell'abside, a linea retta, appare una
monofora ad arco acuto che fu chiusa con pietre nei tempi successivi per
modifiche recate nell'interno. Nel lato nord, vi era la congiunzione col
convento, che si sviluppa da quella parte verso il poggiuolo. Questa parete è
caduta nella notte del 29 gennaio 1961 e con essa è precipitato anche il tetto,
quando già da decenni il convento era ridotto ad un cumulo di macerie.
Da questo lato nord non esistevano finestre; solo si
scorgeva un arco chiuso in romanico, che doveva essere una porta, aperta per
comodità della comunità per opera del priore P. Valente come si leggeva nella
sua chiave di volta: « In nomine Domini Amen / factum est hoc opus R. Anno
Domini MCCCVIII / tempore prioratus P. Valentis / + signum fratris Rainierii
». L'interno della chiesa era ad una navata in stile ogivale; il tetto era
sostenuto dal soffitto a volta reale ad arco spezzato, intonacato di calce; una
serie di anfore di terra cotta cementate con l'apertura voltaall'ingiù
all'inizio della volta a sesto acuto, sia nella parte sinistra che in quella
destra permetteva la sonorità dell'ambiente oltre che l'alleggerimento della
massa della volta.
Presso lo stipite di questo altare ove iniziava l'arco
trionfale di esso, sul pavimento, si apriva una piccola incavatura, che spesso
racchiudeva alcuna limitata quantità di acqua,
che i fedeli raccoglievano per gli ammalati. Questa devota tradizione è
antichissima, forse quanto la chiesa stessa, ma non se ne conosce
l'origine; si suppone legata alla memoria di S. Bonfilio o di
S. Silvestro o di qualche altro santo o beato dell'Ordine. Di ciò non ho trovato
notizia in alcun luogo. Nelle pareti laterali vi erano quadri ed affreschi, ma
tutto è precipitato; solo alcuni affreschi rimangono nella parete a cornu
epistolae: essi raffigurano l'uno S. Rocco ulcerato, l'altro la Madonna e Santi;
sono ridotti in stato pietoso. Un ricco fastigio in
travertino con ornamenti rinascimentali è sulla parete absidale ed ha nella
fascia sopra l'arco la scritta «Sancti Bonfilii Episcopi et Confessoris
Reliquiae hic recognitae»; campeggia nel mezzo lo stemma della Comunità di
Cingoli. Più sotto, in corrispondenza all'altezza dell'altare maggiore, si apre
nel muro absidale, un'apertura-custodia ben ornata di marmo e travertino
protetta da una grata ove per molti secoli è stata custodita la salma
di S. Bonfilio prima di essere trasportata nel monastero Silvestrino entro le
mura di Cingoli. Nel centro del presbiterio, distaccato dalla parete dell'abside
vi era l'altare maggiore, rifatto nel 1700 in muratura; durante la guerra
194,0-45 fu profanato, e quasi distrutto; ora giace sotto le macerie.
Di tutto quanto
è stato descritto non sono rimasti che pochi muri cadenti ed un enorme cumulo di
macerie sulle quali stanno crescendo già ortiche e pruni. Fra qualche anno nulla
più sarà visibile e per questo credo di aver fatto un'opera buona scrivendo
tutto quanto ho detto sopra, sperando, che la memoria dei Santi Bonfilio e
Silvestro e dell'ordine Silvestrino, assai illustre, si perpetui fra i Cingolani
e gli amatori di storia>.
(1) A. Pennacchioni, L'ordine di San Silvestro a
Cingoli nel secolo XIII, in I Benedettini nelle valli del Maceratese,
Atti del II Convegno di Studi Maceratesi, Abbadia di Fiastra – Tolentino 9
ottobre 1966, "Studi Maceratesi" 2, Ravenna 1967, pp. 232-234
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Iscrizione di S. Bonfiglio (da Avarucci-Salvi, tav. XXXIX)
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Trascrizione di
A. Vogel, XVIII sec. (da Avarucci-Salvi, tav. XXXIX) |
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“Nella chiesa di S. Bonfilio fuori
Cingoli dalla parte di fuori, sopra una porta murata, nella pietra di
mezzo dell’arco”
(1) si trovava un’iscrizione incisa su una “pietra di
fosso lungo un palmo e due once circa et alta un palmo”
(2) che riportava, in caratteri
gotici, il seguente testo:
In no(m)i(ne) . D(omin)i . am(en). Fac
tu(m) e(st) hoc op(us) s(u)b .
an(no) . D(omin(i . M . C . C . C . V . I . I. I
tempore pri
orat(us) . f(ratris) . Vale(n)tis
s(ignum) f(ratris) . Rainoni(s)
I due personaggi ricordati nell’epigrafe, menzionati anche
da altre fonti, sono Valente, priore del monastero di S. Bonfilio e
Rainone, oblato nello stesso monastero
(3).
(1) N. Vannucci, Libro B, Biblioteca Benedettucci, Recanati, f.
212r
(2) N. Vannucci, Libro C, Biblioteca Benedettucci, Recanati, f.
229r
(3) G. Avarucci - A. Salvi, Le iscrizioni medioevali di Cingoli, Padova 1986, pp. 87-89
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Come altri edifici sparsi nel territorio
cingolano anche il complesso di S. Bonfilio ha subito la stessa tragica sorte.
L’incuria e l’indifferenza hanno portato alla rovina questi edifici e con essi
la nostra memoria storica, il nostro passato.
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Chiesa di S. Bonfilio, 1925 (archivio S. Mosca) |
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Chiesa di S. Bonfilio, 1930 (tratto da: F. Radicioni, Monastero di S. Bonfilio presso
Cingoli (Macerata), p. 75) |
Chiesa di S. Bonfilio, 1938 (tratto da: L. Pernici, L’insediamento della congregazione
silvestrina in Cingoli, tav. XXI-XXII) |
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Cornice architettonica dell'altare, inizi anni '60 del XX sec.
(tratto da: L. Pernici, L’insediamento della congregazione
silvestrina in Cingoli, tav. X) |
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Chiesa di S. Bonfilio, anni '60 del XX sec. (tratto da: F. Radicioni, Monastero di S. Bonfilio presso
Cingoli (Macerata), p. 80) |
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Chiesa di S. Bonfilio, anni '70 del XX sec. (tratto da: F. Radicioni, Monastero di S. Bonfilio presso
Cingoli (Macerata), p. 80) |
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Chiesa
di S. Bonfilio, 10/3/1974
(foto
di S. Mosca) |
Chiesa
di S. Bonfilio, 10/3/1974
(foto
di S. Mosca) |
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Chiesa
di S. Bonfilio, 10/3/1974 (foto
di S. Mosca) |
Chiesa
di S. Bonfilio, iscrizione dell'architrave, 10/3/1974 (foto
di S. Mosca) |
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Affresco,
10/3/1974
(foto
di S. Mosca) |
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Affresco, 2017 (foto del 7/5/2017) |
L’insediamento della congregazione
silvestrina in Cingoli. Studio storico-critico2
<Il movimento monastico, oggi Congregazione silvestrina,
sorto sulla scia del carisma e in seguito alla predicazione del nuovo ideale di
vita propugnato dal canonico Silvestro Guzzolini (Osimo, 1177–Montefano di
Fabriano, 26 novembre 1267), fu approvato ufficialmente dal pontefice Innocenzo
IV con la bolla Religiosam vitam, emanata da Lione il 27 giugno 1248, con
il nome di «Ordo sancti Benedicti de Montefano». Le vicende, soprattutto
iniziali, di tale movimento furono in notevole misura e per ragioni diverse, come
è stato da più parti rilevato e posto in luce, legate alla città di Cingoli e al
suo territorio. Silvestro Guzzolini fonderà infatti tra il 1241 e il 1248, a un
decennio circa di distanza dall’inizio della sua predicazione, «in montaneis
Cinguli», su un piccolo rilievo della valle oggi detta di “S. Bonfilio”,
sotto il titolo «Sancti Bonfilii vel Sancte Marie de Fara», uno dei primi
monasteri dei dodici indicati dal documento pontificio del 1248 là dove sono
elencati i luoghi appartenenti al nuovo Ordine. Fondazione, questa, che venne in
certo qual modo a “ufficializzare” come luogo silvestrino una località e un
ambiente prediletti o per lo meno cari al canonico osimano sin dalle fasi
iniziali della sua crisi spirituale e della conversione che a questa seguì.
L’oratorio di Santa Maria
di Fara
L’agionimo «S. Maria de Fara», che si trova annesso,
come già si è potuto notare, a quello di «S. Bonfilius»
nell’intitolazione della chiesa silvestrina cingolana nella bolla papale
Religiosam vitam del 1248, è attestato per la prima volta in un piccolo
codice pergamenaceo, contenente la legenda della vita di san Bonfilio,
databile al secondo quarto del XIII secolo e conservato nel monastero di S.
Silvestro in Montefano. In questo racconto - il cui autore è da riconoscere
forse nello stesso fondatore dell’Ordo sancti Benedicti de Montefano
Silvestro Guzzolini - si legge infatti che l’osimano Bonfilio, lasciato il
chiostro di Santa Maria di Storaco presso Filottrano, deciso a ritirarsi a vita
eremitica scelse come sua dimora appunto la «remota convalle excelsis
montibus circumdata», cioè la valle dominata dal Monte Nero, su cui sorgeva
l’edificio sacro intitolato a Santa Maria di Fara. Di questa costruzione,
presumibilmente di ridotte dimensioni, che documenti notarili del XIII secolo
indicheranno non a caso con il termine oratorium, non è possibile
indicare con precisione il tempo della edificazione, ma considerando che, come
si desume dalla descrizione fornita dal racconto agiografico al quale si è
appena fatto riferimento, essa doveva apparire sul finire del XII secolo, cioè
al tempo in cui vi giunse san Bonfilio, quasi completamente diroccata,
sembrerebbe doverglisi attribuire una certa antichità. Una indeterminatezza
temporale, questa appena rilevata, che può essere però annullata, almeno in
parte, sulla base della corretta considerazione di un elemento proprio dello
stesso titolo dell’edificio sacro: il toponimo Fara.
Il vocabolo fara è infatti un termine di origine
germanica che rimanda in modo particolare ai Longobardi e che indica «l’insieme
dei parenti che derivano da un progenitore comune», ovvero, «ciascun
gruppo gentilizio o parentale-familiare costituito dalle famiglie e dagli
individui discendenti da un capostipite comune o anche aggregati da vincoli
agnatizi» (Enciclopedia
italiana di scienze, lettere ed arti, Istituto della
Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma 1929-1936, vol. XIV, v.
Fara; Salvatore Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana,
UTET, Torino 1972, vol. V, v. Fara).
(...)
Ebbene, molto probabilmente fu proprio un gruppo di
origine longobarda a costruire, in un imprecisato periodo tra VI e IX secolo,
negli immediati dintorni dell’attuale Cingoli, nella valle oggi detta di “S.
Bonfilio”, l’edificio sacro poi indicato come oratorio di Santa Maria di
Fara.
E’ da osservare infatti che durante l’insediamento
longobardo il territorio di Cingoli era smembrato dalla linea di confine tra la
Pentapoli bizantina e il Ducato longobardo di Spoleto. Il limes
dall’attuale Staffolo (toponomino che deriva etimologicamente da un altro
termine germanico quale staffal, “palo di confine”, “cippo”) scendeva in
direzione di Colognola, ove esisteva la chiesa di S. Michele (santo il cui
culto ebbe una notevole importanza preso i longobardi) della Ghiffa
(termine, derivante dal germanico wiffà, che ha significato
analogo a staffal seppur riduttivo indicando il “ciuffo di paglia
usato come segno di possesso”), quindi proseguiva verso la valle dominata
dal Monte Nero, in fondo alla quale, nella zona indicata nei documenti antichi
come Fundus Gurgistellae vel Buraci, sorgeva la chiesa di
S. Bartolomeo (un altro dei santi particolarmente venerati dai Longobardi),
per dirigersi poi alla volta della Cingulum romana e infine piegare verso
l’attuale Avenale. L’ampia valle nei dintorni dell’abitato cingolano che oggi
prende il nome da san Bonfilio fu dunque una località interessata da un
insediamento longobardo della prima ora. Il piccolo edificio sacro dedicato alla
Vergine, e nel cui titolo è ricordato appunto come toponimo il vocabolo fara,
sorse proprio su una zona legata all’originario stanziamento longobardo nella
parte mediana della penisola italica.
Sulla base di quanto
osservato e posto in luce mi sembra dunque del tutto inaccettabile l’opinione
sostenuta da Adriano Pennacchioni, ripresa da Fortunato Radicioni e tacitamente
accolta dalla successiva storiografia silvestrina, secondo la quale l’oratorio
di Santa Maria di Fara sarebbe stato invece fondato sì da alcune famiglie
longobarde, ma rifugiatesi nella valle cingolana sul finire del VIII secolo in
seguito all’imporsi del potere franco sulla penisola italica.
A ulteriore negazione di tale tesi e invero a sostegno di
quanto da me sostenuto relativamente alla considerazione della valle dominata
dal Monte Nero come luogo interessato dal primo insediamento longobardo, vanno
presi in considerazione i numerosi toponimi riscontrabili sul territorio
limitrofo alla medesima valle nei quali, seppur smorzati dal tempo, sono
evidenti, per dirla con lo storico della cultura longobarda Francesco Sabatini,
i «riflessi linguistici della dominazione longobarda»
(
F. Sabatini, Riflessi linguistici della
dominazione longobarda nell’Italia mediana e meridionale in Atti e memorie
dell’Accademia toscana di scienze e lettere “La Colombara”, XXIII, 1963-64, pp.
125-249), ovvero, nello specifico caso cingolano, i riverberi di
antiche tradizioni cultuali e rituali proprie della società e della cultura
longobarda originaria.
Uno fra i tanti che qui potrebbero prendersi ad esempio,
forse il più suggestivo, è il toponimo “scoglio della vipera” indicante
il luogo leggermente distante dalla zona in cui sorgeva il così detto Ponte
della Petrella, demolito per la costruzione della diga dell’invaso di
Castreccioni. E’ certo infatti che la vipera deteneva una posizione privilegiata
all’interno della cultura magico-religiosa longobarda e che, di conseguenza, era
al centro di cerimonie di carattere totemico come quella che si trova narrata
nella Vita Barbati episcopi Beneventani, secondo cui i longobardi,
raccogliendosi in una zona pianeggiante appena fuori l’insediamento abitativo,
erano soliti lanciare i cavalli al galoppo accanendosi a colpire con le lance
una pelle di vipera appesa al loro albero sacro (molto probabilmente un noce o
forse una quercia) che poi spartivano religiosamente, ingoiandone un brandello
ciascuno.
Ritengo inoltre non sia da tralasciare a tale medesimo
proposito, al di là di altri che pure potrebbero essere presi in considerazione
quali Beccherella, Pian dell’Alto, Pian del Tino,
Vallone delle Cerase, tutti quasi sicuramente di ascendenza germanica, il
toponimo Perticheto, attestato già nel 1325, che designa la fascia del
fondovalle posta al di là del Fosso di S. Bonfilio, che potrebbe derivare, come
correttamente ha posto in rilievo Paolo Appignanesi già in un suo contributo del
1983, dalla presenza di un cimitero longobardo. E’ noto infatti l’uso longobardo
di erigere nelle proprie necropoli, quasi fosse un cenotafio, una pertica
sormontata da figure lignee di uccelli (particolarmente frequente la colomba)
rivolte verso il punto dell’orizzonte in cui si pensava fosse caduto il
guerriero del quale la salma non era tornata dalla battaglia o del congiunto che
fosse morto, per le più diverse ragioni, lontano dal proprio luogo di residenza.
Che la costruzione dell’oratorio di Santa Maria di Fara sia
da porre in relazione inoltre con quel generale e complesso fenomeno concernente
il passaggio dal paganesimo o dall’arianesimo paganeggiante al cristianesimo che
interessò le popolazioni barbariche - nel nostro specifico caso longobarde -
insediatesi nella penisola italica sembrerebbe corroborata, stando a quanto si
legge in un atto notarile del marzo 1280 appartenuto al monastero di S. Caterina
di Cingoli, dall’esistenza in un punto imprecisato di questa medesima zona di
una «tumba sancte Novite». Novita, presumibilmente da “nova
vita”, è infatti un antroponimo in cui, in modo peraltro abbastanza
esplicito, risuona, e dunque è ricordata, la freschezza e la ricchezza di quel
messaggio cristiano con cui la cultura pagana delle popolazioni barbariche
dovette necessariamente prima confrontarsi e poi gradualmente, anche se non
sempre pacificamente, fondersi.
Ecclesia Sancti
Bonfilii vel Sancte Marie de Fara
In un imprecisato periodo tra
la seconda metà del VI e l’inizio del IX secolo nella boscosa e impervia valle
dominata dal Monte Nero fu edificato da un gruppo di stirpe longobarda un
piccolo edificio sacro dedicato alla Vergine. La conversione delle popolazioni
barbariche al credo cattolico-cristiano avvenne infatti generalmente all’insegna
della Madre di Dio. Molto probabilmente per il motivo che nella figura della
Vergine e nell’originario culto a essa collegato la mentalità pagana riconosceva
una affinità, una consonanza e forse alcuni tratti di identità con tutta quella
complessa simbologia dei riti della fertilità e della fecondità che in essa era
generalmente associata proprio a figure femminili. Molti infatti dei pur
numerosi edifici sacri che i longobardi costruirono sul territorio italico
all’indomani della loro conversione al credo cattolico furono intitolati proprio
a Maria.
Con il passare del tempo, non
molto tardi probabilmente, per motivi forse destinati a rimanere sconosciuti,
coloro che restavano della originaria fara longobarda si trasferirono
altrove e tutto fu abbandonato e cadde in rovina. Sullo scorcio del secolo XI il suddetto oratorio di Santa
Maria di Fara, che nel frattempo era passato alle dipendenze del monastero
benedettino di Santa Maria di Storaco, presso Filottrano, risorse a nuova vita
in conseguenza prima della presenza e poi della tumulazione di san Bonfilio.
Quando infatti il santo osimano, lasciato il chiostro di
Santa Maria di Storaco, decise di ritirarsi a vita eremitica scelse come sua
stanza appunto la «remota convalle excelsis montibus circumdata» su cui
sorgeva l’antico oratorio di Santa Maria di Fara.
(...)
In tale luogo san Bonfilio
passò il resto della sua vita e proprio dirimpetto all’antico oratorio qui sito
- «iuxta murum dicti oratorii» si legge nella Vita - ne venne
inumato il corpo.
(...)
Con il passare degli anni però sia l’oratorium, sia
la tomba del santo, posti com’erano in un luogo così difficilmente accessibile e
lontano rispetto al nucleo urbano, caddero gradualmente in abbandono, con tutte
le relative conseguenze.
(...)
Se dunque il luogo in cui visse nella preghiera e nel
silenzio e poi trovò sepoltura san Bonfilio cadde in rovina, abbandonato
all’avanzare incessante della vegetazione, non subì invece medesima sorte la
devozione tributatagli dai cingolani. Il culto di san Bonfilio conobbe anzi un
periodo di rinnovata ampia fortuna a partire dallo spazio di tempo che, seppur
con una certa dose di incertezza, può essere collocato tra la metà e la fine del
secolo XII quando, almeno stando alla tradizione agiografica, in conseguenza di
un avvenimento miracoloso, avente per protagonista un giovane infermo figlio di
un «rusticus» della vicina Isola degli Orzali, ne fu rinvenuta la
tomba, totalmente coperta, secondo il suggestivo latino del biografo, da una «condensa
multitudo […] ruborum veprium et spinarum».
(...)
Il piccolo e ormai diroccato
oratorio di Santa Maria di Fara divenne dunque in seguito al “miracoloso”
rinvenimento meta di frequenti pellegrinaggi da parte dei fedeli che vi si
recavano per pregare e onorare il santo vescovo osimano.
(...)
E’ in tale episodio probabilmente che va individuato il
termine post quem oltre che della formazione e diffusione del culto di
san Bonfilio in terra cingolana, che sfocerà poi, sul finire del XVII secolo,
nella conseguente sua elezione a compatrono della città, anche - cosa di più
diretto interesse ai fini di questo studio - dell’avvio della tradizione
toponomastica indicante come valle di “S. Bonfilio” l’impervia
zona boscosa nella quale forse già dal secolo VI sorgeva l’edificio sacro
dedicato alla «sancta Dei genitricis semper virginis Mariae», ovvero
l’oratorio di Santa Maria di Fara.
Il numeroso e crescente afflusso di fedeli spinse
probabilmente le autorità ecclesiastiche a rinnovare e forse a ingrandire
l’antico e disfatto edificio sacro in modo da soddisfare convenientemente alle
esigenze di culto. Tale ricostruzione è inoltre lecito pensare coincise anche
con l’affermarsi della tradizione toponomastica, già consolidata all’alba del
secolo XIII, indicante come “ecclesia S. Bonfilii” la precedente
longobarda Santa Maria di Fara. E ancora, fu verosimilmente in questo
stesso periodo che il vetusto oratorio fu dotato del beneficio ecclesiastico, di
cui parlano documenti del secolo XIII, che doveva servire quasi di certo per il
mantenimento di un cappellano con l’incarico di custodire il piccolo santuario e
di garantirne le funzioni sacre. In un atto notarile pergamenaceo rogato in
Cingoli il 24 agosto 1237, appartenuto al monastero di Santa Caterina di
Cingoli, si riportano infatti un compromesso e la sentenza concernenti la
permuta di un terreno facente parte del beneficio annesso al suddetto edificio
sacro («terra Sancti Bonfilii sita in fundo Gurgistelle vel Buraci») tra
un certo «frater Silvius rector hospitalis Buraci» e «dominus Ugolinus
cappellanus ecclesiae S.Bonfilii».
La
prima comunità silvestrina nella valle di S. Bonfilio
Sulla base di quest’ultimo documento è possibile affermare
che sul finire dell’estate del 1237 Silvestro Guzzolini non aveva ancora
insediato una sia pur piccola comunità della sua congregazione nella valle di S.
Bonfilio, nè vi aveva fondato quella «ecclesia cum pertinentis suis»
indicate nella bolla papale del 1248 là dove sono elencati i luoghi appartenenti
al nuovo Ordine. Il «Dominus Ugolinus», parte in causa nella permuta
oggetto del suddetto atto notarile, risulta infatti - come ha dimostrato in modo
convincente Adriano Pennacchioni - un semplice beneficiato, probabilmente laico,
non appartenente a nessun ordine religioso, nè tantomeno dunque a quello facente
capo a san Silvestro, che a tale data non era ancora stato canonicamente
confermato.
Non esiste purtroppo nemmeno un documento che accenni al
tempo in cui Silvestro Guzzolini avrebbe insediato la sua congregazione nella
valle di S. Bonfilio, ma senza alcun dubbio si deve ammettere che ciò avvenne tra
il 1237 e il 1248: termini post quem e ante quem rispettivamente
desunti dalle due fonti documentarie indirette già citate, ovvero dall’atto
notarile appartenuto al monastero delle monache cistercensi di Santa Caterina di
Cingoli e dalla bolla papale Religiosam vitam. Datazione che sembrerebbe
però potersi restringere al periodo che va dal 1241 al 1248, spingendo cioè in
avanti il termine post quem di un quadriennio, sulla base di un documento
del 30 dicembre 1240, conservato nell’Archivio del monastero di S. Silvestro in
Montefano, in cui, come ha fatto notare Ugo Paoli, «donnus frater Silvester»
risulta «prior universitatis et collegii heremi Sancti Benedicti de
Montisfani et congregationis fratrum de Ripalta et fratrum de Grocta», ma
non ancora di S. Bonfilio.
Ebbene, in un imprecisato periodo compreso tra il 1241 e il
1248, venuta meno per motivi oggi ignoti la concessione del beneficio
ecclesiastico al suddetto cappellano «dominus Ugolinus», il Comune di
Cingoli - cui fonte di prestigio e potere era all’epoca, come peraltro per tutta
la municipalità italiana coeva e in generale, si può affermare, per ogni
istituzione politica in qualsiasi tempo in qualche modo legata all’ambiente
cattolico, quello della garanzia del culto della santità nel proprio territorio
- molto probabilmente sollecitò l’autorità diocesana a individuare proprio nella
nuova congregazione monastica Silvestrina l’ordine religioso a cui cedere la
chiesa «Sancti Bonfilii vel Sancte Marie de Fara» e l’annesso beneficio,
così come circa un secolo prima, intorno agli anni Quaranta del XII secolo,
aveva fatto con i benedettini avellaniti, cioè i camaldolesi di Fonte Avellana,
relativamente al santuario di S. Esuperanzio.
(...)
La
costruzione della nuova chiesa dedicata a S. Bonfilio
Per motivi che vanno individuati molto probabilmente nella
ristrettezza del plurisecolare fabbricato di «Sanctus Bonfilius vel Sancta
Maria de Fara» e nella conseguente inadeguatezza di questo ad ottemperare
convenientemente alle necessità della vita claustrale, della liturgia e del
culto, intorno alla metà del XIII secolo furono avviati i lavori di edificazione
di un monastero e di una nuova chiesa, all’interno della quale saranno poi
traslate, come si vedrà, anche le venerate spoglie di san Bonfilio. Adriano
Pennacchioni, nel suo più volte citato contributo, sostiene che «queste nuove
costruzioni sorsero in luogo diverso da dove erano stati fino ad ora i frati
[i silvestrini]; infatti queste furono elevate sul poggiuolo che sta a
contrafforte della montagna posta nel lato sud della valle e di esse ancora
oggi, in quello stesso luogo, si possono scorgere le rovine»
(A. Pennacchioni, L’Ordine
benedettino di S. Silvestro in Cingoli nel secolo XIII. Studio storico edito in
occasione del VII centenario della morte di S. Silvestro fondatore dell’Ordine,
Macerata 1967, p. 27).
Una affermazione, anche essa
riproposta dal Radicioni e di conseguenza accettata dalla storiografia
silvestrina successiva, che a ben guardare deve però considerarsi come mera
opinione, non trovando riscontro e sostegno non solo - il che già basterebbe -
in nessun documento, ma nemmeno in quel difficilmente valutabile prodotto che è
la tradizione orale, che risulta pure, a volte, proprio in materia di agiografia
strumento prezioso di informazione.
Tale opinione si basa invero su una arbitraria
interpretazione dello stesso Pennacchioni del passo della Vita Bonfilii
in cui relativamente al piccolo oratorio di Santa Maria di Fara si afferma
questo essere:
«situm in remota convalle excelsis montibus circumdata, que arboribus magni et
vetustis, condempsisque nemoribus erat plena».
Ebbene, a commento di tale brano Pennacchioni,
inspiegabilmente, scrive - riporto testualmente - «ciò dicendo il citato
documento ci fa intendere che la chiesa di S. Maria di Fara si trovava nel fondo
valle cioè più in basso di dove è l’attuale chiesa [S.Bonfilio]»
(A. Pennacchioni, L’Ordine
benedettino di S.Silvestro in Cingoli nel secolo XIII. Studio storico edito in
occasione del VII centenario della morte di S. Silvestro fondatore dell’Ordine,
Macerata 1967, p. 10). Il testo latino afferma invero semplicemente che - cito
dalla recente traduzione fattane dallo storico silvestrino Gino Fattorini - il
piccolo oratorio di origine longobarda «era posto in una località situata in
una valle appartata circondata da alti monti e coperta di maestosi alberi
secolari e di fitte boscaglie»
(U. Paoli (a cura di), Alle fonti della
spiritualità silvestrina, II, Vita di San Silvestro, Beato Giovanni dal Bastone,
Beato Ugo, San Bonfilio, Fabriano 1991, p. 275). Si tratta cioè di nient’altro che di una generale
descrizione del luogo dominato dal Monte Nero, senza nessun intento di
specificazione di un sito particolare. Non c’è dunque ragione alcuna per
seguire quanto sostenuto da Adriano Pennacchioni nel suo studio relativamente a
tale questione.
Per contro, mi sembra assai più logico e plausibile
proporre che la costruzione della nuova chiesa dedicata a S.Bonfilio sia
avvenuta sul medesimo luogo in cui sorgeva il piccolo oratorio di Santa Maria di
Fara. In altri termini, è molto probabile che l’edificazione della nuova
struttura non sia stata nient’altro, fondamentalmente, che una ri-costruzione di
quella antica.
A favore di tale ipotesi depongono, peraltro, numerosi
diversi testimoni.
1) Lo storico silvestrino Stefano Moronti,
raccoglitore e compilatore accorto e solitamente preciso delle memorie del
proprio ordine, alla fine del secolo XVI, nel suo Repertorio de le scritture
di tutti i luoghi de la Congregazione Silvestrina, trattando
dell’insediamento silvestrino nella valle cingolana, non fa assolutamente
distinzione, come ha notato anche il Radicioni, tra l’oratorio di Santa Maria di
Fara e la nuova costruzione.
2) Assenza di distinzione che risulta ulteriormente
confermata da tre passi relativi a S. Bonfilio contenuti in due manoscritti
dell’Archivio vescovile di Cingoli, in cui sono riportate le relazioni delle
visite canonico-pastorali fatte in territorio cingolano nel 1734 e nel 1817. Nei
primi due dei suddetti tre luoghi si legge infatti, identicamente:
«[…] fra li altri
monasteri, che abitarono questi suoi [di san Silvestro] discepoli uno fù
quello di S.Maria della Fara, lungi dalla città di Cingoli per il tratto
di un miglio e mezzo in circa, in oggi chiamato S.Bonfilio»
(M.
Maran in Diocesi di Cingoli, Sacre Visite 1726-1858, Cingoli 1979, pp.
108 e 316).
Nel terzo e ultimo luogo, nello specifico della trattazione
della vicenda della traslazione delle spoglie di S. Bonfilio, nell’anno 1681,
dalla chiesa sita nella valle dominata dal Monte Nero alla chiesa urbana di S.
Benedetto, non solo non si fa distinzione tra Santa Maria della Fara e S.
Bonfilio, ma addirittura si utilizza esclusivamente il primo titolo, cioè S.
Maria della Fara, in luogo della forma più volte ricorrente e tradizionale
S.Bonfilii vel S. Maria de Fara, per indicare l’edificio silvestrino
extra-urbano: «Nell’anno
1681 - si legge appunto in questo documento - per comando della S. M.
d’Innocenzo XI fu trasferito con pompa il Venerabile Corpo di S. Bonfiglio
dalla sua chiesa di
S. Maria della Fara nella chiesa di S. Benedetto»
(M.
Maran in Diocesi di Cingoli, Sacre Visite 1726-1858, Cingoli 1979, p
343).
3) L’identificazione dei due fabbricati è affermata anche in un manoscritto
ottocentesco appartenuto alla nobile famiglia cingolana Onori e noto appunto con
tale nome. In questo documento, nel luogo in cui è trattata la medesima suddetta
vicenda della traslazione delle spoglie di S. Bonfilio, si legge infatti: «Si
stabilì dal Consiglio […] che le ossa di S. Bonfiglio dalla chiesa
antica del suo nome detta altresì di S. Maria della Fara si trasferissero in
S. Benedetto» (M.
Maran, Cingoli scomparsa, Cingoli 2000, p. 72).
4) Inoltre è possibile sostenere con una certa
probabilità l’identificazione dei due edifici sacri in questione anche sulla
base di un dato questa volta non di natura documentaria, bensì archeologica: la
presenza all’interno della chiesa, sul pavimento, di una incavatura artificiale
nella roccia. Nella sua Descrizione degli stabili del convento e della chiesa
di S. Bonfilio come apparivano nel 1930, inserito in appendice al più volte
citato studio sulle origini della congregazione silvestrina a Cingoli, Adriano
Pennacchioni scrive che:
«Presso lo stipite di questo altare [quello posto sulla parete sud]
ove iniziava l’arco trionfale di esso, sul pavimento, si apriva una piccola
incavatura, che spesso racchiudeva alcuna limitata quantità di acqua, che i
fedeli raccoglievano per gli ammalati». E subito di seguito, relativamente a
tale usanza, nota: «Questa devota tradizione è antichissima, forse quanto la
chiesa stessa, ma non se ne conosce l’origine. […] Di ciò non ho trovato
notizia in alcun luogo».
La dichiarazione di ignoranza fatta da Pennacchioni
relativamente all’origine della suddetta usanza e, per conseguenza,
relativamente alla presenza all’interno del duecentesco edificio dell’incavatura
nella roccia usata a mo’ di fonte, sommata alla considerazione - penso per tutti
abbastanza ovvia e che trapela peraltro anche dalle stesse parole di
Pennacchioni - della estraneità di quest’ultima rispetto a una chiesa cristiana,
mi sembra possano far propendere per l’idea di una origine della suddetta cavità
di molto precedente rispetto all’epoca dell’avvento di san Silvestro e, con ogni
probabilità, anche di quello di san Bonfilio.
L’acqua, nello specifico
l’acqua che sgorga, è un elemento che, nella sua tanto antica quanto complessa
simbologia, è al centro di numerosi e diversi culti e riti, legati ad
altrettanto numerose civiltà distanti nel tempo e nello spazio; culti e riti
dovuti anzitutto al valore sacro che l’acqua, come elemento cosmogonico,
incorpora in sé e di conseguenza, a livello locale, all’epifania
del divino, alla manifestazione della presenza sacra in una
certa fonte o corso d’acqua.
Ebbene, è probabile che la cavità artificialmente prodotta
nella roccia presente all’interno della duecentesca chiesa di S. Bonfilio sin
dalla sua origine sia da mettere in relazione con un culto e un rito dell’acqua
di ascendenza longobarda. L’elemento acqueo in generale, ma più nello specifico
alcune sue derivazioni come la fonte e la sorgente detenevano infatti una
posizione importante all’interno della tradizione e della cultura
magico-religiosa longobarda. Particolarmente significativo di tale importanza è
il contenuto del capitolo LXXXIV delle leggi emanate dal re longobardo
Liutprando, a varie riprese tra il 713 e il 735, ai fini di una decisiva svolta
in senso cattolico della società e della cultura del suo popolo. Con questo
sovrano, che definisce se stesso «christianus et catholicus» fin dal
primo prologo della stesura del suo corpus legislativo, prende avvio
infatti una repressione durissima di ogni aspetto ed elemento della tradizione
religiosa, militare, culturale longobarda la cui origine e/o il cui significato
siano riferibili al paganesimo. Di conseguenza, tale legislazione rappresenta
una fonte estremamente preziosa ai fini della conoscenza o della semplice
attestazione di riti e culti tradizionalmente praticati dalla popolazione
longobarda. Ebbene, nel suddetto capitolo LXXXIV, la cui promulgazione va
riferita all’anno 727, alla condanna rivolta a tutti coloro che frequentino
auguri e incantatori («arioli et precones») fa seguito proprio quella a
colui che «ad fontanas adoraverit, aut sacrilegium vel incantationis fecerit».
Una attestazione di un rituale legato a fonti acquatiche che si ritrova inoltre
in un altro famoso testo della produzione legislativa germanica: la
Capitulatio de partibus Saxoniae. Questa raccolta di leggi, rivolta da Carlo
Magno ai Sassoni vinti, ma non ancora pacificati, rappresenta, date le numerose
e strette affinità a tutti i livelli tra costoro e i Longobardi, una
testimonianza di un certo valore anche relativamente a questi ultimi. Dunque,
nel capitolo XXI di tale testo si impone la condanna per chiunque «ad
fontes aut ad arbores vel lucos votum fecerit aut aliquit more gentilium
obtulerit et ad honorem daemonum commederet».
Ebbene, l’incavatura nella roccia presente all’interno
della duecentesca chiesa di S.Bonfilio sin dalla sua origine va molto
probabilmente messa in relazione proprio con le fontanes o fontes
di cui si è appena detto.
In seguito alla graduale estinzione dell’etnia longobarda
l’uso religioso-rituale della suddetta incavatura non venne meno ma continuò in
qualche modo a sopravvivere, pur naturalmente perdendo i suoi specifici
originari caratteri, a livello di tradizione popolare, come appunto ricorda
Pennacchioni nel brano sopra riportato. «Il culto delle acque, specialmente
quello delle fonti ritenute curative - ha scritto a proposito Mircea Eliade
-, dimostra una impressionante continuità. Nessuna rivoluzione religiosa ha
potuto abolirlo; alimentato dalla devozione popolare, tale culto finì per essere
tollerato perfino dal cristianesimo, dopo le inutili condanne e persecuzioni che
si succedettero dal IV al XIII secolo»
(M. Eliade, Trattato di storia delle
religioni, Boringhieri, Torino 1954, p. 207).
Sulla base di tali
considerazioni ritengo si possa affermare con una certa plausibilità che i
silvestrini abbiano costruito alla metà del XIII secolo la loro chiesa dedicata
a S. Bonfilio sulle fondamenta o rovine di un precedente edificio di culto
risalente all’epoca longobarda, noto già all’alba del secolo XII come Santa
Maria di Fara. Nell’avviare i lavori di edificazione della chiesa avrebbero
pensato bene dunque quanto all’antica apertura nella roccia, dato il valore
rituale-terapeutico che rivestiva a livello popolare, di non eliminarla e di
dargli spazio anche all’interno della nuova struttura. In tal modo, mi sembra,
potrebbe spiegarsi infatti in maniera perlomeno verosimile l’altrimenti strana
presenza della suddetta incavatura all’interno di un edifico cristiano del XIII
secolo.
Che fosse stato Silvestro stesso a dirigere i lavori di
costruzione dei nuovi edifici (la chiesa e l’annesso monastero) non risulta né
dai documenti coevi, né dalla letteratura agiografica (nello specifico dalla
Vita Bonfilii e dalla Vita Silvestri), ma dalla tradizione orale,
raccolta e messa per iscritto alla fine del XVI secolo dagli storici silvestrini
Stefano Moronti e Sebastiano Fabrini.
Il Moronti nel suo Repertorio de le
scritture di tutti i luoghi de la Congregazione Silvestrina del 1581 afferma che la
chiesa e il monastero di S. Bonfilio esistenti ai suoi tempi si facevano
risalire probabilmente a san Silvestro anche per la somiglianza strutturale
della chiesa con quelle più grandi di S. Giovanni a Sassoferrato e di S. Bartolo
a Serra S. Quirico e con quella più piccola di Santa Maria di Grottafucile
(S. Moronti,
Repertorio de le scritture di
tutti i luoghi de la congregazione Silvestrina,
1581).
Il Fabrini, dal canto suo,
riferisce che «il corpo di questo glorioso santo [Bonfilio] essendo
stato lungo tempo nel sopraddetto luogo [nei pressi della vecchia chiesa
intitolata a S.Bonfilio e Santa Maria di Fara] ed essendosi rovinata la
piccola chiesa di Santa Maria della Fara, finalmente dal nostro glorioso padre
S.Silvestro abate fu trasferito nella chiesa grande da lui fabbricata sotto il
titolo di S.Bonfilio, come insino al giorno d’oggi si vede, con la
fabbrica appresso d’un monastero assai grande»
(S. Fabrini, Breve
cronica della congregazione dei monaci Silvestrini dell’Ordine di S. Benedetto,
Camerino, appresso Francesco Gioiosi, 1613, p. 224).
I lavori di costruzione della chiesa e dell’annesso
monastero furono avviati, come ha ampiamente dimostrato Pennacchioni nel suo più
volte citato lavoro, con il quale concorda il Radicioni, quasi sicuramente nel
1251 e furono portati a termine circa due anni dopo.
La questione
della traslazione delle spoglie di S. Bonfilio
A termine e quasi a suggello dei lavori di
edificazione della nuova struttura sacra, vuole la tradizione, vi furono
traslate all’interno le spoglie di san Bonfilio. Stando alla testimonianza
del Fabrini, sopra riportata, fu sempre Silvestro a ordinare ed eseguire la
suddetta traslazione. Purtroppo anche relativamente a tale avvenimento
mancano documenti sulla base dei quali poter determinarne una datazione
certa. Considerando però che, come si è detto, la costruzione dei nuovi
edifici fu portata a termine molto probabilmente non oltre il 1253 e che
proprio la traslazione delle reliquie al suo interno avrebbe dovuto
suggellarne la compiutezza sembra plausibile datare la collocazione delle
spoglie di san Bonfilio nella nuova chiesa a lui dedicata in un periodo non
molto lontano da quello della fine dei lavori architettonici, quindi o sul
finire dello stesso 1253 - come ad esempio pensano Adriano Pennacchioni e
Fortunato Radicioni - o, più probabilmente, nei primi giorni dell’anno
successivo, come sembrerebbe potersi desumere dal fatto che la festa di
questa traslazione, stando almeno a quanto riportato dal Fabrini, cadrebbe
il 23 gennaio.
Ma al di là della corretta attribuzione e
della precisa datazione dell’evento, è sulla sua specifica consistenza, alla
luce soprattutto della nuova ricostruzione della vicenda
storico-architettonica proposta in questo studio, che bisogna porre la
dovuta attenzione. Se infatti, come si è cercato di mostrare, è
insostenibile la tesi secondo la quale l’oratorio di Santa Maria di Fara e
la duecentesca chiesa silvestrina dedicata a S.Bonfilio sarebbero sorte in
due luoghi diversi, cos’è allora da individuare in quell’episodio che
tradizionalmente viene indicato come traslazione delle spoglie di S.
Bonfilio?
Il vocabolo traslazione, dal latino
translātĭo, indica in generale, così come nello specifico ambito
canonico-ecclesiastico concernente il caso qui in questione, genericamente «l’atto
di trasferire da un luogo a un altro»
(Salvatore
Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, UTET, Torino
1972, v. Traslazione), senza dunque l’imposizione di
nessuna limitazione relativa a una qualche distanza.
(...)
Considerato che, come ho
tentato di dimostrare, la duecentesca chiesa dedicata a S. Bonfilio fu
edificata sul medesimo luogo dell’antico oratorio di Santa Maria di Fara,
ritengo che nel termine traslazione riferito alle spoglie di san
Bonfilio sia da scorgere, con una certa probabilità, nient’altro che il
trasferimento di queste da un luogo esterno limitrofo alla struttura sacra
(«iuxta murum […] circa fundamentum videlicet orientis anguli»)
a uno interno a questa stessa, per la precisione nella zona absidale.
La cornice
architettonica dell’altare di S. Bonfilio
A coronamento e ornamento del nuovo
reliquiario il Comune di Cingoli, probabilmente, come si cercherà di
mostrare, intorno agli anni Trenta del secolo XVI, fece elevare proprio
sulla parete absidale una cornice architettonica in travertino, con fastose
ornamentazioni, nella cui fascia superiore venne incisa, interrotta nel
mezzo da uno scudo in rilievo raffigurante lo stemma comunale, l’iscrizione,
in capitale maiuscola: S. BONF. (con una lettera I inclusa
nella F) E. (con le lettere PI incluse nella porzione superiore della
E) ET C. R. H. (con le lettere IC incluse nella porzione superiore
della H) RECON. Iscrizione che, sciolte le abbreviature, sembrerebbe potersi
risolvere in: S[ancti] BONF[ili]I E[pisco]PI
ET C[onfessoris] R[eliquiae] HIC RECON[ditae].
(Non proponibile e sostenibile ho ritenuto la
lettura fornita di tale iscrizione da Don Adriano Pennacchioni, che legge,
peraltro tralasciando l’indicazione delle abbreviature e dunque non
giustificando appieno la sua ipotesi: «Sancti Bonfilii Episcopi et
Confessoris Reliquiae Hic Recognitae» (cfr. L’Ordine
benedettino di S.Silvestro in Cingoli nel secolo XIII …, cit., p. 22. La
sottolineatura è mia). Lo scioglimento della abbreviatura RECON. in
Recognitae, proposta da Pennacchioni, è infatti insostenibile non
solo sulla base della semplice osservazione della forma abbreviativa, dove
la lettera N seguendo alla O senza l’intromissione di nessun segno grafico
di abbreviazione rende non ipotizzabile la presenza di una G tra di esse, ma
anche sulla base di una considerazione di carattere storico, sarebbe
risultato infatti irragionevole parlare ancora di recognitio in pieno
secolo XVI, ovvero, a ben tre secoli di distanza dall’effettivo primo
“ritrovamento” delle spoglie di s.Bonfilio. Per la formulazione di questa
soluzione, nello specifico per lo scioglimento della abbreviatura RECON.
in Reconditae, sono largamente debitore al prof. Giuseppe Avarucci,
noto ed emerito studioso di filologia e paleografia medievale, docente
presso l’Università degli Studi di Macerata. Lo scioglimento della C.
in Confessoris, seppure insolita, trova supporto nel testo della
legenda di san Bonfilio, nel cui Incipit compare appunto come
attributo del santo. Ugualmente insolita è l’abbreviatura di Reliquiae
con la sola lettera R., ma mi è parsa, per ovvi motivi, la soluzione
più probabile, per non dire l’unica possibile).
La datazione della cornice architettonica agli
anni Trenta del secolo XVI, che viene a mettere in discussione quella
generica al secolo XV indicata da Adriano Pennacchioni per la stessa
struttura, è desumibile da una serie di considerazioni, che qui di seguito
si riportano.
1) Innanzitutto è da osservare, in
generale, come lo stile architettonico e ornamentale del suddetto fastigio
non possono certamente, data la loro complessità e ricercatezza, essere
riferibili a un periodo precedente il secolo XVI.
2) La suddetta
struttura, inoltre, in particolare considerata in riferimento allo stile
architettonico che la caratterizza, risulta assai affine ai due archi dei
contrapposti altari laterali della chiesa di S. Esuperanzio dei quali
godevano il giuspatronato rispettivamente le nobili famiglie cingolane
Simonetti e Silvestri. Ebbene, il primo dei suddetti archi trionfali, sito a
cornu Epistolae, cornice dell’altare appartenuto alla famiglia
Simonetti, realizzato per volere di Giovampietro Simonetti, è esplicitamente
datato al 1537, come si legge ancora oggi sulle basi delle lesene. Il
secondo, sito a cornu Evangelii, cornice dell’altare appartenuto alla
famiglia Silvestri, è quasi sicuramente riferibile grosso modo allo stesso
periodo, come è possibile sostenere innanzitutto sulla base del fatto - di
cui si ha notizia da una delle tavole calcografate annesse da Orazio
Avicenna alle sue Memorie della città di Cingoli - che esso venne
realizzato a ornamentazione e degno contorno e dunque all’incirca
parallelamente all’avvenuta consegna e alla collocazione sulla parete
dell’altare della tavola di Sebastiano Luciani, detto del Piombo
(1485-1547), “La flagellazione di Cristo”.
(...)
3) L’ultima considerazione a
sostegno della datazione della cornice architettonica dell’altare di
S. Bonfilio agli anni Trenta del secolo XVI concerne la presunta
esistenza in questa medesima chiesa di un’opera di Lorenzo Lotto.
Dell’esistenza di quest’ultima, oggi perduta, in S. Bonfilio è
possibile trarre notizia dalla trascrizione, correlata di aggiunte e
note, che in pieno secolo XVIII Francesco Maria Raffaelli
(1715-1789) fece dell’opera manoscritta del conte cingolano Niccolò
Vannucci (1642-1715) Di alcuni giuspatronati degli altari delle
chiese cingolane. A margine di un luogo di tale opera
concernente l’altare gentilizio della famiglia Simonetti in S.
Benedetto di Cingoli Raffaelli, ad aggiornamento della descrizione
del Vannucci, annotò infatti: «Sopra il deposito di S. Bonfilio
SS.Crocifisso con S.Esup[eranzio] e S.Bened[etto] di
Lorenzo Lotto, e dicono dello stesso il S. Bonfilio avanti la
SS.Vergine». Il fatto che nella esposizione di Niccolò Vannucci
non figurassero queste due opere fa propendere per l’ipotesi che
queste si trovassero originariamente in un altro luogo e che fossero
state portate in S. Benedetto, per poi essere collocate nei luoghi
indicati da Raffaelli nel passo appena riportato, in un periodo
successivo a quello del resoconto di Vannucci, ovvero dopo l’anno
della sua morte.
Non sono noti a tutt’oggi purtroppo
documenti sulla base dei quali poter ricostruire le vicende relative
alle due tele “lottesche” di cui parla Raffaelli e, di conseguenza,
più nello specifico, poter trarre informazioni sulla loro originaria
ubicazione e sui tempi e i modi della loro collocazione in
S. Benedetto. La descrizione delle due opere pittoriche fornita da
Raffaelli nella su citata nota marginale permette però di avanzare
una proposta di soluzione almeno della empasse prodotta dai
documenti per quanto concerne la questione della originaria
ubicazione delle due tele.
Se infatti si prende in considerazione il
fatto che il soggetto di opere pittoriche realizzate, dietro
committenza pubblica, ecclesiastica o privata, a ornamentazione di
altari interni a chiese cittadine doveva risultare attinente
all’intitolazione del relativo altare allora è per lo meno possibile
indicare con una certa plausibilità la collocazione originaria delle
due tele. Ebbene, la prima di queste, il SS. Crocifisso con
S. Esuperanzio e S. Benedetto, è probabile che fosse stata
commissionata dai Simonetti per il loro altare in S. Esuperanzio,
realizzato, come si è sopra visto, nel 1537 e dedicato al patrono di
Cingoli, come è possibile leggere ancora oggi sull’architrave della
cornice architettonica. In tale dipinto la presenza ai due lati
della croce di S. Esuperanzio e S. Benedetto depone infatti a favore
del riconoscimento dell’altare gentilizio dei Simonetti in
S. Esuperanzio come unico luogo in cui originariamente la tela si
sarebbe potuta trovare.
Non solo infatti non esistono in altre
chiese cingolane, né nella stessa S. Esuperanzio, altari intitolati a
S. Esuperanzio - che, per la motivazione sopra addotta, avrebbero
potuto presentarsi come ulteriori possibili candidati a luogo
originario dell’opera pittorica in questione - ma non esistono in
generale in territorio cingolano edifici sacri relativamente ai
quali sarebbe giustificabile l’abbinamento s. Esuperanzio/s. Benedetto,
come invece risulta essere per la chiesa di S. Esuperanzio che, come
si è osservato, passò intorno agli anni Quaranta del XII secolo
proprio sotto la giurisdizione dell’ordine benedettino di Fonte
Avellana.
Per quanto concerne la seconda opera indicata da
Raffaelli, il S. Bonfilio, è invero possibile ipotizzare che
fosse stata originariamente realizzata, forse ancora una volta su
commissione dei Simonetti, per un altare della chiesa di S. Bonfilio
e che fosse stata poi trasferita in S. Benedetto di Cingoli come
facente parte di quel «deposito di S.Bonfilio» della famiglia
Simonetti citato dal Raffaelli sempre nel passo su riportato.
Ma veniamo ora al presunto autore
delle due opere qui prese in questione.
Lorenzo Lotto, come è ormai
unanimemente accettato dalla critica, soggiornò nelle Marche in
modo quasi ininterrotto dal 1535 al 1539. L’inizio del suo
rapporto con la città di Cingoli, dove per l’altare maggiore
della chiesa di S. Domenico realizzerà nella tarda primavera del
1539 la Madonna del Rosario e Santi, è probabilmente da
individuare nell’anno 1537; la fine dello stesso rapporto quasi
sicuramente con il tempo della consegna della già detta pala per
la chiesa dei predicatori. Un biennio circa, dunque, al cui
interno risulta però impossibile, allo stato attuale dei fatti,
individuare con precisione il periodo o i periodi della
permanenza nel “Balcone delle Marche” del grande pittore
veneziano.
Ebbene, se le due opere di cui
parla Raffaelli nel su riportato passo furono eseguite
effettivamente da Lorenzo Lotto in uno dei suoi soggiorni
cingolani, allora va di seguito che queste sono da datare a un
periodo compreso all’incirca tra il 1537 e il 1539.
Pertanto, se
si considera che di norma opere pittoriche o più in generale
opere artistiche venivano commissionate a ornamento e quasi a
suggello dei lavori di restauro di grandi edifici (come, per
quanto riguarda Cingoli, nel caso delle operazioni
architettoniche che interessarono la chiesa di S. Domenico nella
prima parte del XVI secolo) o della costruzione di altari
privati all’interno di chiese cittadine (come, sempre per quanto
concerne la città di Cingoli, nel caso, sopra visto, della
edificazione della cornice architettonica per l’altare
gentilizio dei Silvestri a S. Esuperanzio) è probabile che la
cornice architettonica dell’altare di S. Bonfilio sia stata
realizzata in un periodo non lontano dal biennio 1537-1539, in
momenti imprecisati del quale, come si è osservato, Lorenzo
Lotto eseguì forse sempre per i Simonetti la tela per il loro
altare privato in S. Bonfilio - opera pittorica che, a sua volta,
questa nobile famiglia cingolana avrebbe fatto eseguire in
relazione, quindi parallelamente o dopo qualche tempo, ai lavori
edificatori della suddetta cornice architettonica avviati
dall’amministrazione comunale.
La
prima comunità silvestrina a S. Bonfilio
Per quanto concerne il primo
periodo dell’insediamento silvestrino in territorio cingolano,
ovvero lo spazio di tempo che va dagli anni Quaranta alla fine
del secolo XIII, non è purtroppo possibile, data la
frammentarietà della documentazione in proposito, determinare
con precisione l’effettiva consistenza numerica della comunità
monacale.
Una situazione documentaria questa
che rispecchia in generale quella relativa all’intero Ordo
Sancti Benedicti de Montefano per lo stesso periodo e che
rimane invero grosso modo invariata, dunque lacunosa e
insufficiente, per quest’ultima come nello specifico per la
comunità cingolana per tutto il periodo basso medievale e
rinascimentale e fino a quasi tutto il secolo XVI. La situazione
muta infatti solo successivamente al 1590, anno in cui iniziano
a essere redatti e conservati presso il monastero di Montefano i
Libri Novitiorum et Professorum che offrono appunto la
possibilità di stilare con precisione l’elenco degli
appartenenti a ogni casa dell’ordine.
Le fonti privilegiate di
informazione sulla consistenza numerica della comunità
silvestrina di S. Bonfilio nell’arco di tempo che copre gli
ultimi sessanta anni del secolo XIII sono rappresentate, come si
vedrà, quasi esclusivamente da atti notarili. Nello specifico
dai rogiti tra i cui soggetti firmatari figura appunto la
famiglia cingolana. Nella stipula di tali documenti infatti il «prior
et custos ecclesiae Sancti Bonfili de Cingulo» di
turno sottoscrive sempre «cum consensu et voluntate espressa»
di tutti o di alcuni dei monaci affiliati alla comunità, dei
quali inoltre, come si vedrà, vengono riportati i nomi.
Ora, è bene osservare che la
quantificazione della presenza silvestrina cingolana che è
possibile ottenere per alcuni anni dall’analisi dei suddetti
atti notarili - che di seguito si riporteranno - potrebbe non
rispecchiare in pieno la realtà. Non è infatti possibile
precisare se in S. Bonfilio risiedessero solo quei monaci i cui
nomi figurano nei già detti rogiti oppure se ve ne fossero pochi
o molti di più. Ne è possibile precisare sulla base di tale
medesima documentazione la consistenza numerica di quelle
categorie di persone quali ad esempio i novizi, i conversi, gli
oblati che pure facevano parte sicuramente della comunità di
stanza a S. Bonfilio, ma che di norma negli atti non venivano
menzionati o se lo erano non venivano indicati in quanto tali -
se non, come si vedrà, in alcuni limitati casi - ma
indistintamente additati, al pari dei monaci regolari, come
fratres.
Ma veniamo ora ai documenti.
La prima attestazione relativa al
numero dei monaci residenti in S. Bonfilio risale al luglio del
1251 ed è ricavabile da una pergamena appartenuta al monastero
di S. Caterina di Cingoli. Da questo documento risulta che a
tale data risiedeva in S. Bonfilio di Cingoli una comunità
monastica assommante a nove monaci, rispondenti ai nomi di
Symon, Girardus, Simonictus, Compagnonus,
Benignus, Ugolinus, Serenus, Iuncta,
Bartulus.
La successiva certificazione in
proposito risale al gennaio del 1256 ed è rappresentata da una
pergamena conservata nell’archivio di S. Silvestro in Montefano.
Secondo questa fonte a tale data risultava affiliato al
monastero di S. Bonfilio un numero di persone superiore come
minimo a 11. In questo documento infatti alla elencazione dei
nomi di otto monaci (Thomas, Libertinus,
Ugolinus, Gerardus, Humilis, Sinatonis,
Compagnonus, Rainaldus) segue l’indicazione dei
nomi di due conversi (Melioratus e Accurrimbona) a
cui succede la formula «et aliorum dicti loci conversorum»,
da cui è desumibile, data la forma plurale, che oltre ai due già
nominati ce ne fossero almeno altri due.
La terza testimonianza relativa al
numero dei monaci residenti in S. Bonfilio è dell’anno 1267 ed è
rappresentata da una pergamena, conservata nel suddetto archivio
di S. Silvestro in Montefano, relativa al capitolo generale
tenutosi nello stesso 1267 per l’elezione del successore di
Silvestro Guzzolini alla guida dell’ordine. Da questo documento
risulta che a tale data la comunità silvestrina cingolana
ammontava a un numero di nove monaci, rispondenti ai nomi di
Libertinus, Umilis, Compagnonus, Johannes,
Franciscus, Joachim, Bartholus, Filippus,
Deuteadleve.
Da una altra pergamena del
monastero di S. Silvestro in Montefano del luglio 1271 è
possibile ricavare la quarta attestazione relativa alla
consistenza numerica dei monaci di S. Bonfilio. Secondo questa
fonte a tale data risultavano affiliati al monastero di
S. Bonfilio undici monaci, rispondenti ai nomi di Bartholus,
Franciscus, Benvenutus de Piticulo, Bonapars,
Samuel, Mattheus, Benevenutus de Fabriano,
Jacobus, Petrus, Johannes, Thomassutius.
Un numero questo del luglio 1271
che, stando a una pergamena del soppresso monastero di
S. Caterina di Cingoli, sale a sedici nell’agosto dell’anno
successivo. In questo documento infatti frater Bartholus,
in qualità di «prior et custos», firma «cum consensu
et voluntate» dei fratelli Jhoachim,
Benvenutus, Samuel, Simonellus, Johannutius,
Marinus, Thomassutius, Johannes,
Bonapars, Paulus, Thomas, Deutesalve,
Benvenutus, Rainaldus e Petrus.
Ulteriore testimonianza relativa
alla presente questione risale al marzo 1280 ed è fornita da
un’altra pergamena appartenuta al monastero di S. Caterina di
Cingoli. Secondo questa fonte a tale data risultavano affiliati
al monastero di S. Bonfilio ben quattordici monaci, rispondenti
ai nomi di Beniaminus, Salimbene, Bernardus,
Gregorius, Ioseppus, Rainerius, Johannes,
Acto, un altro Johannes, Andreas, Petrus,
un secondo Salimbene, Angelus e Rigus.
L’ultima certificazione,
concernente il secolo XIII, relativa al numero dei monaci
residenti in S. Bonfilio risale al 1298 ed è fornita da un
quaderno pergamenaceo, conservato presso l’archivio di
S. Silvestro in Montefano, contenente rogiti relativi alla
convocazione del capitolo generale per l’elezione del nuovo
priore generale che sarebbe succeduto al cingolano fra’ Bartolo,
secondo successore di san Silvestro alla guida dell’Ordine,
morto il 3 agosto 1298. Da tale documento, indicato come
quaderno VK, risulta che alla suddetta data risiedevano in
S. Bonfilio di Cingoli otto monaci.
Quest’ultimo documento riveste
inoltre un valore aggiunto rispetto alle altre fonti qui
utilizzate, risultando di enorme importanza ai fini del presente
studio, in quanto, riportando l’elenco dei monaci di ogni “casa”
delle venti appartenenti all’ordine alla suddetta data, permette
di valutare l’effettiva rilevanza della comunità cingolana
all’interno dell’intera congregazione silvestrina.
Ebbene, stando a tale atto la
famiglia monacale di stanza in S. Bonfilio risulta piuttosto
importante considerato che delle altre diciannove attestate in
questa stessa documentazione soltanto quattro ne risultano
superiori per numero: la casa madre di Montefano con 19, Santa
Maria Nuova di Perugia con 17, S. Giacomo in Settimiano di Roma
con 16, S. Pietro della Castagna di Viterbo con 11. Una
importanza che può essere accentuata inoltre limitando il
discorso alla sfera specificatamente marchigiana, dal momento
che sì facendo la comunità cingolana viene a risultare al
secondo posto, preceduta, anche se di molto, soltanto dalla casa
madre di Montefano.
Non è purtroppo dato sapere, come
già si è detto a causa della frammentarietà o della mancanza di
documentazione in proposito riguardante il secolo XIII, se la
rilevanza della comunità silvestrina cingolana all’interno
dell’ordine indicata per la tarda estate del 1298 segni una
tendenza positiva o, viceversa, negativa, o invero di
sostanziale equilibrio rispetto al periodo insediativo iniziale,
cioè nello spazio di tempo compreso tra il 1240-1241 e il 1267,
anno della morte di san Silvestro. Certo, nel caso in cui fosse
possibile constatare per questa prima fase una minore importanza
della famiglia silvestrina di stanza a S. Bonfilio all’interno
della congregazione rispetto all’anno 1298 sarebbe plausibile
pensare che una tale evoluzione si sia verificata, per ovvi
motivi, nel lungo periodo (1273-1298) in cui a capo della
medesima congregazione stette il già menzionato fra Bartolo da
Cingoli - figura alla quale è unanimemente associata dagli
storici una delle fasi di massima vitalità ed espansione dell’Ordo
sancti Benedicti de Montefano. Ma, anche, è altrettanto
plausibile sostenere, considerata la vera e propria venerazione
tributata da Silvestro alla figura del suo santo concittadino
Bonfilio - il cui culto in territorio cingolano, come si è
visto, egli stesso contribuì a rafforzare e diffondere - che la
comunità silvestrina di Cingoli rivestisse una notevole
importanza all’interno dell’ordine già a partire dagli anni
della sua fondazione, o comunque almeno dal 1248, anno della sua
ufficializzazione>.
(2) L. Pernici, L’insediamento della congregazione
silvestrina in Cingoli, Cingoli 2007 (Dell'esauriente e corposo apparato
bibliografico sono state riportate solo
alcune citazioni).
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