Le
streghe avevano grande effetto sulla credulità popolare; raffigurate
sotto forma di gatti parlanti, oppure di masse bianche informi, erano
persone comuni che, per trasformarsi, si ungevano con un certo olio e si
ponevano sotto la cappa del camino recitando la formula:
Portami
sopra acqua e sotto vento,
portami
dalla noce tagliavento!
I
poteri delle streghe erano infatti: trasformarsi, rimpicciolirsi tanto
da passare attraverso il buco della serratura, ingigantire, entrare a
porta chiusa mutarsi in uccelli rapaci, cagne ringhiose, vecchie
arcigne, bellissime ragazze, nubi di fumo, fiammelle.
Il
traffico delle streghe avveniva, solitamente, il venerdì notte; per
vederle occorreva trovarsi ad un trivio o quadrivio con una forca di
legno di fico poggiata sotto la gola, in questo caso era anche possibile
ascoltare i colloqui fra streghe.
Mettendo
un pettine nell'acquasantiera di una chiesa si impediva alla eventuale
strega entrata in veste umana di uscirne. Portare addosso un pezzetto di
pelle di cane era sufficiente per allontanare questi personaggi tanto
spregevoli e temuti. Il potere delle streghe era cospicuo sui più
piccini, ragion per cui si appendeva al loro collo la “devozione”.
Questi
personaggi strani erano abilissimi nel salire sulle querce o noci e
mandare i loro lugubri sghignazzi
che agghiacciavano il sangue, utili spesso ad intimorire i bambini. Non
di rado certe persone venivano considerate capaci di assumere tali ruoli
e per questo tenute lontano.
Le
“fatture” erano gli effetti, benefici o malefici, di interventi
attuati dagli “stregoni”, uomini anziani che si dedicavano a questi
misteriosi servizi su richiesta. Spesso le “fatture” erano frutto di
persone qualsiasi aventi la fama di nuocere (jettatori).
Si
diventava “stregoni” per ereditarietà; uno stregone in punto di
morte poteva trasmettere il suo “potere” alla persona toccata per
ultimo. Fra le altre modalità per fare una fattura c'era quella di
lanciare addosso la polvere di un cadavere ricevuta in tutta segretezza
dagli stregoni.
Altro
modo. Si seppelliva una pignatta con dentro un rospo vivo avvolto nei
capelli della persona a cui si voleva far la fattura; l'animale soffriva
per mancanza di aria, di cibo e tali sofferenze si trasferivano
sull'individuo.
Per
togliere le fatture gli stregoni confezionavano bevande fatte a base di
erbe bollite in pentole nuove che venivano successivamente rotte ad un
trivio; l'incaricato di tale operazione non doveva percorrere per
l'andata e ritorno la stessa strada.
Talvolta,
u stregò, per le precarie condizioni di un malato, si recava in
tutta segretezza al suo capezzale, faceva la sua prestazione e veniva
remunerato con denaro o generi: grano, vino, formaggio, polli, ecc.
Non
si riesce a comprendere se vi fosse soltanto furberia od anche una buona
dose di ingenuità, sta di fatto che la stima di cui godevano tali
personaggi era notevole e spesso superava gli stretti confini comunali.
La loro azione su imperniava su gesti misteriosi, maneggio di
altrettanti misteriosi oggetti, frasi strane, sensazioni di
affaticamento fisico e psichico, prostrazione, mugolii incomprensibili,
tremolii e balzi improvvisi.
L’intervento
avveniva alla sola presenza del malato; immancabile un piatto con acqua
su cui venivano versate delle gocce di d'olio d'oliva, poi, con gesti
della mano, segni di Croce, parole propiziatrici, si osservava se la
goccia restava intatta oppure si divideva in goccioline più piccole, ciò
dava la misura della gravità del maleficio.
Di
questo rituale esiste anche un’altra variante. Per vedere se una
persona è stata colpita dal malocchio (occhiu tristu) si osserva
il comportamento delle gocce d’olio che vengono versate in un piatto
con acqua. Se la goccia di olio si espande fino a scomparire occorre
procedere con un rituale ben preciso al fine di eliminare il maleficio.
Se la goccia di olio rimane concentrata, per alcuni secondi, nel punto
in cui cade non c’è la necessità di procedere. La “guaritrice”
inizia il rituale sfiorando con le mani il corpo del soggetto, dalla
testa ai piedi; nel frattempo recita questa frase: “du occhi ta’
invidiatu, quattr’occhi ta’ sarvatu”. Si procede quindi alla
verifica versando delle gocce di olio nel piatto. Se il maleficio viene
accertato si dovrà ripetere il tutto per altre due volte. Tra una serie
e l’altra, l’acqua del piatto, lavato sotto acqua corrente, deve
essere buttata in posti ben precisi: la prima volta fuori dalla
finestra, la seconda volta dalle scale e la terza nel camino. Se anche
con il terzo rituale non si riesce a togliere il malocchio si dovrà
ripetere il giorno dopo, o i giorni successivi.
Un
altro metodo per sconfiggere il malocchio consisteva nel prendere un
caldaio con acqua, immergervi gli indumenti del sofferente aggiungendo
un pizzico di sale, un pezzetto di lievito,
qualche chicco di grano e, mentre il tutto bolliva, con un lungo
forchettone si sforacchiavano gli abiti; chi aveva fatto il malocchio
non avrebbe avuto più pace fin quando non fosse tornato a disfarlo.
La
fiducia su tali mezzi era spesso superiore a quella riposta nella
medicina ufficiale, tuttavia la credulità non intaccava il sentimento
religioso, poiché il ricorso a questi “personaggi” avveniva nella
massima riservatezza, talvolta neppure gli stessi membri della famiglia
lo sapevano.
Per
ottenere la “bacchetta del comando”, un mezzo col quale si poteva
fare ciò che si voleva, cioè, trovare tesori, scoprire cose gradite,
trasformare cose comuni, conoscere l'avvenire, ecc., richiedeva quanto
segue: prendere un ramoscello di ornello, o di ontano, o faggio, meglio
di nocciolo di due anni, tagliato dalla pianta dalle ore 22 a mezzanotte
in una serata di luna piena e con un coltello nuovo, durante questa
operazione si sarebbero sentiti rumori strani: tuoni, vento impetuoso,
lampi, mugolii, ecc, ma non si doveva dar segno di paura.
Per rendersi invisibili occorreva prendere 3 acini di fava nera,
seppellirli per 9 giorni ed annaffiarli prima del nascere del
sole; quindi si dissotterravano e si mettevano uno alla volta in bocca
guardandosi allo specchio, nel momento in cui l'immagine scompariva era
segno che s'era trovato l'acino giusto.
Per
fare il “libro del comando”, un mezzo diabolico che permetteva di
ottenere tutto, si doveva prendere un gatto vergine, scorticarlo con un
coltello dal manico di acacia, prenderne la pelle, essiccarla
stendendola su una pianta sempreverde nelle ore notturne a luna piena,
lasciarvela per 8 giorni, quindi la pelle veniva trasferita su una
pianta di melograno per altri 8 giorni di luna crescente. Sul pavimento
di una stanza veniva tracciato un cerchio e l'interessato, con la pelle
in mano, evocava il diavolo e veniva a patti con lui. Il diavolo,
presentandosi, avrebbe punto con una penna d'oca l'interessato e col
sangue sgorgato si sarebbe firmato il patto di alleanza per questa e per
l'altra vita. Un cerimoniale ritenuto sacrilego, perciò praticato
rarissimamente ed in massima segretezza.
Rimedi...
Per
allontanare le talpe dall'orto. Si prendeva una tegola (coppu),
la si forava ad una estremità e si appendeva ad un ramo legandovi un
sasso, ad ogni stormir di vento la tegola, a contatto con la
pietra, emetteva
un suono “talpifugo”.
Per
prevenire le disgrazie c'era anche chi inchiodava sulla porta di casa un
pipistrello ad ali spalancate.
Contro
il mal di testa si poneva sul cappello un pezzetto di “sfoglio”,
involucro esterno dei rettili lasciato dopo il letargo invernale.
La
catena del camino gettata sull'aia durante un temporale allontanava la
grandine.
Infilarsi al dito la fede nuziale di una
sposata avrebbe ritardato il matrimonio per tanti anni quanti erano gli
occhi che l'avevano vista fare tale gesto.
Tratto da:
P.
Topa, Il folklore
della montagna cingolana, Cingoli 1982
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