La
nascita
Alla
donna incinta le si procurava qualsiasi cibo desiderasse onde
scongiurare che il nascituro portasse i segni che ricordava il cibo
negato (le cosiddette voje). La donna doveva evitare
l’attraversamento dei corsi d’acqua (pena emorragie durante il parto), di mettere matasse di filo al collo, di scavalcare le corde (per
timore che il piccolo potesse nascere con il cordone ombelicale
attorcigliato attorno al collo) e di assistere a scene impressionanti,
come l’uccisione degli animali.
Non
doveva inoltre passare sopra gli attrezzi agricoli (forconi, rastrelli e
zappe).
Per prevedere il sesso del
nascituro si spezzava l’osso sternale di un pollo [e si osservava
il frammento di osso che rimaneva fra le dita: una maggiore lunghezza
indicava maschio, minore femmina] o si guardava la
forma tondeggiante o appuntita del ventre [il primo caso
indicherebbe il sesso femminile, il secondo il sesso maschile].
All’inizio
delle doglie la donna si coricava sul letto, assistita dalla madre e da
una donna esperta (la mammàna). L’acqua con cui veniva lavato
il bambino era gettata in una profonda buca sotto la pianta di un fico
nero per difendere il bambino dai malefici delle streghe che avevano
appunto un grande timore di questo genere di alberi.
La
biancheria del neonato, lavata e stesa all’aperto, doveva essere
ritirata prima dell’Ave Maria
[prima del tramonto] per evitare anche che la toccasse
una strega; se qualche indumento era rimasto inavvertitamente di fuori
occorreva girarlo tre volte attorno alla catena del camino [o lavarlo
di nuovo]. Anche i
bambini non dovevano rimanere fuori dopo l’Ave Maria, se ciò capitava
occorreva coprirli in testa con il cappello del padre, in segno di
protezione contro gli spiriti maligni.
Dopo
la nascita, il bambino veniva protetto dall’invidia e dal malocchio
con l’apposizione al collo o sulla testata della culla di pelo di
tasso, cornetti rossi e brej. Quest’ultimo era una specie di
piccolo involtino a forma di cuore contenente un pezzetto del cero
pasquale, un pezzo di stola del sacerdote, una piccolissima immagine
sacra e un pezzetto di palma benedetta, il tutto avvolto in un batuffolo
di ovatta ed ornato all’esterno con segni caratteristici religiosi
(croci, iniziali della Vergine, ecc.).
Se
il primogenito era un maschio e la famiglia era abbiente si usava
piantare il “maggio”, un albero di pioppo ornato in cima da una
corona di verdure.
Fidanzamento
e matrimonio
Prima
di fidanzarsi ufficialmente i giovani si conoscevano e si parlavano
solamente in occasione delle feste o dei lavori agricoli. Dopo un paio di
mesi di tali approcci era la ragazza ad invitare, a casa sua, lo
spasimante. Se i genitori vedevano di buon occhio il fidanzamento della
figlia, consentivano al giovane di venire in casa sua una o due volte la
settimana: il giovedì e la domenica. In queste occasioni, quando cioè si
“faceva l’amore”, i due fidanzati erano sempre sotto il controllo di
un membro della famiglia, di solito i fratelli più piccoli.
Il
secondo atto ufficiale, dopo il “fidanzamento in casa” e prima del
matrimonio, era lo scambio degli anelli.
La
domenica precedente le nozze i genitori del ragazzo si recavano a casa
della sua fidanzata per chiedere ufficialmente la mano a nome del figlio;
era anche l’occasione per discutere di interessi, del corredo, del
matrimonio. Il giovedì
successivo si effettuava il trasporto del corredo dalla casa della giovane
a quella del futuro marito per mezzo del “biroccio” trainato da buoi
infiocchettati e con campanacci al collo. La “cassa” conteneva sia il
corredo confezionato, che quello grezzo (i rùtuli de pànnu).
Accompagnavano il trasporto il padre o il fratello dello sposo e due
donne, amiche della ragazza, incaricate di “rifare il letto nuziale”. Al
fidanzato era proibito vedere l'abito della sposa prima del giorno delle
nozze.
Il
giorno del matrimonio, lo sposo insieme ai parenti e agli amici si recava
presso l’abitazione della ragazza; da qui si formava il corteo per
recarsi in chiesa, accolto sul sagrato dai curiosi e dallo scampanio
festoso. Il corteo nuziale non
doveva passare dinanzi ad un cimitero. Al termine della cerimonia
la sposa andava a depositare il mazzetto di fiori sull’altare dedicato
alla Madonna. Il pranzo di nozze era consumato a casa della sposa. Al
pranzo, oltre ai parenti dei due sposi, erano invitati gli amici e i
vicini che si sdebitavano dell’invito con i doni (la conocchia).
Il tutto terminava con il ballo sull’aia al suono dell’immancabile
organetto.
La
domenica successiva alle nozze, pranzo in casa dello sposo.
Ricorrenze
religiose
Il
cenone della vigilia di Natale era a base di stoccafisso, aringhe,
sardelle, legumi, taglioni fatti con farina e acqua. Il pranzo di Natale
con tagliatelle, ovviamente fatte a casa, cappone lesso ed arrosto,
cavoli strascinati, sedani, arance e come dolce, cavallucci. Il giorno
di Natale nessun lavoro era consentito; ciascuno metteva indosso
qualcosa di nuovo e si recava alla messa di mezzodì.
Grande
attenzione si poneva alla persona che si incontrava il primo giorno
dell’anno: se era una donna o una suora portava sfortuna. Era
convinzione che ciò che si faceva il primo giorno dell’anno si
sarebbe fatto per tutto l’anno.
Dal
punto di vista meteorologico per sapere come sarebbero stati i futuri 12
mesi dell’anno, si esponeva sul davanzale della finestra, la notte di
San Silvestro, 12 sfoglie di cipolle (o 12 gusci di noci) con sopra un
pizzico di sale. Ciascuna sfoglia rappresentava un determinato mese
dell’anno. La
mattina seguente si osservava le condizioni del sale per scoprire le
caratteristiche dei vari mesi: asciutto, piovoso, gelido, ecc.
Il
giorno dell’Epifania, i bambini trovavano nei canestri posti sotto la
cappa del camino dolciumi, castagne o indumenti…o pezzi di carbone.
A
carnevale, oltre alle feste da ballo, si organizzavano mascherate e il
processo a Carnuà, raffigurato da un pupazzo fatto di indumenti
pieni di paglia a grandezza d’uomo ed esposto al pubblico scherno
mentre dei loquaci accusatori illustravano tutte le malefatte, con
allusioni anonime ad eventi realmente accaduti nella zona. Dopo aver
subito una sorta di operazione chirurgica, usando arnesi grossolani come
seghe, scalpelli e martelli, su appositi uncini si appendevano le
interiora di Carnevale: salsicce, salame, ciambelle, fichi secchi, noci
e lupini. Infine, fra l’allegria generale, l’immancabile condanna a
morte sul rogo.
La
Domenica delle Palme i contadini portavano in chiesa un fascio di
ramoscelli di olivo, che, benedetto dal sacerdote, veniva posto sulle
testate dei letti, conservato nel comò per devozione, oppure il 3 di
maggio, festa di S. Croce, messo in cima a delle croci di canna e poi
infisse nei campi per difenderli dalle intemperie.
Croce
di canne, frazione di S. Stefano (foto del 18/6/2005) |
Il
giorno del Venerdì Santo si svolgeva la processione del Cristo Morto.
Vi partecipava tutta la popolazione: gli uomini iscritti alle diverse
confraternite, fra queste molto suggestiva quella degli incappucciati, i
bambini che portavano i vari strumenti della Passione di Cristo, le
donne vestite di nero al seguito della statua della Vergine Addolorata,
il catafalco portato a spalle con sopra il corpo di Gesù, la folla che
seguiva cantando lo Stabat Mater. La processione percorreva le strade
alla tremula luce delle fiaccole e delle candele fra la commozione
generale.
Il
Sabato santo, alle 11, si scioglievano le campane, rimaste silenziose
per alcuni giorni.
Legato
al periodo pasquale era u cantu della Pasciò (il canto della
Passione), ripetuto di casolare in casolare nelle domeniche di
Quaresima. Tre uomini, un suonatore di organetto, uno di cembalo ed uno
di triangolo, cantavano a turno una filastrocca in versi rievocante la
Passione, Morte e Resurrezione del Cristo di fronte ad un auditorio
silenzioso ed attento; in compenso ricevevano uova, formaggio, denaro e
un bicchiere di vino. Se la “vergara” era stata munifica si
improvvisavano versi laudatori.
Ecco
eh' è giunta l'ora, ingrato peccatore
rimira il tuo Signore che
a morte se ne va
Erano
i versi iniziali della Passione, accompagnati da sinistri rullii di
cembalo e tintinnare di triangolo.
Fra
i giochi del periodo pasquale c'era quello della ruzzola e della
“fiora verde”: alcuni bambini si accordavano di portare sempre un
ramoscello di bosso che doveva essere esibito ad ogni richiesta, pena il
pagamento di un pegno. Molto in uso anche la “scoccetta”: battere un
uovo sodo contro un altro, quello che resisteva aveva diritto all'uovo
incrinato.
La
notte di San Giovanni si riteneva che vi fosse il raduno di streghe ai
quadrivi delle strade; onde evitare tale sgradevole incontro occorreva
camminare a ritroso, lanciando dietro le spalle pizzichi di sale. I
giovani, nella suddetta notte, esponevano alla finestra della loro
camera una bottiglia piena d'acqua nella quale era stato versato un
albume d'uovo; dalla forma assunta dai filamenti si sarebbe potuto
pronosticare il mestiere dell'interessato.
L'acqua
di San Giovanni è ancora in uso; la sera prima della festa di San
Giovanni in un mastello veniva versata acqua ed immersi fiori, foglie,
erbe aromatiche, quindi lasciato all'aperto per tutta la notte; al
mattino ciascuno doveva lavarsi con l'acqua, una devozione contro
malanni fisici (in particolare contro il mal di gola).
La
sera del 14 agosto le campagne si ravvivavano di centinaia di falò (i
focarelli) in onore dell'Assunta; detta operazione si ripeteva la sera
del 9 dicembre, vigilia della festa della Madonna di Loreto. Attorno a
tali fuochi si radunavano le famiglie per pregare e recitare le
“litanie”; i piccini si divertivano a stuzzicare il fuoco per far
salire in alto le faville; gli uomini esplodevano in aria colpi di
fucile; i più robusti saltavano attraverso il fuoco per purificarsi
oppure facevano i “chioppi” utilizzando un barattolo con acqua e carburo o con
mistura di zolfo e potassio schiacciata sotto una pietra.
Un
tizzone spento del falò veniva riservato per scongiurare le grandinate.
I
lavori di campagna
Un
importante momento dell’anno era rappresentato dalla mietitura, fatta
a mano sotto il sole cocente di luglio. La falce ricurva (fargiola) era
il mezzo per tagliare le spighe, mentre il mignolo, anulare e medio
della mano sinistra venivano protetti con gli “scannelli”, cilindri
di latta salvadita. Il
“capo-falce”, uomo esperto e robusto, apriva la schiera dei
mietitori che procedevano parallelamente; al suo fianco c'era lo “staccone”,
uomo addetto ad intrecciare due ciuffi di spighe per farne i “barzi”,
legacci con cui stringere i covoni. Questi ultimi si ammucchiavano in
“cavalletti” da 14-17-21 covoni
ciascuno. I pasti che si consumavano durante la mietitura erano:
Alle
ore 5 sciacquetto: caffè d’orzo con “pastarella” fatta in
casa.
Alle
ore 8 colaziò: fagiolini, baccalà, patate condite con sale,
olio, aceto e prezzemolo.
Alle
ore 10 zuppa: fette di “salato” o uova al tegamino, limone
condito con olio e zucchero per togliere la sete
Alle
ore 12: merènna: minestra fatta con battuto:
lardo, aglio e maggiorana
Due
ore di riposo.
Alle
ore 15,30: svegliarono: una pasta con vino
Alle
ore 17 merennùccia: baccalà, insalata, o coniglio, pan bagnato
e condito con sale, pepe, olio, aglio, aceto e mentuccia.
Alle
ore 19 cena: insalata o ricotta, formaggi, o salumi.
Al
termine della mietitura, che spesso durava un mese, si faceva un pranzo
a base di tagliatelle fatte in casa, coniglio arrosto, verdura per
contorno, frutta.
La
“scartocciatura” era una festa campestre settembrina attuata al
chiaro di luna fra scherzi, risate, motti e canti “a batocco”, una
nenia dalla modulazione prolungata inneggiante all'amore che impegnava
un uomo ed una donna. Il granturco, ammassato sull'aia, veniva
scanafogliato con l'ausilio di uno “sforello”, un pezzetto di legno
appuntito col quale si strappavano le punte delle pannocchie rivestite,
quindi gettato all'interno della capanna pronto per essere seccato al
sole. Al termine di tale operazione, oltre la mezzanotte, si mangiava
polenta e si ballava al suono dell’organetto.
Andare
alla fiera costituiva un avvenimento eccezionale; di solito erano gli
anziani ad andarci e qualche volta consentivano anche ai giovani di
seguirli. I buoi o le mucche, infiocchettati, venivano aggiogati al
“biroccio”, il vergare vi saliva su e con le redini in mano si
avviava al paese in compagnia della moglie o dei figli. L'abbigliamento
maschile: camicia bianca pieghettata senza colletto, fascia di lana
multicolore con frange per cintura, pantaloni tessuti in casa blu a
righette, fazzoletto rosso al collo, zoccoli ai piedi, cappello di
paglia, gilè di rigatino. La donna: fazzoletto variopinto con frangia
ripiegato in testa (fazzolittu) fissato con uno spillone,
pendenti e collana di corallo, scialle a vari colori sulle spalle,
camicetta bianca stretta ai polsi ed arricchita di ricami, busto con
stecche di canna d'India stretto alla vita, sottoveste bianca trapunta,
mutandoni fino al polpaccio, calze bianche sorrette la passamani, ampia
sottana con balzane colorate sul fondo (guarnellu).
Tratto da:
P.
Topa, Il folklore
della montagna cingolana, Cingoli 1982
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