Tutte le popolazioni del mondo
antico tenevano in grande considerazione l'osservazione del cielo
e dei suoi fenomeni, come ci testimoniano numerosi reperti
archeologici. Ovviamente gli oggetti osservati erano il Sole, la
Luna, pianeti visibili ad occhio nudo, le stelle più luminose
e la strumentazione era per lo più
limitata a traguardi e mire costruiti in legno o in pietra,
talvolta di grandi dimensioni come certi monumenti megalitici
tuttora esistenti nel Nord Europa.
L'uso che gli antichi facevano
delle osservazioni astronomiche era legato alle specificità
culturali delle diverse civiltà. Ad esempio, l'astronomia cinese
era tutta improntata sulla meticolosa registrazione di ogni
mutamento che si verificasse nel cielo e sul trarre indicazioni e
auspici per la vita sulla Terra, mentre non era sentita l'esigenza
di sviluppare qualche modello finalizzato a descrivere, predire e
rendere conto della posizione e del moto dei corpi celesti.
Questo approccio, tipico delle popolazioni dell'Estremo
Oriente, era completamente differente dal modo di intendere
l'astronomia delle culture del mondo occidentale.
E' ben nota l'attività speculativa dei greci intorno alla
descrizione del "Sistema del Mondo" e quanto essa abbia
condizionato il pensiero scientifico e filosofico occidentale nei
secoli successivi. Tale attività, tesa a costruire modelli che
spiegassero la natura e il moto degli astri, non fu però
accompagnata da precise e continue registrazioni cronologiche e
descrittive degli eventi celesti.
L'astronomia egizia e soprattutto quella babilonese erano
invece meno improntate alla speculazione filosofica, ma
maggiormente alla formulazione di modelli atti a predire i
fenomeni del cielo.
Di tutte queste civiltà esistono
generalmente documenti scritti, pervenuti fino ai giorni nostri,
che testimoniano come l'astronomia venisse praticata, con quali
mezzi, con quali intenti e quali risultati venissero ottenuti.
Esiste però una popolazione, o meglio un insieme di popolazioni,
la cui cultura ha condizionato in maniera determinante quella di
tutti i popoli europei e le cui capacità astronomiche e
matematiche, per altro molto sviluppate, stanno emergendo
solamente adesso. Si tratta delle popolazioni celtiche, dei Galli
- come venivano usualmente denominati dai Romani - diffuse su
tutta l'Europa centro-occidentale e settentrionale, nella Spagna e
nell'Italia settentrionale.
I
Celti, di cui si può parlare
in senso stretto solo dal VI secolo avanti Cristo in poi,
derivarono da tre ondate di invasioni di popolazioni scitiche
stanziate originariamente nell'Asia centro-occidentale che si
fusero con le popolazioni preesistenti in Europa. La prima ondata
si verificò intorno al 4400 a.C., la seconda verso il 3300 a.C. e
la terza verso il 2800 a.C. Lo studio dei ritrovamenti
archeologici mette in evidenza una grande abilità dei Celti nella
lavorazione dei metalli, nell'artigianato e in tutte quelle
attività caratteristiche non di una popolazione barbarica (come
ci è stato insegnato per secoli, intendendo la storia dal punto
di vista della Romanità), ma di un popolo molto evoluto, che però
non ebbe mai fortuna politica e militare a causa del continuo
frazionamento e delle lotte interne tra tribù e tribù per
questioni di egemonia sul territorio. Nonostante ciò, i Celti
rappresentarono sempre un grosso problema per i Romani,
anche dopo la Guerra di Gallia durata dal 58 al 51 a.C. e vinta da
Giulio Cesare. I
Romani li sconfissero militarmente, ma assorbirono una grandissima
parte dei loro usi, tradizioni e bagaglio culturale: spesso li
ritroviamo presenti, a distanza di due millenni, anche nel nostro
modo di vivere attuale. E' incredibile la quantità di luoghi
geografici, in Europa, che portano nomi derivati dalla lingua
gallica e lo stesso accade per la denominazione di oggetti di uso
comune. Emblematica è anche la derivazione celtica di alcuni
dialetti lombardi.
Paradossalmente, a questa elevata
influenza culturale non corrisponde una pari disponibilità di
documenti scritti che testimonino l'attività intellettuale di
questo popolo; anzi, i due rami della lingua celtica attualmente
noti comprendono un vocabolario costituito da qualche migliaio di
parole e poche stringate nozioni di grammatica.
La spiegazione di questa carenza è da ricercarsi nel
modello culturale celtico che riteneva la natura una cosa viva ed
in continua evoluzione. Scrivere significava congelare un
concetto, impedendone l'evoluzione; quindi i Celti tendenzialmente
non scrivevano e, quando proprio
era necessario, lo facevano con riluttanza.
C'era poi anche l'esigenza da
parte della classe sacerdotale druidica di preservare il proprio
ruolo dominante basato sulla profonda conoscenza della natura e
delle sue manifestazioni. Scrive
Giulio Cesare riguardo ai druidi: "...Non ritengono lecito
scrivere i loro sacri precetti; invece per gli affari, sia
pubblici che privati, usano l'alfabeto greco. Mi sembra che due
siano le ragioni per cui essi evitano la scrittura: prima di tutto
perché non vogliono che le norme che regolano la loro
organizzazione siano risapute dal volgo, poi perché i discepoli
non le studino con minore diligenza..." (De Bello Gallico,
VI, 14). Era preferita una rappresentazione del mondo attraverso
un linguaggio grafico, che ancora oggi possiamo ammirare sui
reperti archeologici, con lo scopo di fissare l'essenza e il
significato profondo delle cose più che rappresentare il loro
aspetto esteriore. Un simile
modo di pensare era certo adatto ad un'attività speculativa di
tipo astratto, per cui si può ipotizzare che l'astronomia e la
matematica fossero coltivate dalla classe sacerdotale.
Giulio Cesare nel suo De Bello Gallico attribuisce
ai druidi grande conoscenza del cielo, delle stelle e dei loro
moti, e la capacità di descrivere ed interpretare i fenomeni
naturali. Infatti, riguardo
al periodo ventennale di addestramento dei futuri druidi scrive:
"...Vengono trattate ed insegnate ai giovani molte questioni
sugli astri e sui loro movimenti, sulla grandezza del mondo e
della Terra sulla natura..." (De Bello Gallico, VI,
14). La stessa cosa viene affermata da Pomponio Mela, da Plinio il
Vecchio, da Pompeo Trogo, da Posidonio e da altri storici latini e
greci.
E' emblematico il fatto che
Giulio Cesare, la cui competenza nelle scienze astronomiche era
per quel tempo notevole, incaricò Sosigene di preparare la
riforma del calendario romano proprio ai tempi della guerra di
Gallia, cioè dopo il contatto con i druidi celti.
Il calendario usato correntemente dai Romani a quell'epoca
era decisamente poco accurato, mal conciliava i moti del Sole e
della Luna, era in errore sulla durata dell'anno e si trovava
perennemente in ritardo sulle stagioni.
Il calendario gallico invece aveva una struttura più
complessa, ma la sua precisione era decisamente più elevata.
Esistono documenti, di origine
greca, che attestano fitti scambi di idee ed esperienze tra i pitagorici della
scuola siracusana e i druidi celti che venivano a contatto con
loro nelle varie colonie greche fiorenti sulla costa meridionale
della Francia. A titolo di esempio, analizzando i rapporti tra le
dimensioni delle decorazioni presenti su taluni manufatti, ci si
può facilmente accorgere che le terne pitagoriche erano
conosciute. In più, si osserva che i motivi decorativi prediletti
erano basati su fregi eseguiti con il sapiente uso del compasso ad
apertura variabile con continuità. Questo permette di eseguire
raccordi mediante segmenti di curve di ordine elevato il cui
tracciamento richiede la conoscenza di qualche algoritmo, per lo
meno di natura grafica, per ottenerli. Ovviamente la carenza di
documenti scritti rendeva impossibile la verifica di ogni ipotesi,
ma da quando, verso la fine del secolo scorso, vennero ritrovati i
frammenti del Calendario di Coligny, risalente al secondo secolo
dopo Cristo e, successivamente, quello di Village d'Heria, gli
studiosi iniziarono a rendersi conto di quanto doveva essere
sviluppata la scienza astronomica celtica.
Il Calendario di Coligny è un
sofisticato calendario luni-solare basato su cicli di cinque anni
di 12 mesi lunari più sessanta giorni da intercalare, secondo
talune regole, in modo da accordare tra loro i moti apparenti del
Sole e della Luna. Il ciclo di cinque anni faceva parte di un
ciclo lungo trent'anni, detto Saeculum dagli storici
latini.
Il reale meccanismo con cui tale
calendario fu sviluppato e come venisse utilizzato è ancora in
parte coperto da mistero, nonostante gli importanti lavori di A.M.
Duval, G. Pinault a altri. Da studi attualmente in corso risulta
che l'abilità necessaria allo sviluppo di un siffatto calendario
doveva implicare obbligatoriamente una notevole conoscenza sia
astronomica, relativa ai moti del Sole e della Luna, che
matematica. Va comunque ricordato che la fusione delle popolazioni
scitiche con quelle autoctone portò all'assorbimento da parte
degli invasori della cultura preesistente la quale, tra l'altro,
aveva prodotto i monumenti megalitici che abbondano in vari luoghi
del nord Europa.
La conclusione che possiamo
trarre è che l'osservazione del cielo e la speculazione relativa
ai fenomeni celesti ricoprirono un ruolo fondamentale nella
cultura celtica. La carenza di reperti scritti, salvo i due
calendari citati, non ci permette di avere a disposizione
registrazioni chiare e oggettive, ma sia le citazioni di autori
latini e greci sia le evidenze indirette ci spingono ad affermare
che l'astronomia fosse praticata ad alto livello dai druidi celti.
Tra i reperti che possono
aiutarci a renderci conto di ciò esistono le monete, coniate in
grande quantità e con grande frequenza dalle varie tribù
galliche, su cui possono essere identificati simboli astronomici.
E' vero che anche i Greci e i Romani coniarono monete con
raffigurazioni di oggetti astronomici, ma esse rappresentano solo
casi limitati e poco numerosi, mentre il numero delle coniature di
monete galliche con simbologia astronomica è inusualmente
elevato.
In questa sede saranno descritti solo alcuni esempi
significativi, al di là della famosa moneta d'oro fatta coniare
da Vercingetorige (vedi a lato) intorno al 52 a.C., sul cui rovescio è
rappresentata la falce della Luna sopra l'immagine di un cavallo,
animale frequentemente rappresentato sulle monete galliche.
La numismatica celtica è un
campo in cui la datazione dei reperti è estremamente
problematica. Contrariamente a quanto avviene nel caso delle
monete romane, in cui sia le iscrizioni che le effigi
rappresentate sono di grande utilità dal punto di vista
cronologico, nel caso delle monete celtiche risulta difficile
ottenere una datazione precisa di ciascun pezzo. Questa difficoltà
è dovuta, oltre che alla mancanza di reperti scritti, anche al
fatto che le monete stesse forniscono usualmente poche
informazioni utili per risalire alla data di conio.
Per quanto ci è dato sapere,
esistono solamente due importanti riferimenti storici su cui
basarsi ai fini cronologici e cioè la sconfitta di Bituitus (121
a. C.) che pose termine all'egemonia degli Arverni sulle altre
tribù galliche e la guerra di Gallia, condotta da Giulio Cesare,
che culminò nella sconfitta della coalizione delle tribù
celtiche ad Alesia e che segnò la fine dell'indipendenza delle
popolazioni celtiche della Gallia. La prima data è ritenuta
empiricamente come il limite temporale più remoto a cui far
risalire la consuetudine di battere moneta, mentre nel caso della
battaglia di Alesia i ritrovamenti archeologici sono numerosi ed
estremamente interessanti.
Dal punto di vista delle
rappresentazioni e delle iscrizioni sulle monete, predominano
teste di re e magistrati sul dritto e cavalli e cavalieri sul
verso, ma non mancano casi curiosi ed interessanti, soprattutto
dal punto di vista astronomico.
Tra la grande quantità di pezzi
rinvenuti negli scavi archeologici sono da ricordare le serie
complete di monete armoricane, cioè coniate dalle popolazioni
celtiche stanziate in Armorica, regione geograficamente
corrispondente all'odierna Bretagna, nella Francia settentrionale.
In particolare, risultano di estremo interesse le monete
coniate dalla popolazione celtica dei Coriosoliti, raccolte e
classificate da Colbert de Beaulieu che pubblicò il suo
documentato lavoro nel 1937.
Le monete dei Coriosoliti sono
generalmente suddivise in sei classi, in successione cronologica,
sulla base degli elementi stilistici presenti. Se si prende in
esame ad esempio l'insieme di sei pezzi, cronologicamente
ordinati, si nota un fatto estremamente interessante. Sul dritto
delle sei monete è incisa una testa umana variamente stilizzata;
sul rovescio invece è raffigurato un cavallo con un cinghiale tra
le zampe, ma nella seconda e nella terza il cinghiale lascia il
posto alla raffigurazione di una cometa vista sopra l'orizzonte.
Il cinghiale è chiaramente un
simbolo sacerdotale, druidico, mentre il cavallo è un attributo
della classe aristocratica, quella dei cavalieri, da cui
provenivano coloro che esercitavano il potere temporale.
Originariamente l'immagine della cometa era stata erroneamente
interpretata come la raffigurazione di una lira, strumento
musicale molto usato dai bardi, cioè i cantori gallici; solo nel
1987 J. Muller propose la più corretta interpretazione
astronomica. L'ordine
cronologico delle monete è tale per cui evidentemente il conio
avvenuto durante il periodo di visibilità della cometa riportò
la sua rappresentazione, mentre quando la cometa non fu più
visibile ritornò ad essere raffigurato il tradizionale simbolo
del cinghiale.
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Il
disegno illustra come spesso venivano rappresentate le
comete e le stelle sulle monete celtiche (disegno di M.
Milani) |
Gli archeologi datano questa
serie di monete tra il 100 e il 60 a. C. e di conseguenza la
cometa potrebbe essere quella di Halley, osservata durante il
passaggio dell'anno 87 a.C. Più recentemente, Galliou nella sua Histoire
de la Bretagne e des Pays Celtiques (1983) riporta che i
Coriosoliti iniziarono a battere moneta tra il 90 e l'80 a.C.,
periodo che risulta in ottimo accordo con l'attribuzione
dell'immagine riportata sulle monete alla cometa di Halley. Una
simulazione del moto orbitale mostra che durante il passaggio
dell’ anno 87 a.C., la data del perielio fu il 6 agosto. Nelle
37 settimane precedenti la distanza della cometa dalla Terra toccò
un minimo di 0,44 U.A., con il risultato che essa doveva essere
presumibilmente molto luminosa e ben visibile nel cielo. Secondo
gli annali cinesi, tradotti da Ho Peng Yoke, la cometa fu vista in
Cina dal 10 agosto all'8 settembre dell'anno 87 a.C. Da fonti
babilonesi, decifrate da Stephenson nel 1985, la Halley sarebbe
stata osservata, giorno dopo giorno, nel mese lunare che andava
dal 14 luglio all'11 agosto dell'anno 87 a.C. Le registrazioni
cuneiformi babilonesi, incise su pietra, riportano anche la
presenza di una coda ben visibile ed estesa circa 10 gradi, 20
volte il diametro della Luna Piena.
Ma cosa avrà spinto a ritenere
così importante la presenza in cielo di questa cometa da indurre
coloro che governavano i Coriosoliti a disporne la
rappresentazione sulle monete? Per
tentare una risposta bisogna ricordare che nella struttura sociale
celtica, pur esistendo una classe sociale dominante, cioè quella
della nobiltà guerriera la quale governava la tribù per mezzo
del re, in realtà chi veramente aveva nelle mani il potere
assoluto era la classe dei druidi alla cui autorità anche il re
doveva sottomettersi. Tra le quattro importanti feste religiose
dei Celti una era dedicata al dio Lug e veniva celebrata nei primi
giorni di agosto. Questa divinità rappresentava il dio della luce
ed era la più importante dell'olimpo celtico: a lui erano
attribuite assoluta sapienza e assoluta competenza in tutte le
arti e i mestieri. Il nome Lug significava "luminoso" ed
il suo astro caratteristico era ovviamente il Sole. Usualmente i
giorni della festa di Lug erano anche il periodo della grande
assemblea di tutte le tribù galliche. E' interessante il fatto
che il periodo di massima visibilità della Halley nell'87 a.C.
sia corrisposto proprio con il cadere della festa di Lug.
Paradossalmente la Halley fu ben visibile in cielo per qualche
tempo prima e per qualche tempo dopo di essa, ma fu invisibile,
essendo in congiunzione eliaca, proprio nei giorni della festa.
Cercando di ricostruire l'andamento del fenomeno visibile si
osserva che la Halley, di per sé già luminosa, andò
approssimandosi al Sole man mano che la festa si avvicinava, sparì
nei bagliori solari durante i giorni della festa e si allontanò
dal Sole a festa conclusa e nei mesi successivi. Questo fenomeno,
straordinario agli occhi di quelle popolazioni, fu probabilmente
ritenuto di origine divina e deve aver sicuramente colpito la
fantasia dei druidi, tanto da disporne la rappresentazione sulle
monete.
Questa ipotesi potrebbe
essere confortata anche dalla circostanza che è il cinghiale
(attributo religioso) ad essere sostituito dal simbolo astronomico
(la cometa), entrambi di pertinenza strettamente sacerdotale,
mentre il simbolo del potere temporale, il cavallo, rimane sempre
presente.
Il caso delle monete dei
Coriosoliti non è il solo. Infatti abbiamo anche gli interessanti
esempi rappresentati dalle monete delle Isole del Canale. Tra le
monete che compongono il "ritrovamento di Jersey"
esistono quindici esemplari differenti in cui, oltre ad una
cometa, si cerca anche di rappresentare la costellazione in cui fu
visibile.
A titolo di esempio, citiamo uno
statere armoricano in argento datato fra il 100 a.C. e il 60 a.C.
in cui su un verso appare, sotto l'immancabile figura del cavallo,
l'immagine di una cometa situata in mezzo ad una coppia di stelle.
La consultazione degli annali cinesi suggerisce che si tratti
della rappresentazione della cometa passata il 69 a.C. tra le
stelle alfa e gamma Virginis (Spica e Heze), nel
luglio di quell'anno. L'astro, però, potrebbe anche non essere
una cometa, ma una nova, visto che secondo le registrazioni cinesi essa rimase fissa durante tutto il
periodo di visibilità e posizionata vicino a Spica.
Un altro caso interessante è
rappresentato da una piccola moneta delle Isole del Canale e
risalente allo stesso periodo. Su questa moneta è possibile
osservare la presenza di ben tre comete e di un certo numero di
simboli di carattere stellare. Facendo
nuovamente ricorso agli annali cinesi, si rileva che nell'anno 69
a.C. non era passata solo una cometa, quella già menzionata, ma
tre. Il primo evento è indicato come una cometa apparsa a circa
30 gradi da Venere, nel febbraio di quell'anno. Il secondo
riguarda la cometa già menzionata. Il terzo sarebbe una cometa
apparsa in agosto a nord-est della costellazione della Corona
Boreale e con moto in direzione sud. Il 27 agosto del 69 a.C. essa
attraversò la parte meridionale della costellazione di Ercole
presentando una coda bianca.
Un'altra
popolazione celtica, spesso nominata da Giulio Cesare nel suo De
Bello Gallico, è quella degli Edui. Anche sulle loro monete è
possibile riscontrare riferimenti di tipo astronomico. Su una
moneta d'argento coniata fra il 100 e il 60 a.C., quindi
precedentemente all' invasione romana, è possibile osservare, per
esempio, una stella sotto la figura del cavallo.
L'interpretazione
in questo caso è più complicata: l'oggetto potrebbe essere stato
una nova o una supernova invece che una cometa. Se si assume che
l'astro rappresentato fosse una cometa visibile a quel tempo come
un oggetto nebuloso senza coda, allora la solita consultazione
degli annali cinesi suggerisce che si tratti di quella passata nel
61 a.C., visibile in direzione est nell'agosto di quell'anno. La
mancanza di coda potrebbe anche essere dovuta all'influenza dei
Romani, già presenti a quei tempi nella Gallia Narbonense, grosso
modo l'attuale Provenza: in particolare, all'abitudine dei
coniatori di monete romani di rappresentare le comete come stelle
raggiate, ma senza coda. La moneta in esame riporta sul dritto la
scritta "ORCHTIRIX", comune sulle monete coniate dagli
Edui in quel periodo. Quel nome, che viene tradotto dal Celtico in
Orgetorix, potrebbe essere messo in relazione con un personaggio
omonimo citato da Giulio Cesare: "Orgetorige era molto
superiore, per nobiltà e ricchezza, a tutti gli altri
principi..." (De Bello Gallico, I, 2).
Quanto alla
seconda ipotesi, cioè che sulla moneta degli Edui sia
rappresentata una stella e non una cometa, v'è da dire che la
figura della stella è diversa da quella usuale sulle altre monete
celtiche, e perciò farebbe pensare ad un astro per qualche verso
particolare, come una nova o una supernova. L'assenza della linea
dell'orizzonte presente invece su altre monete rappresentanti
comete, potrebbe suggerire che l'astro rappresentato era visibile
alto nel cielo e non vicino all'orizzonte. L'identificazione
dell'oggetto in questo caso diventa però molto difficile.
La
rappresentazione di oggetti stellari include un altro caso molto
interessante dal punto di vista archeoastronomico: si tratta dello
statere d'oro di Tincommius, coniato in Bretagna e databile fra il
20 a.C. e il 5 d.C. Su questa moneta è possibile osservare la
presenza di una stella sul verso sopra l'immagine del cavaliere,
mentre sul dritto è presente la scritta "TINC" che si
riferisce al nome del personaggio dominante all'epoca del conio.
Anche in questo caso la questione della attribuzione dell'oggetto
rappresentato a una stella o a una cometa non è di facile
soluzione. Se si accettasse la rappresentazione cometaria, allora
le registrazioni antiche non riportano notizie di comete, escluso
il ritorno di quella di Halley nel mese di agosto del 12 a.C. Il
passaggio al perielio avvenne il 10 ottobre; la minima distanza
della Terra fu di 0,16 Unità Astronomiche il 10 settembre. La
prima osservazione registrata negli annali cinesi è del 26 agosto
e indica che la cometa era visibile nella costellazione del Cane
Minore; l'ultima osservazione indica la Halley posizionata nella
costellazione dello Scorpione, circa 56 giorni dopo. Questo
passaggio della Halley fu osservato anche a Roma e fu fatto
corrispondere alla morte del generale romano Agrippa.
Prendendo
invece in esame la possibilità che l'oggetto rappresentato fosse
una nova o una supernova, allora, consultando nuovamente gli
annali cinesi, si ottengono alcune notizie che permetterebbero di
formulare interessantissime ipotesi. Gli annali registrano una
"stella nuova" comparsa nei mesi di marzo o aprile
dell'anno 5 a.C. e rimasta visibile ad occhio nudo per circa 70
giorni. Le coordinate approssimate per questo oggetto
corrispondono ad un punto nella costellazione del Capricorno. Gli
annali cinesi riportano però anche l'apparizione di un'altra
stella, probabilmente una nova, che dovrebbe essere apparsa nel 10
a.C. vicino ad Arturo nella costellazione di Boote. E' molto
probabile, considerato il modo in cui l'oggetto è rappresentato
sulla moneta, cioè alto nel cielo rispetto all'immagine del
cavaliere, che si tratti di una di queste due novae e non della
cometa di Halley.
Un altro caso simile è quello della moneta di
bronzo di Tasciovanus, databile dal 20 a.C. al 10 d.C., periodo in
cui egli regnò. Nonostante il cattivo stato di conservazione, si
può notare nuovamente la rappresentazione di un oggetto di
aspetto stellare posto in alto sopra l'immagine del cavallo, sul
rovescio della moneta. Probabilmente, vista la similitudine con il
caso precedente e la datazione molto simile, l'oggetto
rappresentato è la stessa stella dello statere di Tincommius.
La
casistica non si esaurisce qui. E' disponibile nelle raccolte
numismatiche una quantità molto elevata di monete celtiche sulle
quali sono raffigurati oggetti astronomici.
Ad esempio, su una moneta d'argento del tipo detto di
Buschelquinar, risalente al I secolo a.C., è incisa una
configurazione di quattro oggetti immersi in un alone raggiato a
forma di spirale. Tale configurazione potrebbe rappresentare una
congiunzione planetaria molto vistosa verificatasi, secondo le
simulazioni al computer, nel giugno dell'anno 26 a.C. nella
costellazione del Leone vicino a Regolo. I pianeti interessati
furono Venere, Giove
e Saturno e poco distante fu presente anche Marte; inoltre
all'inizio di giugno anche la Luna transitò in vicinanza dei
pianeti in congiunzione. L'eccezionalità
dell'evento avrebbe spinto alla rappresentazione sulla moneta.
Un
altro caso interessante riguarda una moneta d'argento del tipo
detto "a la Croix" coniata nel I secolo a.C. da
popolazioni del sud della Gallia e ritrovata negli scavi dell'Oppidum
di Manching in Baviera. Il
rovescio della moneta è diviso in quattro quadranti. In uno di
questi è rappresentata la falce della Luna con vicino una stella
che potrebbe essere una nova, una supernova o un pianeta, ma anche
una cometa visibile ad occhio nudo con aspetto diffuso, senza coda
visualmente osservabile.
Un caso analogo è quello relativo ad una
moneta in argento coniata presumibilmente nel I secolo a.C da
popolazioni del Norico. Il
rovescio della moneta presenta una configurazione formata da
quattro stelle. La centrale è dotata di quattro raggi e sembra
essere la più luminosa, mentre le altre sono dotate di un solo
raggio in direzione radiale rispetto a quella centrale. Sono anche rappresentati dei raggi tra una stella e l'altra
che convergono in corrispondenza della stella centrale. L'immagine
potrebbe essere la rappresentazione di una nova o di una supernova
tra le stelle di una costellazione, oppure anche in questo caso
una congiunzione planetaria.
Invece, una rappresentazione di
cometa si ritrova sul rovescio di una moneta d'argento, imitazione
di un denaro romano, risalente al I secolo a.C. e un'altra ancora
su una moneta d'oro del tipo Regenbogenschlusselchen rinvenuta a
Irshing (Baviera). Questo reperto risale alla seconda metà del II
a.C., e sul rovescio paiono rappresentate addirittura due comete.
Sono frequenti anche probabili rappresentazioni di costellazioni,
come accade sul rovescio di una moneta in elettro coniata nel II-I
secolo a.C. dalla tribù degli Osimi o su una moneta in lega d'oro
coniata dalla tribù dei Biturigi della Gallia Centrale nel I
secolo a.C.
Dalla stupefacente quantità di riferimenti celesti
nella numismatica appare evidente che l'astronomia ricoprì per le
popolazioni celtiche un ruolo fondamentale. Va ribadito che
certamente siamo di fronte alla fusione di una cultura astronomica
formata in oriente e portata dagli Sciti durante le loro tre
ondate di invasione con una cultura astronomica autoctona e
preesistente, che ebbe la sua massima espressione nella
costruzione e nell'uso dei monumenti megalitici ai fini
dell'osservazione del cielo. La prima con caratteristiche
osservative "a tutto cielo" vicine all'astronomia cinese
o coreana e con talune inclinazioni al calcolo riscontrabili
nell'astronomia indù e babilonese. La seconda tipicamente d'orizzonte, meno speculativa, ma più
orientata alla misura soprattutto della posizione del Sole e della
Luna nel tempo. Questa fusione potrebbe dare una spiegazione alla
grande tradizione astronomica celtica che solamente negli ultimi
tempi sta venendo alla luce.
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Alcuni esempi di monete
celtiche
1) Moneta d'oro dei Biturigi della Gallia centrale, I sec. a.C.,
raffigurante presumibilmente una costellazione ai piedi di un
cavallo, simbolo del potere temporale (Rouen).
2) Esempio di moneta d'oro di
tipo Regenbogenschlusselchen del ripostiglio di Irshing in
Baviera, raffigurante due comete contrapposte, II-I metà del I
sec. a.C. (Monaco).
3) Moneta d'argento del Norico, I
sec. a.C., raffigurante quattro stelle (Vienna).
4) Moneta d'argento del Sud della
Gallia del tipo detto "a la Croix", I sec. a.C.
(Monaco).
5 e 6) Dritto e rovescio di una
moneta d'argento del tipo detto Buschelquinar, con evidenti
simboli astronomici.
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Scheda
autore
Adriano
Gaspani. Lavora presso l'Osservatorio
Astronomico di Brera (Milano), dove attualmente
svolge l'attività di system manager presso il
locale Centro di Calcolo. Dal 1974 è membro del
GEOS (Gruppo Europeo d'Osservazione Stellare). Da
molti anni si occupa di archeoastronomia, avendo
inaugurato l'applicazione di tecniche di
ricognizione e analisi computerizzata di siti
preistorici e protostorici basate su Reti Neuronali
Artificiali e sulla Fuzzy Logic, con particolare
riferimento ai reperti risalenti alla cultura
celtica. |
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Sommario |
I
megaliti di Aosta |
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