Il cielo nelle monete celtiche

di Adriano Gaspani

l'Astronomia n. 159 (novembre 1995) pp. 25-30

 

Tutte le popolazioni del mondo antico tenevano in grande considerazione l'osservazione del cielo e dei suoi fenomeni, come ci testimoniano numerosi reperti archeologici. Ovviamente gli oggetti osservati erano il Sole, la Luna, pianeti visibili ad occhio nudo, le stelle più luminose e la strumentazione era per lo più limitata a traguardi e mire costruiti in legno o in pietra, talvolta di grandi dimensioni come certi monumenti megalitici tuttora esistenti nel Nord Europa.

L'uso che gli antichi facevano delle osservazioni astronomiche era legato alle specificità culturali delle diverse civiltà. Ad esempio, l'astronomia cinese era tutta improntata sulla meticolosa registrazione di ogni mutamento che si verificasse nel cielo e sul trarre indicazioni e auspici per la vita sulla Terra, mentre non era sentita l'esigenza di sviluppare qualche modello finalizzato a descrivere, predire e rendere conto della posizione e del moto dei corpi celesti.  Questo approccio, tipico delle popolazioni dell'Estremo Oriente, era completamente differente dal modo di intendere l'astronomia delle culture del mondo occidentale.  E' ben nota l'attività speculativa dei greci intorno alla descrizione del "Sistema del Mondo" e quanto essa abbia condizionato il pensiero scientifico e filosofico occidentale nei secoli successivi. Tale attività, tesa a costruire modelli che spiegassero la natura e il moto degli astri, non fu però accompagnata da precise e continue registrazioni cronologiche e descrittive degli eventi celesti.  L'astronomia egizia e soprattutto quella babilonese erano invece meno improntate alla speculazione filosofica, ma maggiormente alla formulazione di modelli atti a predire i fenomeni del cielo.

Di tutte queste civiltà esistono generalmente documenti scritti, pervenuti fino ai giorni nostri, che testimoniano come l'astronomia venisse praticata, con quali mezzi, con quali intenti e quali risultati venissero ottenuti. Esiste però una popolazione, o meglio un insieme di popolazioni, la cui cultura ha condizionato in maniera determinante quella di tutti i popoli europei e le cui capacità astronomiche e matematiche, per altro molto sviluppate, stanno emergendo solamente adesso. Si tratta delle popolazioni celtiche, dei Galli - come venivano usualmente denominati dai Romani - diffuse su tutta l'Europa centro-occidentale e settentrionale, nella Spagna e nell'Italia settentrionale.

I Celti, di cui si può parlare in senso stretto solo dal VI secolo avanti Cristo in poi, derivarono da tre ondate di invasioni di popolazioni scitiche stanziate originariamente nell'Asia centro-occidentale che si fusero con le popolazioni preesistenti in Europa. La prima ondata si verificò intorno al 4400 a.C., la seconda verso il 3300 a.C. e la terza verso il 2800 a.C. Lo studio dei ritrovamenti archeologici mette in evidenza una grande abilità dei Celti nella lavorazione dei metalli, nell'artigianato e in tutte quelle attività caratteristiche non di una popolazione barbarica (come ci è stato insegnato per secoli, intendendo la storia dal punto di vista della Romanità), ma di un popolo molto evoluto, che però non ebbe mai fortuna politica e militare a causa del continuo frazionamento e delle lotte interne tra tribù e tribù per questioni di egemonia sul territorio. Nonostante ciò, i Celti        rappresentarono sempre un grosso problema per i Romani, anche dopo la Guerra di Gallia durata dal 58 al 51 a.C. e vinta da Giulio Cesare.  I Romani li sconfissero militarmente, ma assorbirono una grandissima parte dei loro usi, tradizioni e bagaglio culturale: spesso li ritroviamo presenti, a distanza di due millenni, anche nel nostro modo di vivere attuale. E' incredibile la quantità di luoghi geografici, in Europa, che portano nomi derivati dalla lingua gallica e lo stesso accade per la denominazione di oggetti di uso comune. Emblematica è anche la derivazione celtica di alcuni dialetti lombardi.

Paradossalmente, a questa elevata influenza culturale non corrisponde una pari disponibilità di documenti scritti che testimonino l'attività intellettuale di questo popolo; anzi, i due rami della lingua celtica attualmente noti comprendono un vocabolario costituito da qualche migliaio di parole e poche stringate nozioni di grammatica. La spiegazione di questa carenza è da ricercarsi nel modello culturale celtico che riteneva la natura una cosa viva ed in continua evoluzione. Scrivere significava congelare un concetto, impedendone l'evoluzione; quindi i Celti tendenzialmente non scrivevano e, quando proprio era necessario, lo facevano con riluttanza.

C'era poi anche l'esigenza da parte della classe sacerdotale druidica di preservare il proprio ruolo dominante basato sulla profonda conoscenza della natura e delle sue manifestazioni. Scrive Giulio Cesare riguardo ai druidi: "...Non ritengono lecito scrivere i loro sacri precetti; invece per gli affari, sia pubblici che privati, usano l'alfabeto greco. Mi sembra che due siano le ragioni per cui essi evitano la scrittura: prima di tutto perché non vogliono che le norme che regolano la loro organizzazione siano risapute dal volgo, poi perché i discepoli non le studino con minore diligenza..." (De Bello Gallico, VI, 14). Era preferita una rappresentazione del mondo attraverso un linguaggio grafico, che ancora oggi possiamo ammirare sui reperti archeologici, con lo scopo di fissare l'essenza e il significato profondo delle cose più che rappresentare il loro aspetto esteriore. Un simile modo di pensare era certo adatto ad un'attività speculativa di tipo astratto, per cui si può ipotizzare che l'astronomia e la matematica fossero coltivate dalla classe sacerdotale. Giulio Cesare nel suo De Bello Gallico attribuisce ai druidi grande conoscenza del cielo, delle stelle e dei loro moti, e la capacità di descrivere ed interpretare i fenomeni naturali. Infatti, riguardo al periodo ventennale di addestramento dei futuri druidi scrive: "...Vengono trattate ed insegnate ai giovani molte questioni sugli astri e sui loro movimenti, sulla grandezza del mondo e della Terra sulla natura..." (De Bello Gallico, VI, 14). La stessa cosa viene affermata da Pomponio Mela, da Plinio il Vecchio, da Pompeo Trogo, da Posidonio e da altri storici latini e greci.

E' emblematico il fatto che Giulio Cesare, la cui competenza nelle scienze astronomiche era per quel tempo notevole, incaricò Sosigene di preparare la riforma del calendario romano proprio ai tempi della guerra di Gallia, cioè dopo il contatto con i druidi celti. Il calendario usato correntemente dai Romani a quell'epoca era decisamente poco accurato, mal conciliava i moti del Sole e della Luna, era in errore sulla durata dell'anno e si trovava perennemente in ritardo sulle stagioni. Il calendario gallico invece aveva una struttura più complessa, ma la sua precisione era decisamente più elevata.

Esistono documenti, di origine greca, che attestano  fitti scambi di idee ed esperienze tra i pitagorici della scuola siracusana e i druidi celti che venivano a contatto con loro nelle varie colonie greche fiorenti sulla costa meridionale della Francia. A titolo di esempio, analizzando i rapporti tra le dimensioni delle decorazioni presenti su taluni manufatti, ci si può facilmente accorgere che le terne pitagoriche erano conosciute. In più, si osserva che i motivi decorativi prediletti erano basati su fregi eseguiti con il sapiente uso del compasso ad apertura variabile con continuità. Questo permette di eseguire raccordi mediante segmenti di curve di ordine elevato il cui tracciamento richiede la conoscenza di qualche algoritmo, per lo meno di natura grafica, per ottenerli. Ovviamente la carenza di documenti scritti rendeva impossibile la verifica di ogni ipotesi, ma da quando, verso la fine del secolo scorso, vennero ritrovati i frammenti del Calendario di Coligny, risalente al secondo secolo dopo Cristo e, successivamente, quello di Village d'Heria, gli studiosi iniziarono a rendersi conto di quanto doveva essere sviluppata la scienza astronomica celtica.

Il Calendario di Coligny è un sofisticato calendario luni-solare basato su cicli di cinque anni di 12 mesi lunari più sessanta giorni da intercalare, secondo talune regole, in modo da accordare tra loro i moti apparenti del Sole e della Luna. Il ciclo di cinque anni faceva parte di un ciclo lungo trent'anni, detto Saeculum dagli storici latini.

Il reale meccanismo con cui tale calendario fu sviluppato e come venisse utilizzato è ancora in parte coperto da mistero, nonostante gli importanti lavori di A.M. Duval, G. Pinault a altri. Da studi attualmente in corso risulta che l'abilità necessaria allo sviluppo di un siffatto calendario doveva implicare obbligatoriamente una notevole conoscenza sia astronomica, relativa ai moti del Sole e della Luna, che matematica. Va comunque ricordato che la fusione delle popolazioni scitiche con quelle autoctone portò all'assorbimento da parte degli invasori della cultura preesistente la quale, tra l'altro, aveva prodotto i monumenti megalitici che abbondano in vari luoghi del nord Europa.

La conclusione che possiamo trarre è che l'osservazione del cielo e la speculazione relativa ai fenomeni celesti ricoprirono un ruolo fondamentale nella cultura celtica. La carenza di reperti scritti, salvo i due calendari citati, non ci permette di avere a disposizione registrazioni chiare e oggettive, ma sia le citazioni di autori latini e greci sia le evidenze indirette ci spingono ad affermare che l'astronomia fosse praticata ad alto livello dai druidi celti.

Tra i reperti che possono aiutarci a renderci conto di ciò esistono le monete, coniate in grande quantità e con grande frequenza dalle varie tribù galliche, su cui possono essere identificati simboli astronomici. 

E' vero che anche i Greci e i Romani coniarono monete con raffigurazioni di oggetti astronomici, ma esse rappresentano solo casi limitati e poco numerosi, mentre il numero delle coniature di monete galliche con simbologia astronomica è inusualmente elevato. 

In questa sede saranno descritti solo alcuni esempi significativi, al di là della famosa moneta d'oro fatta coniare da Vercingetorige (vedi a lato) intorno al 52 a.C., sul cui rovescio è rappresentata la falce della Luna sopra l'immagine di un cavallo, animale frequentemente rappresentato sulle monete galliche.

 

La numismatica celtica è un campo in cui la datazione dei reperti è estremamente problematica. Contrariamente a quanto avviene nel caso delle monete romane, in cui sia le iscrizioni che le effigi rappresentate sono di grande utilità dal punto di vista cronologico, nel caso delle monete celtiche risulta difficile ottenere una datazione precisa di ciascun pezzo. Questa difficoltà è dovuta, oltre che alla mancanza di reperti scritti, anche al fatto che le monete stesse forniscono usualmente poche informazioni utili per risalire alla data di conio.

Per quanto ci è dato sapere, esistono solamente due importanti riferimenti storici su cui basarsi ai fini cronologici e cioè la sconfitta di Bituitus (121 a. C.) che pose termine all'egemonia degli Arverni sulle altre tribù galliche e la guerra di Gallia, condotta da Giulio Cesare, che culminò nella sconfitta della coalizione delle tribù celtiche ad Alesia e che segnò la fine dell'indipendenza delle popolazioni celtiche della Gallia. La prima data è ritenuta empiricamente come il limite temporale più remoto a cui far risalire la consuetudine di battere moneta, mentre nel caso della battaglia di Alesia i ritrovamenti archeologici sono numerosi ed estremamente interessanti.

Dal punto di vista delle rappresentazioni e delle iscrizioni sulle monete, predominano teste di re e magistrati sul dritto e cavalli e cavalieri sul verso, ma non mancano casi curiosi ed interessanti, soprattutto dal punto di vista astronomico.

Tra la grande quantità di pezzi rinvenuti negli scavi archeologici sono da ricordare le serie complete di monete armoricane, cioè coniate dalle popolazioni celtiche stanziate in Armorica, regione geograficamente corrispondente all'odierna Bretagna, nella Francia settentrionale. In particolare, risultano di estremo interesse le monete coniate dalla popolazione celtica dei Coriosoliti, raccolte e classificate da Colbert de Beaulieu che pubblicò il suo documentato lavoro nel 1937.

Le monete dei Coriosoliti sono generalmente suddivise in sei classi, in successione cronologica, sulla base degli elementi stilistici presenti. Se si prende in esame ad esempio l'insieme di sei pezzi, cronologicamente ordinati, si nota un fatto estremamente interessante. Sul dritto delle sei monete è incisa una testa umana variamente stilizzata; sul rovescio invece è raffigurato un cavallo con un cinghiale tra le zampe, ma nella seconda e nella terza il cinghiale lascia il posto alla raffigurazione di una cometa vista sopra l'orizzonte.

Il cinghiale è chiaramente un simbolo sacerdotale, druidico, mentre il cavallo è un attributo della classe aristocratica, quella dei cavalieri, da cui provenivano coloro che esercitavano il potere temporale. Originariamente l'immagine della cometa era stata erroneamente interpretata come la raffigurazione di una lira, strumento musicale molto usato dai bardi, cioè i cantori gallici; solo nel 1987 J. Muller propose la più corretta interpretazione astronomica. L'ordine cronologico delle monete è tale per cui evidentemente il conio avvenuto durante il periodo di visibilità della cometa riportò la sua rappresentazione, mentre quando la cometa non fu più visibile ritornò ad essere raffigurato il tradizionale simbolo del cinghiale.

 

Il disegno illustra come spesso venivano rappresentate le comete e le stelle sulle monete celtiche (disegno di M. Milani)

Gli archeologi datano questa serie di monete tra il 100 e il 60 a. C. e di conseguenza la cometa potrebbe essere quella di Halley, osservata durante il passaggio dell'anno 87 a.C. Più recentemente, Galliou nella sua Histoire de la Bretagne e des Pays Celtiques (1983) riporta che i Coriosoliti iniziarono a battere moneta tra il 90 e l'80 a.C., periodo che risulta in ottimo accordo con l'attribuzione dell'immagine riportata sulle monete alla cometa di Halley. Una simulazione del moto orbitale mostra che durante il passaggio dell’ anno 87 a.C., la data del perielio fu il 6 agosto. Nelle 37 settimane precedenti la distanza della cometa dalla Terra toccò un minimo di 0,44 U.A., con il risultato che essa doveva essere presumibilmente molto luminosa e ben visibile nel cielo. Secondo gli annali cinesi, tradotti da Ho Peng Yoke, la cometa fu vista in Cina dal 10 agosto all'8 settembre dell'anno 87 a.C. Da fonti babilonesi, decifrate da Stephenson nel 1985, la Halley sarebbe stata osservata, giorno dopo giorno, nel mese lunare che andava dal 14 luglio all'11 agosto dell'anno 87 a.C. Le registrazioni cuneiformi babilonesi, incise su pietra, riportano anche la presenza di una coda ben visibile ed estesa circa 10 gradi, 20 volte il diametro della Luna Piena.

Ma cosa avrà spinto a ritenere così importante la presenza in cielo di questa cometa da indurre coloro che governavano i Coriosoliti a disporne la rappresentazione sulle monete? Per tentare una risposta bisogna ricordare che nella struttura sociale celtica, pur esistendo una classe sociale dominante, cioè quella della nobiltà guerriera la quale governava la tribù per mezzo del re, in realtà chi veramente aveva nelle mani il potere assoluto era la classe dei druidi alla cui autorità anche il re doveva sottomettersi. Tra le quattro importanti feste religiose dei Celti una era dedicata al dio Lug e veniva celebrata nei primi giorni di agosto. Questa divinità rappresentava il dio della luce ed era la più importante dell'olimpo celtico: a lui erano attribuite assoluta sapienza e assoluta competenza in tutte le arti e i mestieri. Il nome Lug significava "luminoso" ed il suo astro caratteristico era ovviamente il Sole. Usualmente i giorni della festa di Lug erano anche il periodo della grande assemblea di tutte le tribù galliche. E' interessante il fatto che il periodo di massima visibilità della Halley nell'87 a.C. sia corrisposto proprio con il cadere della festa di Lug. Paradossalmente la Halley fu ben visibile in cielo per qualche tempo prima e per qualche tempo dopo di essa, ma fu invisibile, essendo in congiunzione eliaca, proprio nei giorni della festa. Cercando di ricostruire l'andamento del fenomeno visibile si osserva che la Halley, di per sé già luminosa, andò approssimandosi al Sole man mano che la festa si avvicinava, sparì nei bagliori solari durante i giorni della festa e si allontanò dal Sole a festa conclusa e nei mesi successivi. Questo fenomeno, straordinario agli occhi di quelle popolazioni, fu probabilmente ritenuto di origine divina e deve aver sicuramente colpito la fantasia dei druidi, tanto da disporne la rappresentazione sulle monete.

Questa ipotesi potrebbe essere confortata anche dalla circostanza che è il cinghiale (attributo religioso) ad essere sostituito dal simbolo astronomico (la cometa), entrambi di pertinenza strettamente sacerdotale, mentre il simbolo del potere temporale, il cavallo, rimane sempre presente.

Il caso delle monete dei Coriosoliti non è il solo. Infatti abbiamo anche gli interessanti esempi rappresentati dalle monete delle Isole del Canale. Tra le monete che compongono il "ritrovamento di Jersey" esistono quindici esemplari differenti in cui, oltre ad una cometa, si cerca anche di rappresentare la costellazione in cui fu visibile.

A titolo di esempio, citiamo uno statere armoricano in argento datato fra il 100 a.C. e il 60 a.C. in cui su un verso appare, sotto l'immancabile figura del cavallo, l'immagine di una cometa situata in mezzo ad una coppia di stelle. La consultazione degli annali cinesi suggerisce che si tratti della rappresentazione della cometa passata il 69 a.C. tra le stelle alfa e gamma Virginis (Spica e Heze), nel luglio di quell'anno. L'astro, però, potrebbe anche non essere una cometa, ma una nova, visto che secondo le registrazioni cinesi essa rimase fissa durante tutto il periodo di visibilità e posizionata vicino a Spica.

Un altro caso interessante è rappresentato da una piccola moneta delle Isole del Canale e risalente allo stesso periodo. Su questa moneta è possibile osservare la presenza di ben tre comete e di un certo numero di simboli di carattere stellare. Facendo nuovamente ricorso agli annali cinesi, si rileva che nell'anno 69 a.C. non era passata solo una cometa, quella già menzionata, ma tre. Il primo evento è indicato come una cometa apparsa a circa 30 gradi da Venere, nel febbraio di quell'anno. Il secondo riguarda la cometa già menzionata. Il terzo sarebbe una cometa apparsa in agosto a nord-est della costellazione della Corona Boreale e con moto in direzione sud. Il 27 agosto del 69 a.C. essa attraversò la parte meridionale della costellazione di Ercole presentando una coda bianca.

Un'altra popolazione celtica, spesso nominata da Giulio Cesare nel suo De Bello Gallico, è quella degli Edui. Anche sulle loro monete è possibile riscontrare riferimenti di tipo astronomico. Su una moneta d'argento coniata fra il 100 e il 60 a.C., quindi precedentemente all' invasione romana, è possibile osservare, per esempio, una stella sotto la figura del cavallo. 

L'interpretazione in questo caso è più complicata: l'oggetto potrebbe essere stato una nova o una supernova invece che una cometa. Se si assume che l'astro rappresentato fosse una cometa visibile a quel tempo come un oggetto nebuloso senza coda, allora la solita consultazione degli annali cinesi suggerisce che si tratti di quella passata nel 61 a.C., visibile in direzione est nell'agosto di quell'anno. La mancanza di coda potrebbe anche essere dovuta all'influenza dei Romani, già presenti a quei tempi nella Gallia Narbonense, grosso modo l'attuale Provenza: in particolare, all'abitudine dei coniatori di monete romani di rappresentare le comete come stelle raggiate, ma senza coda. La moneta in esame riporta sul dritto la scritta "ORCHTIRIX", comune sulle monete coniate dagli Edui in quel periodo. Quel nome, che viene tradotto dal Celtico in Orgetorix, potrebbe essere messo in relazione con un personaggio omonimo citato da Giulio Cesare: "Orgetorige era molto superiore, per nobiltà e ricchezza, a tutti gli altri principi..." (De Bello Gallico, I, 2). 

Quanto alla seconda ipotesi, cioè che sulla moneta degli Edui sia rappresentata una stella e non una cometa, v'è da dire che la figura della stella è diversa da quella usuale sulle altre monete celtiche, e perciò farebbe pensare ad un astro per qualche verso particolare, come una nova o una supernova. L'assenza della linea dell'orizzonte presente invece su altre monete rappresentanti comete, potrebbe suggerire che l'astro rappresentato era visibile alto nel cielo e non vicino all'orizzonte. L'identificazione dell'oggetto in questo caso diventa però molto difficile. 

La rappresentazione di oggetti stellari include un altro caso molto interessante dal punto di vista archeoastronomico: si tratta dello statere d'oro di Tincommius, coniato in Bretagna e databile fra il 20 a.C. e il 5 d.C. Su questa moneta è possibile osservare la presenza di una stella sul verso sopra l'immagine del cavaliere, mentre sul dritto è presente la scritta "TINC" che si riferisce al nome del personaggio dominante all'epoca del conio. 

Anche in questo caso la questione della attribuzione dell'oggetto rappresentato a una stella o a una cometa non è di facile soluzione. Se si accettasse la rappresentazione cometaria, allora le registrazioni antiche non riportano notizie di comete, escluso il ritorno di quella di Halley nel mese di agosto del 12 a.C. Il passaggio al perielio avvenne il 10 ottobre; la minima distanza della Terra fu di 0,16 Unità Astronomiche il 10 settembre. La prima osservazione registrata negli annali cinesi è del 26 agosto e indica che la cometa era visibile nella costellazione del Cane Minore; l'ultima osservazione indica la Halley posizionata nella costellazione dello Scorpione, circa 56 giorni dopo. Questo passaggio della Halley fu osservato anche a Roma e fu fatto corrispondere alla morte del generale romano Agrippa. 

Prendendo invece in esame la possibilità che l'oggetto rappresentato fosse una nova o una supernova, allora, consultando nuovamente gli annali cinesi, si ottengono alcune notizie che permetterebbero di formulare interessantissime ipotesi. Gli annali registrano una "stella nuova" comparsa nei mesi di marzo o aprile dell'anno 5 a.C. e rimasta visibile ad occhio nudo per circa 70 giorni. Le coordinate approssimate per questo oggetto corrispondono ad un punto nella costellazione del Capricorno. Gli annali cinesi riportano però anche l'apparizione di un'altra stella, probabilmente una nova, che dovrebbe essere apparsa nel 10 a.C. vicino ad Arturo nella costellazione di Boote. E' molto probabile, considerato il modo in cui l'oggetto è rappresentato sulla moneta, cioè alto nel cielo rispetto all'immagine del cavaliere, che si tratti di una di queste due novae e non della cometa di Halley.

Un altro caso simile è quello della moneta di bronzo di Tasciovanus, databile dal 20 a.C. al 10 d.C., periodo in cui egli regnò. Nonostante il cattivo stato di conservazione, si può notare nuovamente la rappresentazione di un oggetto di aspetto stellare posto in alto sopra l'immagine del cavallo, sul rovescio della moneta. Probabilmente, vista la similitudine con il caso precedente e la datazione molto simile, l'oggetto rappresentato è la stessa stella dello statere di Tincommius. 

La casistica non si esaurisce qui. E' disponibile nelle raccolte numismatiche una quantità molto elevata di monete celtiche sulle quali sono raffigurati oggetti astronomici.  Ad esempio, su una moneta d'argento del tipo detto di Buschelquinar, risalente al I secolo a.C., è incisa una configurazione di quattro oggetti immersi in un alone raggiato a forma di spirale. Tale configurazione potrebbe rappresentare una congiunzione planetaria molto vistosa verificatasi, secondo le simulazioni al computer, nel giugno dell'anno 26 a.C. nella costellazione del Leone vicino a Regolo. I pianeti interessati furono Venere, Giove e Saturno e poco distante fu presente anche Marte; inoltre all'inizio di giugno anche la Luna transitò in vicinanza dei pianeti in congiunzione.  L'eccezionalità dell'evento avrebbe spinto alla rappresentazione sulla moneta. 

Un altro caso interessante riguarda una moneta d'argento del tipo detto "a la Croix" coniata nel I secolo a.C. da popolazioni del sud della Gallia e ritrovata negli scavi dell'Oppidum di Manching in Baviera. Il rovescio della moneta è diviso in quattro quadranti. In uno di questi è rappresentata la falce della Luna con vicino una stella che potrebbe essere una nova, una supernova o un pianeta, ma anche una cometa visibile ad occhio nudo con aspetto diffuso, senza coda visualmente osservabile.

Un caso analogo è quello relativo ad una moneta in argento coniata presumibilmente nel I secolo a.C da popolazioni del Norico. Il rovescio della moneta presenta una configurazione formata da quattro stelle. La centrale è dotata di quattro raggi e sembra essere la più luminosa, mentre le altre sono dotate di un solo raggio in direzione radiale rispetto a quella centrale. Sono anche rappresentati dei raggi tra una stella e l'altra che convergono in corrispondenza della stella centrale. L'immagine potrebbe essere la rappresentazione di una nova o di una supernova tra le stelle di una costellazione, oppure anche in questo caso una congiunzione planetaria. 

Invece, una rappresentazione di cometa si ritrova sul rovescio di una moneta d'argento, imitazione di un denaro romano, risalente al I secolo a.C. e un'altra ancora su una moneta d'oro del tipo Regenbogenschlusselchen rinvenuta a Irshing (Baviera). Questo reperto risale alla seconda metà del II a.C., e sul rovescio paiono rappresentate addirittura due comete. Sono frequenti anche probabili rappresentazioni di costellazioni, come accade sul rovescio di una moneta in elettro coniata nel II-I secolo a.C. dalla tribù degli Osimi o su una moneta in lega d'oro coniata dalla tribù dei Biturigi della Gallia Centrale nel I secolo a.C.

Dalla stupefacente quantità di riferimenti celesti nella numismatica appare evidente che l'astronomia ricoprì per le popolazioni celtiche un ruolo fondamentale. Va ribadito che certamente siamo di fronte alla fusione di una cultura astronomica formata in oriente e portata dagli Sciti durante le loro tre ondate di invasione con una cultura astronomica autoctona e preesistente, che ebbe la sua massima espressione nella costruzione e nell'uso dei monumenti megalitici ai fini dell'osservazione del cielo. La prima con caratteristiche osservative "a tutto cielo" vicine all'astronomia cinese o coreana e con talune inclinazioni al calcolo riscontrabili nell'astronomia indù e babilonese. La seconda tipicamente d'orizzonte, meno speculativa, ma più orientata alla misura soprattutto della posizione del Sole e della Luna nel tempo. Questa fusione potrebbe dare una spiegazione alla grande tradizione astronomica celtica che solamente negli ultimi tempi sta venendo alla luce.  

 

Alcuni esempi di monete celtiche

1) Moneta d'oro dei Biturigi della Gallia centrale, I sec. a.C., raffigurante presumibilmente una costellazione ai piedi di un cavallo, simbolo del potere temporale (Rouen).

2) Esempio di moneta d'oro di tipo Regenbogenschlusselchen del ripostiglio di Irshing in Baviera, raffigurante due comete contrapposte, II-I metà del I sec. a.C. (Monaco).

3) Moneta d'argento del Norico, I sec. a.C., raffigurante quattro stelle (Vienna).

4) Moneta d'argento del Sud della Gallia del tipo detto "a la Croix", I sec. a.C. (Monaco).

5 e 6) Dritto e rovescio di una moneta d'argento del tipo detto Buschelquinar, con evidenti simboli astronomici.  

 

 

Scheda autore

Adriano Gaspani. Lavora presso l'Osservatorio Astronomico di Brera (Milano), dove attualmente svolge l'attività di system manager presso il locale Centro di Calcolo. Dal 1974 è membro del GEOS (Gruppo Europeo d'Osservazione Stellare). Da molti anni si occupa di archeoastronomia, avendo inaugurato l'applicazione di tecniche di ricognizione e analisi computerizzata di siti preistorici e protostorici basate su Reti Neuronali Artificiali e sulla Fuzzy Logic, con particolare riferimento ai reperti risalenti alla cultura celtica.

 

 


Sommario I megaliti di Aosta